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Autore: radioactive    20/12/2014    3 recensioni
«Sono diventato bravo a guardarla e a capirla». Quella frase lo disturbava – non perché non credesse a Naruto (fondamentalmente, la relazione che aveva con la Hyūga non era affar suo) ma perché ci si ritrovava, in qualche modo, in quella frase. Sakura gli scorreva sotto la pelle, come la linfa degli alberi che si mischiava al suo sangue. Si fermò, per un attimo: Sakura. Il suo nome era sempre sulla punta della lingua ma non usciva mai fuori – era qualcosa di troppo intimo, che lui non voleva condividere con gli altri.
Aveva sempre avuto questa pretesa, Sasuke, di riuscire a rendere migliore tutto ciò che riguardava Sakura. Aveva persino pensato di poter rendere il suo sorriso più vero. Ma non ci credeva fino in fondo – non ancora.
Gli mancava così poco.

|| SasuSaku • 2500 parole • ambientato tra il 699 e il 700, possibile SPOILER! ||
[ non tiene conto degli avvenimenti di The Last ]
[ accenni NaruHina iniziali ]
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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«Mi è sacra. Ogni desiderio in sua presenza tace. Quando sono con lei non so cosa provo;

è come se l’anima si frantumasse e si disperdesse in ogni cellula nervosa».

• I dolori del giovane Werther || lettera del 16 luglio •

 

 

 

 

 

Naruto gli parla sempre di Hinata, di quanto lei sia perfetta per lui. Di come lui fosse stato stupido a non accorgersi di lei prima. «Era invisibile!» diceva, agitando il sakè e chinandosi indietro, mezzo ubriaco, «e lo è ancora, ogni tanto. Ma no, io sono diventato bravo a guardarla e a capirla» ammiccava a quelle parole e poi trangugiava il liquore, scoppiando in una risata fragorosa e battendogli ripetutamente la mano sulla spalla. Poi si dimenticava di Hinata e parlava dei prezzi un po’ aumentati di Ichiraku, del pane della loro forneria che sapeva di lievito più del solito, di Sakura-chan che non vedeva da qualche giorno.

«Sta bene» borbottò Sasuke.

«Oh, sì, non ne dubito…» fece una pausa, cercando di versarsi da bere, «e le galline come stanno, Saske?».

Le galline. Quelle stupide pennute che non facevano altro che svegliarlo la mattina con i coccodè e lo sbattere delle ali. Una volta gli erano entrate anche in casa, graffiando il pavimento e riempiendo il corridoio di terra e piume.

«Stanno bene anche loro».

Parlarono di poco altro: Naruto si impegnava  cercare di ricordare barzellette o passi scandalosi dei libri del maestro Kakashi, ma senza successo. Si rendeva solamente ridicolo davanti agli altri frequentanti del bar e faceva vergognare Sasuke. Se solo le ragazze che gli vanno dietro vedessero quanto è dobe – ma non pensò oltre, non valeva la pena soffermarsi su una cosa del genere.

 

Si salutarono fuori l’entrata del locale e presero due vie diverse. C’era qualcosa, nella testa di Sasuke, ronzava come una mosca fastidiosa che non riusciva ad acchiappare. Assottigliò lo sguardo e infilò le mani in tasca, stringendosi le labbra e umidificandole per non farle screpolare a causa del freddo. Camminò velocemente verso casa, continuando a frugare nella sua testa.

«Sono diventato bravo a guardarla e a capirla». Quella frase lo disturbava – non perché non credesse a Naruto (fondamentalmente, la relazione che aveva con la Hyūga non era affar suo) ma perché ci si ritrovava, in qualche modo, in quella frase. Sakura gli scorreva sotto la pelle, come la linfa degli alberi che si mischiava al suo sangue. Si fermò, per un attimo: Sakura. Il suo nome era sempre sulla punta della lingua ma non usciva mai fuori – era qualcosa di troppo intimo, che lui non voleva condividere con gli altri.

Aveva sempre avuto questa pretesa, Sasuke, di riuscire a rendere migliore tutto ciò che riguardava Sakura. Aveva persino pensato di poter rendere il suo sorriso più vero. Ma non ci credeva fino in fondo – non ancora.

Gli mancava così poco.

La mosca diventò un’ape, e poi un martello che colpiva ripetutamente le pareti del suo cranio e Sasuke poteva giurare di sentire quel gusto di sangue sulla lingua. Non capiva, non riusciva a capire perché l’idea di Sakura gli facesse così male al cervello – si sentiva intossicato di lei, come se fosse un gas inodore e incolore e insapore. E quando aveva scoperto di lei, di quanto le mancasse, era troppo tardi: ne desiderava ancora e ancora fino a vomitarla, a farsela uscire dagli occhi e dal cuore. Tutto nel suo corpo chiedeva di Sakura e lui non sapeva dire di no, perché ne era assuefatto in una maniera incontrollabile.

Ora si sentiva confuso, stordito. Nelle narici c’era il profumo dei capelli di Sakura e nelle mani la sua pelle calda, morbida, ricamata da cicatrici ormai quasi sbiadite e da quelle più nuove, rosse, che avevano smesso di sanguinare sotto le sue carezze e i suoi baci.

Sasuke gliele aveva baciate tutte, con una premura da padre e da amante, sfiorandole con i polpastrelli e con le labbra e con le ciglia. Voleva che guarissero per non vedere più dolore sul suo viso o sul suo corpo – perché il ricordo di quello che lui le aveva causato, di dolore, era già abbastanza. E faceva ancora male ad entrambi.

Ora, lei era a casa, e Sasuke si accorse di star camminando verso quelle mura solo quando attraversò la porta con sopra il simbolo degli Uchiha. Lei era : dentro le mura che portavano il ventaglio bianco e rosso – il ventaglio della sua famiglia  – e lo aspettava. Forse si era addormentata sul divano, o forse sul letto.

Meglio sul letto, si disse, togliendosi le scarpe seduto sull’engawa. Non sarebbe riuscito a portarla dal divano fino in camera, con un braccio solo.

Si fermò di nuovo a pensare. Non sapeva bene cosa gli frullasse per la testa, in quel momento – scorse qualche fiore appassito che volteggiava nel vento e nella nebbia, scomparendo dietro le lenzuola stese ad asciugare. Lo seguì con lo sguardo fino a dove gli fu possibile, trattenendo il respiro.

Sasuke si scoprì mentre amava Sakura – in un modo così sincero da fargli quasi più paura della solitudine e degli incubi. Improvvisamente, tutte le sensazioni di prima – i capelli vicino al naso e la pelle tra le dita – gli sembrarono assolutamente reali e necessarie alla sua sopravvivenza. Non poteva non immaginarsi senza essere disturbato dalla sveglia di Sakura del mattino, o dalle ciliegie che coglieva a inizio estate dai loro alberi. I pomodori, le uova, le stanze sempre pulite e piene d’aria fresca. Perfino gli spazi che lei gli lasciava, pieni di polvere e di impronte solo di Sasuke gli servivano – perché sapeva che Sakura lì non c’era mai stata, e sapeva dove poteva trovarla: appena fuori da quella stanza in cui i ricordi ballavano intorno a lui come ubriachi pronti a deriderlo.

Ridevano di lui e gli sembrava assolutamente impossibile: i suoi genitori lo amavano. E lo confondevano e accartocciavano come una vecchia pergamena, bruciavano il suo corpo con spilli di fuoco e lo abbandonavano lì tra le lacrime. Lui strisciava fuori, con le ossa rotte e i muscoli strappati, e lei lo accoglieva sempre a braccia aperte. Teneramente. Gli leccava le ferite come un cucciolo premuroso e gli parlava della quotidianità, dandogli quelle piccole cose per cui valeva vivere.

«Tra poco sboccerà il mandolo, Saske-kun» mormorava, anche se non era vero, anche se c’era tutto l’inverno di mezzo.

Lui ci credeva, preferiva crederci per sentirsi meglio. Sakura non lo avrebbe mai deluso.

E lui, ora, non poteva deludere lei. Non voleva fare più cose sbagliate e quella di ferirla sarebbe stata la più sbagliata di tutte. Voleva amarla come aveva scoperto di star facendo mentre tratteneva il respiro e guardava le lenzuola svolazzare nel vento e i fiori ballare nella nebbia.

 

Sakura era sul letto, bella come una dea, come i petali di ciliegio che fluttuavano nell’aria e si appoggiavano sullo specchio del laghetto. Le lenzuola la avvolgevano come avrebbe volentieri fatto lui, e Sasuke ne fu quasi geloso.

Si spogliò senza far rumore, con movimenti felini, confondendosi con il buio della stanza. Rimase con la canottiera e i pantaloni e si infilò sotto le coperte, intrecciando i piedi con quelli di Sakura e affondando il viso sulla sua spalla. Profumava di pulito e di dolce ed era qualcosa di lontano dalla guerra e dal sangue.

La sentì sobbalzare e stringergli il braccio. «Saske-kun» disse, assonnata e spaventata – poi solo assonnata. La paura le scivolò via velocemente nell’incontrare la sua sagoma, il calore di quel corpo che sembrava di pietra fredda. Gli accarezzò il braccio e ritornò sulle spalle, affondando le mani tra i capelli. «Sei tornato» disse, e la stanza si riempì del suo respiro.

«Ho fatto tardi, Naruto era mezzo ubriaco e non si staccava dalla bottiglia» borbottò, lasciandole allora piccoli baci sulle spalle, spostandole il collo della maglietta. Ricordava che aveva avuto dei graffi, su quella spalla, e anche se sembravano spariti lui voleva assicurarsi che fosse davvero così. Passò in rassegna ogni millimetro di pelle e la sfiorò con la delicatezza dei petali appassiti che ballavano nel vento.

«Sei ubriaco anche tu?» chiese, quasi ridacchiando, facendo passare le dita sul suo cuoio capelluto e stringendosi alle ciocche. Sasuke la sentiva sciogliersi nella sua stretta e godersi quel momento come se non ne avesse mai avuti. Ed era vero – di un vero che gli faceva male, lo colpiva in piena faccia come una secchiata di acqua gelida.

«No» rispose, appoggiandosi al moncherino e all’altro gomito, risalendo la spalla e la mascella. Ripassò su ogni punto in cui gli sembrava di aver visto, negli anni, una ferita o una botta. Cercò di guarirla da ogni male passato e ogni volta che depositava un braccio sulla fronte e sul naso e sulle guance si prometteva di proteggerla da quelli futuri. E qualcosa dentro di lui si scioglieva come neve al sole. Come se vecchie ferite coperte di sangue secco fossero lavate via con alcool e con baci fatti di fiori. Sentiva caldo e freddo e voleva morire e vivere assieme – piangere sulla pelle di Sakura e lavarle via tutte le lacrime.

Non voleva dirle niente, ma tenere tutto dentro gli sembrava un reato nei confronti di lei. Si sedette, trascinandola con lui, stringendola per la vita curandosi di non avvolgerla più del dovuto, Sentiva il cuore di lei contro il proprio – impazzito, sul punto di morire.

Non abbandonarmi. Non posso farcela da solo.

«Ho pensato a un sacco di cose» le disse, piano, in un sussurro, liberandola dall’abbraccio e accarezzandole la guancia, «ho pensato a te» abbassò ancora di più la voce, passando il pollice sulle sue labbra umide.

La baciò, tenendo la mano sulla sua guancia, chiudendo gli occhi, lasciando che lei si stringesse a lui e gli accarezzasse la schiena con le dita. Si stava lasciando toccare alle spalle – era assolutamente disarmato. Non era un comportamento da ninja, ma lui non lo era più ormai. Niente in lui chiedeva di risplendere e di difendere il villaggio come faceva Sakura, rendendosi utile. Ora, in quel momento, voleva proteggere solo lei. A Konoha avrebbe pensato in un secondo momento.

Si staccò, respirandole sulle labbra, osservando quanto fosse bella sotto i raggi della luna che le tagliavano le spalle e la rendevano piccola e minuta, molto più di quanto non lo fosse già. Sentì il bisogno di abbracciarla e proteggerla.

Invece le sfiorò l’ombelico, sollevandole la maglia, alzandola e lasciando che lei si spogliasse di questa. La fece stendere sul letto e le bacio i seni e tutta la pelle che non aveva ancora ribattezzato quella notte. Le carezze che riceveva in cambio, i sospiri, il suo cuore sotto le proprie labbra. Era tutto coordinato in qualcosa che lui non riusciva a spiegare, che pensava di non meritare ma non poteva fare a meno di lasciarselo sfuggire. Cancellò via ogni dolore con le proprie labbra, strozzando ogni parola che tentava di uscirgli dalla gola: ogni scusa, ogni mi dispiace. Li trasformò tutti in baci e la riempì di quelli, come se fossero fiori e stesse cercando di fare una vestito di quelli, su misura per lei.

 

Si ritrovarono pelle contro pelle. Erano sangue e carne che si mischiavano assieme. Non esisteva nient’altro che loro, quella notte. Sakura abbracciata a lui che gli respirava vicino all’orecchio e seguiva i fasci dei suoi muscoli nelle carezze per renderlo meno teso. Gli sussurrava che lo amava e che voleva stare con lui, che era felice del fatto che lui l’avesse pensata.

Erano come i fiori del mandorlo e del ciliegio che si incontravano per un istante nella notte. Mentre uno sbocciava e l’altro sfioriva. In Sasuke c’era quel desiderio maledetto di riuscire a vedere entrambi gli alberi rigogliosi, uniti e felici. Strinse Sakura per la vita, affondando nella sua spalla mentre quella fantasia si trasformava in un fascio di nervi che si scioglieva e ricomponeva tutte le ferite del suo corpo, metteva a tacere ogni dolore e amplificava quei sentimenti che aveva riscoperto nel guardare i fiori nel vento. Gli offuscava il cervello e lo costringeva a chiudere gli occhi e a baciarla il più possibile. Voleva sentirsi colmo di lei.

L’aveva amata così, lui, quella sera. Come si amano i fiori nel vento – con cautela, senza fargli male, toccandoli con la paura di vederli diventare polvere. Aveva cristallizzato tutto sotto le coperte, baciandola e facendo l’amore con lei. E adesso il suo corpo non faceva altro che andare avanti per prolungare quel sentimento. Voleva sentirne le cellule piene, essere composto di Sakura e poi da acqua e carne e sangue.

Sakura lo faceva sembrare una persona migliore, e lui si concedeva di illudersi di esserlo, quando lei lo abbracciava avvolte nelle coperte e gli accarezzava la guancia e quasi piangeva dalla gioia di essersi sentita così vicina a lui.

Sasuke la strinse a sé, sentendola irrigidirsi. Non lo aveva mai fatto davvero, guardandola negli occhi, lasciando che i loro petti si sfiorassero. Si fece piccola nella sua stretta, mormorando parole che Sasuke non riuscì a capire.

La sentì addormentarsi piano, posarsi sull’acqua come i fiori di ciliegio e scivolare fino alla riva.

Ti amo. Si disse, con una convinzione tale da convincersi di averlo detto. Forse lo aveva fatto davvero.

Ma non importava, in tutti i casi Sakura non aveva sentito.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE

 

Sarò breve perché, nonostante apprezzi sempre le note d’autore, non ho mai veramente voglia di scriverle.

Nulla, secondo tentativo SasuSaku un po’ angst e un po’ romantico, come è nelle mie corde. Non l’ho fatta per un qualche motivo preciso, in realtà, semplicemente mi andava di scrivere qualcosa di fluffangst e loro si prestano sempre bene, nonostante non siano la mia OTP del fandom.

Anyway, quello che c’è da dire è scritto nella fan fiction, tranne per alcuni riferimenti che faccio – e vogliatemene bene lo stesso – all’altra shot che ho scritto su di loro: Senza dir niente a nessuno. In questa sono spiegate le vicende del mandorlo e del ciliegio e spiega un po’ meglio la storia della stanza in cui Sakura non entra mai (nulla di più che la stanza dei genitori di Sasuke dove il nostro brutto anatroccolo ha messo foto e candele per una sorta di capezzale alla sua famiglia).

Detto ciò, mi scuso anche se la scena presente nel banner non corrisponde a nessun momento in particolare della fan fiction, ma è una bella fan art della fantastica Nami64 (su deviantart) che, essendo l’artista preferita di yingsu (che mi muove Sakura quando ruoliamo SS), ci tenevo ad usare.

 

P.S.: se non avete letto I dolori del giovane Werther, sappiate che doveva chiamarsi I dolori del giovane Uchiha.

 

Spero che abbiate gradito

radioactive,

   
 
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