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Autore: Ruta    22/12/2014    4 recensioni
“Molly.”
Qualcosa, nel modo in cui lui aveva pronunciato il suo nome, suonò carico di significato.
Gli occhi azzurri di Sherlock, appuntandosi sul suo viso, espressero per un attimo un sentimento di sollievo talmente radicato che lei si chiese come fosse possibile che una manciata di secondi dopo si fosse già dileguato senza lasciare traccia del suo passaggio.
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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epilogo

Cosa provi?
Era una domanda continua, fornace di un sentimento irrequieto.

Cosa provi?
Se lo chiedeva di continuo. La domanda non aveva sosta, non conosceva tregua nella sua testa. Risuonava in un’eco indistinta e lugubremente monotona nel sottofondo di altri pensieri. 

Molly, cosa provi?
L’emozione era ancora acuminata, vivida, incandescente.
Nell’immediatezza dell’accaduto, salvarli era stato il pensiero primario e durante, guardando Sherlock negli occhi, leggendo sconcertata la fiducia brillare nei suoi, una speranza irrazionale e peraltro sciocca le si era accesa dentro.
Nel dopo era stato il sollievo a farla da padrone e la stanchezza mentale, fisica le si era riversata addosso con l’equivalente forza di gravità di un’intera catena montuosa, insieme alla necessità di riposare.
Tornare a casa era divenuta un’impellenza insopprimibile.

Quale casa?, avrebbe pensato all’alba successiva, rigirandosi inquietamente nell’abbraccio fastidioso delle lenzuola e ritrovandosi con il viso ad un tiro di schioppo da quello di Sherlock.
Quale casa?, aveva riformulato la propria mente.
Casa.
Molly aveva chiuso gli occhi, lottando contro il nodo che le chiudeva la gola. Aveva sperato di averla trovata, ora si rendeva conto di essersi sbagliata.

Forse.
Forse, le bisbigliava all’orecchio il respiro tranquillo di Sherlock contro il collo, il braccio che nel sonno lui le aveva passato attorno alla vita in un’abitudine consolidata, il ricordo intenso delle parole che le aveva mormorato nel suo stato di dormiveglia. (Perdonami. Molly, perdonami.)
Con un senso di profonda inadeguatezza, si chiese a che pro perdonare quando nulla era da perdonare, a che pro farlo con la sicurezza che in futuro, non oggi, non domani, ma un giorno qualunque e non per questo meno remoto, tutto sarebbe stato uguale. Nel domandarselo, nel formulare i propri dubbi, prestando orecchie alle paure più infime che per mesi aveva cercato di tenere a bada, Molly trovò la risposta.
Non era posto per lei, quello. Non adesso. Non ancora. Non finché non avesse fatto chiarezza con se stessa.    
C’era una cosa ancora. Una cosa ancora da fare. Molly si concesse quell’atto di debolezza, riconoscendolo per quel che era davvero.

Non debolezza, mai debolezza.
Scostò con dolcezza i capelli dalla fronte di Sherlock, districando in punta di dita la resistenza degli annodamenti che glieli avevano ingarbugliati. Guardò l’uomo addormentato, perso nell’assopimento della sua ragione altrimenti brulicante di pensieri in fermento.
Una carezza che le bruciò le dita, le marchiò l’anima. Qualcosa che era tenerezza e insieme pura agonia per le migliaia di significati di cui era approntato.

 
*
 

Sapeva esattamente dove si trovava, anche questa volta.
Prima di essere la sua città, Londra era un intrico di itinerari e linee di luce astratta e sfuggente che perfino ai suoi occhi, notoriamente insensibili al richiamo da sirena della bellezza, reclamava un riconoscimento al fascino che essa riusciva a esercitare sull’animo di chiunque.
Nella sua mente, Londra non appariva come una semplice mappa disegnata, mera trasposizione del reticolo urbano di costruzioni e architettura.
Londra era, prima di qualsiasi cosa, i vicoli e i cunicoli in laterizio che cedevano il passo a strade più larghe e percorsi carrozzabili, uno schema che delineava le sue vicende frenetiche, la convulsa ed esaltata corsa contro il tempo, verso un futuro sempre vicino e tuttavia inestinguibile dall’intreccio del presente e del passato che tuttora ne permettevano l’esistere.
Londra era eternità e pietra, ma di un tipo dinamico che non conosceva impasse né stalli o arresti di sorta.
Londra era l’intelligenza mutevole e prudente che occhieggiava dietro facciate di vetro e lastre di metallo; quella del saggio che incessantemente calpestava con i passi del proprio tragitto gli errori altrui, senza intervenire ma lasciando piuttosto che chi li aveva compiuti meditasse e trovasse da sé la soluzione.
Londra era un enigma senza soluzione, un labirinto di imprecisione perfetta.
Londra era il respiro di tutto ciò che rappresentava storia, per altri arte.
Londra, come già detto, era la sua città.
Londra non l’aveva mai tradito nella realtà.
Nei suoi sogni, però, e questa era una faccenda di tutt’altro tipo, aveva preso il terribile vizio di farlo di continuo.

     
*

 
Nei suoi sogni, Molly Hooper moriva ogni volta in modi atroci e sempre differenti.
L’ultimo sguardo che gli rivolgeva prima dell’attimo finale era uno di indicibile tristezza. – Mi dispiace – diceva ogni volta e le parole, pronunciate da lei, suonavano come una maledizione, così il sorriso che aleggiava sulle sue labbra sottili, malinconico e insieme dolceamaro.
Sherlock avrebbe voluto trattenerla, ma anche quella notte, come le altre che l’avevano preceduta, lei gli scivolò lontano come olio sull’acqua.
La sua testa bruna era illuminata dalle luci artificiali dei lampioni che proiettavano sul suo viso ombre che altrimenti non vi avrebbero trovato posto.
Al collo di lei non brillava alcun ciondolo. Era lui ad averlo nella tasca, invece, come promemoria del proprio fallimento.
Quando l’ora scoccò e i rintocchi del Big Bang ne scandirono il passaggio, Molly strinse più forte il comando a distanza che teneva tra le mani, le nocche bianche per la forza impressa, gli occhi lucidi e febbrili sopra le guance pallide, umide delle lacrime che lei aveva pianto sotto il suo sguardo impotente.
Non questa notte, pensò lui ferocemente. Il passo che era stato sul punto di fare gli fu reso impossibile da un impedimento intangibile. Nell’attimo successivo lei pronunciò le fatidiche scuse e l’ombra dell’inevitabile sorriso accompagnarono l’esplosione.
Molly Hooper saltò in aria davanti a lui, sotto il cielo e il Tamigi illuminati a giorno dai fuochi d’artificio.

 
*

      
Nel proprio palazzo mentale, Sherlock percorse di corsa e facendo affidamento alla memoria il tragitto che lo avrebbe condotto fino a lei.
Non era sicuro di trovarla, riuscirci era diventato più difficile di quanto non fosse stato in passato.
Molly Hooper non era più confinata alle fondamenta, là dov’era sempre stata, al sicuro nelle sale con mattonelle bianche e pavimenti lucidi che ne magnificavano la figura armoniosa, ne mettevano in risalto le qualità e abilità indiscusse.
Molly Hooper aveva ormai libero accesso ad ogni ambiente dei piani superiori e trovarla, nel dedalo della propria coscienza, richiedeva un’applicazione che prima non era mai occorsa. 
La trovò in una delle zone più vecchie, una che non gli capitava di visitare da anni, dietro una porta dal pomello scurito.
La polvere accumulata sulle mensole e sui soprammobili, la tinta scolorita della trapunta stesa sul letto, i mille appunti e i marchingegni che imperavano sulla scrivania sotto la finestra semiaperta, con i tendaggi smossi dal vento, tutto era esattamente come lo ricordava.
Il paesaggio, al di fuori, era quello della sua infanzia: il retro di una casa di campagna, un giardino autunnale con siepi potate di recente e un silenzio pacifico interrotto dal rumore di un tosaerba e ad intervalli irregolari dall’abbaiare festoso di un cane.  
Molly era seduta in un angolo, tra l’armadio e il termosifone. Non indossava il camice da laboratorio e portava i capelli sciolti come in occasione del Natale in cui lui aveva riconosciuto il cadavere di quella che aveva creduto essere La Donna.
Indossava un maglione turchese.
Sherlock le si accostò. Lei non sollevò la testa e continuò a tracciare composizioni decorative sul pavimento. Altri avrebbero disegnato animali o fiori o qualunque altra sciocchezza priva di utilità, non lei. Usando un bastoncino preso dal suo piccolo laboratorio di chimica, Molly Hooper stava abbozzando la struttura del sistema muscolare umano e questo, oltre al fatto di vederla del tutto a suo agio nella camera da letto di quando era bambino, smosse qualcosa.
“Molly,” la richiamò piano, ma con un’urgenza crepitante. “Vieni qui.” Lasciati toccare.
Un lieve acciglio le increspò la fronte. Quando sollevò il volto, lo fece per fissarlo con professionale efficienza, ma senza alcuna scintilla di calore. “Mi dispiace, ma sono una proiezione del tuo subconscio,” gli ricordò, atona. “Mi trovo qui perché mi hai voluto tu. La tua memoria mi ha reso una versione fedele e anche se ciò che rappresento è il desiderio che provi per lei, non posso assecondare la tua richiesta perché Molly Hooper non lo farebbe.”
Sherlock le tese una mano che lei non accettò, ma si limitò a fissare, stranita.
“Io non sono Molly Hooper,” ripeté lei. “Sono soltanto una parte di te che preferisci che ti venga mostrata in una forma che ti è gradevole, con cui ti risulti più facile rapportarti e di cui tu possa fidarti istintivamente, in caso di bisogno.”
“Molly, per piacere.”
Per un momento lei tacque, studiandolo tra le ciglia socchiuse. La polvere con cui aveva giocato le danzava intorno al viso, minuscole particelle grigie come una pioggia di cenere. “Non sono Molly Hooper, ma qualcosa posso fare.” Si sollevò dal pavimento e senza accennare ancora a sfiorarlo, si alzò sulle punte e avvicinò la bocca al suo orecchio. Il suo respiro fu l’unica carezza che ricevette. “Vieni a cercarmi fuori dalla tua testa, Sherlock Holmes.”
Sherlock chiuse gli occhi, ispirando profondamente il ricordo del profumo floreale di lei, come se fosse concreto; li riaprì per fissare il riflesso dello specchio nel proprio appartamento.  

 
*

 
La situazione era proficua sotto molti punti di vista per John Watson.
Innanzitutto lo era nell’opportunità di seccare Sherlock, dal momento che dare fastidio a Sherlock, quale che fossero le modalità e le ragioni, rappresentava una golosità irrinunciabile.  
Perciò, quel lunedì pomeriggio di fine settembre, John si ritrovò stravaccato sulla sua poltrona rossa, concedendosi uno dei piaceri che gli risultavano maggiormente graditi: farsi giustizia a modo proprio.
“Da quant’è che non vedi Molly?”
In risposta ottenne un grugnito.
“Due settimane, giusto?” perseverò, insensibile all’occhiata truculenta ricevuta in pegno da Sherlock. 
“Dodici giorni,” lo corresse Sherlock automaticamente e si sfregò il collo con l’archetto del violino. “Non che li abbia contati.” Come in preda a un ripensamento, incurvò la bocca in una smorfia, visibilmente contrariato dalla defaillance in cui era caduto.
John ebbe la clemenza di non sottolineare la contraddizione di quella sua aggiunta, tuttavia non si astenne dal sorridergli nel modo vitreo e indisponente di chi la racconti lunga. “Ovviamente,” osservò compunto. Una pausa e poi riprese: “Il miglior antidoto al dolore è il lavoro*. C’è parecchio dolore nell’aria, non trovi Mary?”
Mary non sembrava dell’umore tenero che solitamente l’avrebbe resa complice perfetta nel suo attentato alla tutto-fuorché-stato-di-calma di Sherlock. Gli dedicò soltanto un’occhiata, prima di continuare la deliziosa canzoncina con cui stava addormentando Katie.
“Dovresti sul serio andare a trovarla,” intervenne inaspettatamente qualche minuto più tardi, quando ormai Katie dormiva tra le sue braccia.
“Non ne vedo le ragioni,” replicò Sherlock e il suo tono da bugiardo incallito trasudava sincerità.
Mary lo valutò con un sorriso risaputo. “Bugiardo.”
“Mi sembra abbastanza ovvio,” intervenne John che, a dirla francamente, non sopportava la lentezza con la quale i diretti interessati sembravano disposti a crogiolarsi nella corrispettiva indeterminatezza e con cui stavano gestendo l’intera faccenda. “Molly si aspetta delle scuse.”
Sherlock arricciò il naso come sempre faceva quando fiutava qualcosa di irritante per i propri nervi o in alternativa di mortificante per il proprio ego smisurato. “Per cosa?”
John strabuzzò gli occhi, guardando Mary con una faccia che era rassegnata e ilare e furibonda allo stesso tempo, una che stava a domandare ‘sta scherzando, vero?’ e ‘ti prego, dimmi che sta scherzando’.
Il volto di Mary non si lasciò scalfire da quell’ultima, assurda richiesta di delucidazioni; non batté ciglio e ne prese atto come qualcosa di ovvio e perfino banale. “Devi riconquistarla,” chiarì a scanso di ulteriori equivoci.
Sherlock voltò la schiena e riprese il violino, non prima di aver sbottato: “Che cosa ridicola.”
Quando un’ora più tardi John lo vide prendere il cappotto e annunciare che usciva, né lui né Mary furono sfiorati dall’idea balorda di stuzzicarlo sulla destinazione altamente scontata.
Lo videro scomparire giù per le scale con passi che trasudavano risoluzione.
(“Ha davvero ragione, sai,” si permise di far notare a Mary, una volta che Sherlock non fu più a portata di orecchi. “Fargli credere che Molly vada conquistata. Lei è già bella che pronta.”
Mary si chinò per sfiorargli la bocca con un bacio, lui intercettò un brillio divertito ed enigmatico attraversarle gli occhi. “Lo sono entrambi.”)
E lo videro ricomparire poco più tardi con la tempesta nello sguardo.

 
*

 
Sherlock si ritrovò a spostarsi nei corridoi del Bart’s con l’aria di qualcuno che, molto probabilmente, avrebbe preferito trovarsi a mille miglia di distanza o in alternativa sul ciglio del baratro.
Molly scartò l’ultimo pensiero con il dispetto pentito di chi si scopre a provare un fastidio che invece non dovrebbe, vorrebbe provare.
Con un cenno chiamò un’infermiera che le stava passando in quel momento di fianco e la pregò di andare a riferire a Mr. Holmes che ‘mi dispiace, ma stamattina la Dottoressa Hooper non si è presentata. Vuole riferire a me?’.
Sapeva che lui non ci avrebbe creduto, che avrebbe rivelato la menzogna dalla mimica facciale di lei o molto probabilmente sarebbe stato lo stesso intuito a pilotarlo sulla soluzione più probabile: che lei non volesse incontrarlo e che pur di evitarlo si fosse spinta al punto di pregare qualcuno di mentirgli.
Osservò l’infermiera che si avvicinava a Sherlock e gli riferiva il messaggio e osservò il modo in cui lui lo accolse. Non con rabbia, ma con un’espressione che era a metà strada tra l’essere anticipazione e il diventare contrarietà e che lo stesso rivelava tracce di delusione e disappunto nel modo in cui lui aggrottò le sopracciglia, nella contrazione di un angolo di bocca verso il basso.

Oh, pensò Molly.
Quando lui voltò le spalle e alzò il bavero del Belstaff, allontanandosi rigidamente, lo sconforto e la sensazione pungente agli occhi non erano la reazione che si era augurata. 
Si diede dell’idiota.

 
*

 
Molly sapeva di trovarsi in un sogno. Si trattava di un sogno familiare, ormai regolare nello zelo assillante con cui si affacciava a disturbare le sue notti.
E nonostante sapesse, sentisse con ogni fibra del proprio essere di trovarsi nella sfera fasulla del mondo onirico, Molly non riusciva a evitare di provare quello che provava ogni volta, che immancabilmente la stava attanagliando anche in quel momento.

Ansia. Terrore. Senso di colpa.
Era una notte stellata e nel sogno le stelle parevano maledettamente grandi e vicine, in un cielo blu turchino troppo pulito per esistere davvero.
Sullo sfondo di quel cielo, si stagliavano il Big Bang e il Parlamento, forme dirompenti di un’eleganza squisita e secolare che, forse proprio per questa loro natura, non sembravano essere elementi di disturbo, ma complementari e risolutivi alla perfezione del paesaggio circostante.
Le acque del Tamigi dietro di lei non erano la cosa torbida e mulinante dei propri ricordi, ma fluivano docilmente e riflettevano il cielo come se ne fossero un prolungamento.
I lampioni del ponte non erano accesi, tuttavia gli occhi di Molly osservavano tutto, si posavano su ogni dettaglio, registrandolo con l’acutezza di sensi di un gatto.

Toby, ricordò con una fitta di dolore e la scia di quel dolore le portò lui. (Neppure al principio, quando non era ancora amore ma qualcosa di più mutevole e ugualmente difficile da gestire, quello che provava per Sherlock era stato esente da trafitture articolate e piene di spasimo.)
Lo vide attraversare la strada vuota e ogni passo di lui le risultava tanto doloroso da trasmetterle l’impressione che non stesse calpestando la pavimentazione asfaltata quanto piuttosto  frammenti di qualcosa dentro di lei, parti che erano rimaste inviolate per anni, rese irraggiungibili e segregate in luoghi lontani, segreti, invisibili agli occhi di chiunque. Mai ai suoi, ma non per propria scelta o per non averci tentato abbastanza.
Sherlock le fu di fronte e il cielo di colpo perse brillantezza per dare maggiore risalto ai suoi occhi e l’oscurità si accese di una luce fioca, opaca, come per rendere omaggio a un’avvenenza fin troppo consapevole del suo potere e del giogo che, proprio in virtù di questa, era in grado di esercitare sugli altri
Lui la guardò e il tradimento sembrava scolpito nel suo volto spigoloso.
Fece per parlare, dirgli che le dispiaceva, il ricordo di come se n’era andata senza una parola di spiegazione le rimordeva la coscienza, ma la voce di lui interruppe quei pensieri con prepotenza. – Non posso salvarti, Molly – stava dicendo con qualcosa di simile al rammarico nella voce – non questa volta. –
Molly si ritrasse come se lui l’avesse colpita.
Un’altra presenza, allora, la presenza dell’altro si interpose, acuendo una distanza che non era quella tangibile tra di loro, ma tra le loro intenzioni talmente simili e ciò nonostante così discordanti. Salvarlo, salvarla, a discapito di se stessi.
La figura d’ombra delineata apparteneva a Tom – no, a Moran, si corresse. Ma era Tom che lei aveva conosciuto, che si era illusa di amare. Era a Tom che aveva consacrato le possibilità di un intero futuro poi sfumato in nulla di fatto. A Tom aveva affidato le proprie speranze, le fiducie di una vita in comune, le mille opportunità di anni insieme. Come nel caso di Moriarty, che per lei non era mai stato James, che sarebbe sempre rimasto Jim, non poteva pensare a Tom unicamente come a Sebastian Moran.
Questo non la rendeva necessariamente debole o incapace di andare oltre, di affrontare la semplice realtà dei fatti. Al contrario, sperava Molly, la rendeva più sensibile all’inganno, alla ferita che esso comportava. Serviva a ricordarle le facce della falsità e che la menzogna poteva nascondersi nel volto di ognuno, anche sotto le spoglie più insospettabili.
Al suono della risata fredda di Tom, questa versione che le era estranea e sgradevole quanto l’altra non lo era stata mai, Molly rabbrividì.
Tom era di fianco a Sherlock e Molly si rese conto dolorosamente dei fattori di somiglianza che, pur se approssimati e unicamente estetici, li accomunava.
Non senza una certa pena si chiese se altri l’avessero notata, ma fu il timore di un attimo. Non era per la sua cosiddetta rassomiglianza a Sherlock che aveva amato Tom, ma proprio perché non somigliava a lui, in un unico se non primario fattore: l’amore per lei. Tom l’aveva amata in modi che lei sapeva che Sherlock non si sarebbe mai permesso. Non per incapacità, ma perché provarli era una distrazione. Amare lei era un errore.
- No, piccolo topolino – convenne Tom con un sorriso di puro cinismo – perché avrei dovuto? Ricordi come finisce la storia, vero? La tua è una maledizione, Molly Hooper, perciò dimmi, chi potrebbe amare una persona maledetta? –
Molly si piegò in due, si coprì le orecchie con le mani, ma la voce di lui superava ogni ostacolo, le mostrava immagini che lei non avrebbe mai voluto rivivere. Le immagini erano proiettate attorno a lei sopra un nastro di oscurità che la circondava e le si chiudeva attorno come un cappio che andava facendosi via via più stretto.

Ogni persona è degna d’amore, cominciò a ripetere a se stessa. Ognuno merita di essere amato.
- Ognuno si conquista esattamente quel che ha. Si procura in base alle azioni che lo vedono padrone la dose di felicità e infelicità che riceve – la corresse Tom, senza mostrarsi e preferendo rimanere nel buio che ormai le spadroneggiava attorno.
Molly ebbe lo scorcio dell’ennesimo sorriso freddo prima che il volto a cui quel sorriso apparteneva ritornasse visibile: il volto era quello di Sherlock. Non lo Sherlock degli ultimi anni, gli anni dopo La Caduta, ma quelli direttamente antecedenti ad essa, al momento di bisogno che li aveva fatti avvicinare.
Molly lo rivide per com’era stato, scrutò nei suoi occhi: occhi pressoché estranei che si cullavano nella convinzione di esserle estranei, quasi si trattasse di un sollievo; occhi che in quella bugia avevano trovato il loro assolvimento. Anche quegli occhi che smaniavano per risultare distaccati, al di sopra del resto misero e umile, anche quegli occhi lei aveva amato, forse perfino più accanitamente.
- Non ti amo, Molly Hooper. – Gli occhi di Sherlock la consideravano con disinteresse, un azzurro limpido e impassibile in cui non brillava alcun sentimento; la voce di lui era priva di qualsiasi inflessione.
Molly si diede della sciocca per la fitta di amarezza che quell’ammissione le aveva provocato. La ingoiò come una medicina aspra, ma necessaria alla sopravvivenza.
Gli si avvicinò. Il sogno o incubo, o qualunque fosse la natura che il suo subconscio stava dando al sonno quella notte, cambiò nuovamente sfondo: il cielo di prima era tornato ed era sopra e sotto di loro, una distesa violacea con una cascata infinita di stelle bianco argentee e costellazioni dorate di cui non conosceva i nomi.
Molly gli posò una mano sulla spalla e risalì lenta fino al collo di Sherlock. – Lo so – replicò con calma. Le sue dita trovarono un impedimento, alla base della gola di lui, poco sotto il mento e lì restarono. – So accettarlo adesso. –
Le sue dita tirarono e la faccia di Sherlock cadde come una maschera, palesando quel che c’era al di sotto.

      
*

 
Sherlock si reggeva alla trave del camino, la testa reclinata, la schiena incurvata in un arco semi-perfetto. Appariva pensieroso, impenetrabile nella gabbia delle sue riflessioni. Non sembrò accorgersi di lei fino a quando Molly non chiuse la porta dell’appartamento. Solo allora si voltò e la sua espressione era talmente stupefatta da rasentare il ridicolo.
“Molly.”
Nel suo nome, in quell’unico punto-spettro di domanda c’era l’intreccio di tutte le congetture che stava vagliando, una ad una, per spiegare la sua presenza lì.
Molly si sfilò i guanti.
Sherlock aggrottò le sopracciglia. Lesse tra le righe la sua rabbia, il dispetto che affogava in qualche forma disperata, o più semplicemente la intuì dalla postura rigida delle sue spalle, dal modo in cui aveva serrato i pugni, dall’aria torva con cui era sicura di squadrarlo.
“Hai perso altro peso dall’ultima volta che ci siamo visti. Devo immaginare che la causa sia -”
“Il mio peso non deve riguardarti,” lo stroncò Molly sul nascere.
Questa volta Sherlock non badò a nascondere la sorpresa. “Mi preoccupo per te.”
Già quella dichiarazione, un tempo pura utopia, faceva capire quanto in Sherlock del personaggio Sherlock fosse stato rimosso per riscoprire l’uomo prima del consulente investigativo. Tuttavia l’intelligenza brillante e perspicace, l’ironia acuminata e il sorriso a doppia lama erano rimasti immutati, erano costanti irrinunciabili del suo essere se stesso.   
“Davvero?” chiese Molly. Si spostò verso il centro della stanza, dietro la poltrona nera che apparteneva a Sherlock. Voleva distanziarlo, mettere quanto più spazio possibile tra loro, quantificare il baratro che lui aveva sottolineato una volta di più. “Ti sei preoccupato per me anche quando eri su un aereo, pronto a lasciare Londra per sempre?”
Ed ecco, Molly poté quasi sentire il click della serratura che si apriva, il rumore del ragionamento che si accartocciava su se stesso. Gli aveva offerto la risposta su un piatto d’argento, privandolo dell’opportunità di prodursela.
Se provava rimorso per quello che aveva fatto, lei non ne ravvisò i segni pentiti né scorse anche la più piccola impronta di qualsiasi altro sentimento. In effetti il viso di lui era come una maschera chirurgica, vuota di qualunque umanità ed espressione.
“Tu sai cosa provo,” lo accusò. “Lo sapevi già allora e lo stesso non mi hai permesso di dirti addio.”
“A quale scopo?”
La voce di lui, invece, era polvere da sparo. La scintilla di fuoco toccava a lei stabilire se appiccarla oppure no.
“Non stava a te deciderlo. Quando l’ho scoperto,” Molly ingoiò il groppo che aveva in gola, una specie di grosso rospo ruspante, “hai idea di come mi sia potuta sentire? Tradita. È quello che ho provato. Perché? Anche prima di questo,” con questo lei intendeva ciò che era successo negli ultimi sei mesi, “dopo tutto quello che c’è stato prima, ero arrivata a credere che potessimo considerarci
amici.”
“Non dire assurdità, Molly.”
Molly si ritrasse di fronte al tono aspro che lui aveva usato. “Non sono qui per litigare,” lo avvertì.

Sherlock le rivolse un sorriso supponente, uno che lasciava intendere quanto quell'affermazione gli risultasse fittizia e che non si sarebbe lasciato incantare dalle buone intenzioni professate.
Perché sei qui, allora?
Questo sembravano domandarle gli occhi di lui.
Molly rialzò il mento, cercando di porre un freno al prurito che provava alle mani, quella cosa smaniosa e annientante che la divorava dal basso ventre. Toccarlo. Nelle ultime settimane aveva sognato ad occhi aperti, nella luce del giorno e quando gli incubi erano tenuti sotto chiave, di setacciare la consistenza dei suoi capelli, di perdersi a scremare in punta di dita ogni millimetro di –
Molly si schiarì la voce ed evitò di guardarlo direttamente. Le era parso, per un attimo, di leggere in Sherlock lo stesso sbaragliante desiderio contro cui lei poneva strenua resistenza, ma si era trattata di un’illusione, la convinzione di poco, ne era certa.     
“Sono qui per avere delle risposte,” proseguì come se nulla fosse accaduto, non ci fosse mai stata alcuna interruzione.
Anche quella era una bugia. Le risposte le aveva ottenute subito, già da tempo, tramite Mary e John. Era stato il loro modo per chiederle scusa per averle taciuto tante piccole informazioni preziose tanto a lungo. Molly li aveva perdonati, ovvio che lo avesse fatto. Erano la sua famiglia d’altronde.
“Delle risposte,” fece eco Sherlock. “E che risposte siano allora.”
Qualcosa, nel modo in cui lo disse, le fece capire che una volta di più lui aveva letto dentro di lei, attraverso le sue azioni e che quanto aveva intravisto lo aveva irritato e lasciato insoddisfatto in uguale misura.
Con un gesto elegante della mano Sherlock le fece cenno di accomodarsi sulla sua poltrona.
Molly preferì deliberatamente andare a sedersi su quella di John.
Con un sorriso divertito, Sherlock si accomodò sulla sua e prese a tamburellare sui braccioli. “Cosa vuoi sapere, Molly? Dubito che i Watson ti abbiano lasciato all’oscuro su qualsiasi punto del piano.”
“Il piano.” Lei cercò di non darlo a vedere, ma già solo l’accenno l’aveva turbata ed era come rigirare il dito in una ferita che aveva a malapena cominciato a formare del tessuto cicatriziale. “Non voglio sapere nulla del piano elaborato che tu e tuo fratello avevate organizzato. No, quello che voglio sapere è perché non hai ritenuto necessario informarmi; cosa ho fatto perché tu –” esitò e batté le palpebre per cercare di disperdere il velo che le aveva oscurato la vista. Sembrava che quel particolare avesse prodotto un insospettato cambio di comportamento in Sherlock. Ora appariva curiosamente a disagio e turbato. Molly non pianse. No, non avrebbe pianto, se n’era fatta un punto d’onore. Trasse un respiro vibrante e cercò di riprendere con ritrovata calma: “Perché tu non ti fidassi a sufficienza o quantomeno abbastanza da confidarti con me.”
Sherlock si chinò in avanti e un inspiegabile lampo di trionfo sfrecciò nel suo sguardo. “Dunque è questo il problema.”
Molly fece una smorfia. “Non è questo il problema o meglio, non solo. Oltre all’avermi intenzionalmente tenuta all’oscuro del piano, il che posso comprenderlo e perfino accettarlo riconoscendolo come un tentativo di proteggermi, c’è il fatto che tu mi abbia mentito su tutta la linea. Sapevi che era stato Tom a piazzare quella bomba –”
“Moran,” la troncò lui.
“Come?” domandò lei, presa contropiede e stupita dall’interruzione.
“Sebastian Moran, Molly.” Lui roteò gli occhi, impaziente.  “Non vedo perché dovremmo ostinarci a chiamare con altri nomi – ”
“Per rimanere in tema di cose chiamate con altri nomi, Sherlock, cosa siamo noi due?”
Sherlock si tirò indietro. “Cosa intendi?”
“Intendo dire esattamente quello che ho detto.” Molly aveva un sapore amarissimo in bocca, come di bile. “Devo saperlo. In questi ultimi mesi, quello che è successo tra noi, è stato solo un modo per tenermi a bada? Per –”
“Rabbonirti?” concluse Sherlock velenosamente. Non c’era cattiveria nella sua voce, neppure sarcasmo, ma qualcosa la cui natura Molly non riuscì ad afferrare appieno e perciò fu ben lontana dal comprendere. Gli occhi di Sherlock la scrutarono per un lasso di tempo lunghissimo. “No,” disse infine e Molly rilasciò di colpo il fiato che non si era accorta di trattenere, smise di premere le labbra tra loro. Il dolore al petto non diminuì, si affievolì soltanto. “Quello non era previsto.”
Molly si limitò ad annuire. Non credeva che sarebbe riuscita a reggere il confronto con il suo sguardo, non senza crollare. Sapeva che lui non avrebbe potuto mentire fino a quel punto. Certo, in passato alcuni particolari episodi – uno in particolare, Janine – le aveva dato motivo di credere che lui ne fosse del tutto capace, ma aveva sperato che almeno con lei, per il rapporto di amicizia e stima reciproche che negli anni si era illusa che fosse venuto a crearsi tra loro, che lei fosse ormai del tutto immune a queste pratiche di menzogne. Aveva sperato di essere riuscita a conquistarsi un angolino, a riservarsi uno spazio tra gli affetti di lui, che le valesse come riconoscimento il premio della sua sincerità.
Ora lui l’aveva rassicurata che era davvero così, che almeno su questo non le aveva mentito ed era come se le fosse scivolato un peso incredibile dal cuore, era come se lei potesse tornare a respirare liberamente per la prima volta dopo due settimane di apnea.
“Molly.”
Se non l’avesse ritenuto impossibile a priori, Molly avrebbe detto che ci fosse una nota dolente in come aveva pronunciato il suo nome, di incertezza e dubbio e timore.
“Sto bene,” disse e azzardò una rapida occhiata al viso di lui.
Sherlock le restituì lo sguardo con uno intenso e carico di cose che Molly preferì non decifrare, su cui decise di sorvolare per il momento. Doveva mantenersi lucida.
“Cos’altro vuoi sapere, Molly?” domandò Sherlock.

“Toby,” rispose immediatamente Molly.
“Toby.” Sherlock annuì. Si portò le mani al viso e poggiò i polpastrelli gli uni contro gli altri, davanti al naso. “Dovevo fargli credere che avesse libero accesso a Baker Street. Per quanto soggiogato a Moriarty, Moran non è Moriarty. A differenza di Moriarty, lui ama agire in prima persona, sguazzare nel fango della trincea, sporcarsi le mani. Non si fida di nessuno che non sia se stesso. Moriarty aveva Moran, Moran ormai solo se stesso. Questa volta non c’era nessuna rete sotterranea, non c’erano uomini da manovrare. Soltanto uno da portare allo scoperto, ossessionato dalla vendetta. Era tutto perfettamente sotto controllo, ma poi tu –” qui lui si arrestò, guardandola con occhi carichi d’astio. 
Molly non se ne fece un cruccio. Intrecciò le mani in grembo, quieta. “Io ho rovinato tutto.”
“Perché sei andata, Molly?”
La domanda giungeva inaspettata e ciò nonostante, pensava lei, non le aveva chiesto come avesse potuto farlo, ma perché. E nel coraggio che il tradimento aveva richiesto, Molly provò anche uno scampolo di piacere farsi largo nel petto. Entrambi non erano tipi da ‘come’, ma da ‘perché’, bambini alla ricerca continua di risposte. “Perché non avevo scelta.”
A quello, Sherlock ebbe un moto di fastidio e mosse la mano nel vuoto come se potesse dipanare ciò che lei aveva detto o scacciarlo dalla propria memoria. “C’è sempre una scelta.”
“No, non sempre,” ribatté lei. “A volte puoi solo scegliere per chi morire, non il modo in cui farlo.”
Gli occhi di Sherlock si incupirono. “Tu hai scelto la morte.”
“Anche tu.”

Oh, oh. Vedeva il rimorso, ma quello stesso rimorso non trovò voce in scuse. Non che Molly ne desiderasse. Poteva capire cosa lo avesse convinto ad agire in quella maniera, accettarlo, perfino perdonarlo, ma non poteva non soffrirne e soffrendone non poteva non amarlo tanto di più, tanto più dolorosamente, completamente, disperatamente.
Aveva mai pensato a lei? Non nel momento decisivo, ma dopo, quando l’adrenalina aveva lasciato di colpo la presa serrata e il vuoto della fine aveva preso il sopravvento. Il vuoto di quella che sarebbe stata la sua vita, di tutte le possibilità sfumate, delle occasioni che nessuno dei due si era concesso. In quei quattro minuti, su quell’aereo, aveva mai pensato a lei?
“Ho ucciso. Non nego che lo farei di nuovo se servisse a salvare la vita tua o di chiunque altro tra noi. Puoi amarmi lo stesso? Nonostante l’inconfutabilità che fa di me un assassino?”
Molly lesse la trepidazione, l’inquietudine con cui lui la esaminava, intanto che aspettava che lei gli rispondesse.  
“No,” rispose e vide l'ombra che inesorabilmente gli velava il volto; il freddo che di nuovo calava su quegli occhi e che non era distacco, ora capiva finalmente, non lo era mai stato.

Non riusciva a vedere, Sherlock? Proprio non capiva?
Molly si alzò per portarsi di fronte a lui. Gli pose le mani ai lati del viso e lo costrinse a guardarla. “Ti amo proprio perché credi di essere un assassino.” Ma non lo era, non lo sarebbe mai stato. Molly sapeva vedere il mondo attraverso gli occhi di lui, poteva intuire le gradazioni di bianco e nero in cui lui catalogava le persone e sapeva che c’erano nicchie apposite, squisite, create su misura per lei, John, Mary, Mrs. Hudson, Greg e la lista si allungava ogni anno, ogni volta che una placca della corazza di Sherlock cadeva e lui ne rimaneva ferito inesorabilmente. Il mondo non avrebbe mai capito Sherlock Holmes, la sua grandezza, tantomeno avrebbe potuto amarlo. Ne avrebbe ammirato l’immagine iconografica, da lontano, ma senza conoscerne la reale e più intima grandezza.
Sherlock aveva sgranato gli occhi e la sua meraviglia deliziò Molly, la fece sorridere. “Anch’io ho ucciso, Sherlock,” gli ricordò con dolcezza. “L’ho fatto, una volta. Ho ucciso per te e lo rifarei mille volte se necessario.” Se tu me lo chiedessi.
Se avesse potuto e se non ci fossero state le sue mani ancora a trattenerlo, Sherlock avrebbe scosso la testa. “Quello che dici non ha senso.”
“Non ne ha mai avuto per te,” ribatté lei con un sorriso che sapeva bene quanto gli sarebbe risultato inesplicabile.
“Ne ha sempre avuto per me, ma per il resto del mondo non ne ha, con ogni probabilità non ne avrà mai. Non ti infastidisce, Molly?” Sherlock inarcò le sopracciglia, la luce nei suoi occhi brillava di nuovo, intensa e speranzosa. “Dovrebbe.”
“Ti sembro normale?” Ora che parte della tensione che l’aveva tormentata fino a quel momento era scomparsa, Molly si permise di rilassarsi. Ridacchiò persino. “Sego ossa e faccio autopsie e mi piace.”
Sherlock non si concesse ammissioni di divertimento, il suo armistizio si delineò semplicemente nel bagliore compiaciuto e nell’accennarsi di un sorriso. “E ami me.”
“E amo te,” acconsentì Molly, come se si trattasse di un dato di fatto, quale difatti era, “ma non sono l’unica, sai.”
Sherlock allungò le dita per sfiorarle la guancia con un movimento esitante e risoluto. “Sei stata la prima di cui mi sia importato conservarlo.”
Molly sorrideva quando si chinò a baciarlo. Ad occhi chiusi percepì che il sorriso aveva trovato finalmente posto anche sulle labbra di lui.

 
*

 
“E così… Tom. Ho di certo un tipo, allora.”
Molly rise, sentendosi rilassata e completamente a proprio agio tra le braccia di Sherlock.
“Non essere assurda, Molly,” le soffiò all’orecchio Sherlock, suonando infastidito. “Tu non hai un tipo. Hai me o in alternativa pallidi spettri, effimeri miei riflessi distorti.”
Molly decise che non era il caso di fargli notare che entrambi quei suoi ‘effimeri riflessi distorti’ fossero in effetti personalità affette da seri disturbi ossessivo compulsivi.

 
*

 
John Watson si godeva il tiepido sole pomeridiano di quella giornata ottobrina. Il parco era popolato dalle risate di bambini che giocavano nella pioggia delle foglie autunnali. Si beava alla vista di sua moglie e di sua figlia che sceglievano i tipi più belli per portarne qualcuna a casa.
“Cosa ha deciso la Commissione?” domandò tranquillamente, per nulla toccato dalla presenza al suo fianco.
Mycroft Holmes avrebbe potuto apparire fuoriposto nell’ordinario contesto dei Kensington Garden. Stranamente non lo era. Lui stesso pareva in pace, come se fosse stato sgravato di un’incombenza che a lungo lo aveva impensierito, o più precisamente che a lungo aveva occupato un posto predominante tra le sue preoccupazioni.  
“Una Commissione convocata per Sherlock Holmes,” commentò, battendo l’ombrello su una foglia e poi togliendola dalla punta come se si trattasse di un insetto. “Di certo non è la prima e posso affermare con relativa sicurezza che non sarà l’ultima.”
John buttò la testa all’indietro e rise. “Nah.”
“Ha fiducia nell’avvenire, John?”
“Certo, in quello e in lui,” rispose con la massima serietà, senza reprimere un sorriso. “Io credo in Sherlock Holmes.”

 
*

 
“Ti sei dimostrato insospettabilmente utile, in questa circostanza. A tal punto,” narici dilatate, respiro profondo, Mycroft sembrava pronto ad azzannare Sherlock al primo accenno di una risposta mordace, “che ti è stata accordata la grazia.”
"Quale insperata fortuna.”
Una gomitata da parte di John e un’occhiata inequivocabile di Molly misero a tacere il resto del discorso che Sherlock ben volentieri completò nella sua mente.
“Sei libero, Sherlock,” proseguì Mycroft e ogni parola sembrava costargli un pezzo di organo, forse il fegato. “Per ora. Miss Hooper di sicuro pone un freno al tuo essere incredibilmente irragionevole.”
E rivolse a Molly un arricciamento sospetto che poteva essere, secondo indizi ambivalenti, considerato proprio un sorriso.

 
*

 
Ogni probabilità era contro di loro, contro la loro felicità.
Avrebbero discusso. Probabile.
Ci sarebbero stati momenti in cui l’uno avrebbe volentieri scannato l’altro. Probabile anche questo.
Ci sarebbero stati giorni in cui lui non le avrebbe rivolto la parola per una questione di principio, di orgoglio e lei gli avrebbe chiuso le porte di accesso all’obitorio per ripicca, per poi riaprirgliele alla scusa propizia di un caso e alle imploranti insistenze congiunte di John e Greg.
Ce ne sarebbero stati altri, però, quelli che valevano ogni probabilità o statistica a loro sfavore, che la devolvevano in merito. Perché se c’era una cosa che entrambi amavano era dimostrare l’inesattezza di una tesi, creare corollari e di questo, essere felici, esserlo insieme avevano fatto un punto d’onore.     

 

  

Fine.

 


 

N/A:

Ci sono stati giorni, in questi mesi, giornate non particolarmente belle o felici o qualsiasi altro aggettivo positivo a seguire, in cui ho temuto che come al solito la maledizione che mi rende Mademoiselle Delle Cose Incompiute l’avrebbe di nuovo avuta vinta.
In questi mesi ho cercato innumerevoli volte di mettermi a scrivere, ho provato sul serio, ma ogni volta, boh, non usciva niente, ero in crisi.
Si dice che non puoi costringere le cose in un verso se quelle tendono ad andare in un altro, anche che alle volte devi lasciare che queste facciano il loro corso.
Io ho atteso, paziente, febbrilmente, che quel prurito alle mani e la smania di riprendere carta e penna o di battere i tasti della mia tastiera si riaffacciasse e finalmente è successo. Dovevo solo distogliermi per qualche secondo dalla realtà e rituffarmi nella loro, in quella di Sherlock e Molly, senza nient’altro ad intralciarmi o distrarmi.  
Ci sono volute le feste di Natale, ma, ehi, meglio tardi che mai, giusto ;)?
E quindi ci siamo, è successo. Ora è davvero finita. Caccia alle Ombre si conclude qui, non senza ripensamenti da parte mia su certi passaggi che sì, avrei potuto senz’altro scrivere meglio e certi capitoli a cui, Dio, rimetterei volentieri mano per riscriverli di sana pianta daccapo.
Ciò che più di tutto mi mancherà, però, siete voi ragazze. Siete state fantastiche, se ogni giorno riuscivo a scrivere era anche per l’energia che siete riuscite a trasmettermi con le vostre recensioni e ad ogni capitolo ero lì trepidante, domandandomi se vi sarebbe piaciuto almeno la metà di quanto era piaciuto a me scriverlo.
Grazie a questa storia ho conosciuto ognuna di voi un pezzetto alla volta, ho scoperto persone fantastiche e di questo, più di qualsiasi altra cosa, vi sono maggiormente grata. Non per i complimenti, non perché la storia vi è piaciuta, ma perché mi avete accompagnato in questo splendido percorso, vi dico che voglio bene ad ognuna di voi e certo, un’altra cosa è d’obbligo prima di salutarci, almeno per il momento e cioè un gigantesco GRAZIE.
Mando un bacione a tutte; vi auguro una pioggia delle cose migliori che il vostro cuore desidera, Buone Feste e OVVIAMENTE, nel caso in cui non si fosse capito nei miei arzigogolati excursus, :D     

  
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