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Autore: metaldolphin    22/12/2014    2 recensioni
Quando si lavora all'Istituto di Medicina Legale, bisogna avere sangue freddo e nervi saldi: io lo so bene, perchè è lì che mi sono presa la più grossa paura della mia vita...
Se volete seguirmi, vi racconto come è andata!
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il freddo riflesso dell’acciaio moltiplicava la luce ancora più fredda dei neon a soffitto.
L’ambiente, tenuto per necessità ad una temperatura più bassa del dovuto, mi diede un brivido, dato che avevo tolto il giaccone per lasciarlo nel mio armadietto dello spogliatoio.

Indossai il camice candido, anche se sapevo bene che ai miei pazienti non importava nulla delle più elementari norme igieniche e mi diressi verso l’altro lato del tavolo d’acciaio, per sollevare a mio favore il cartellino legato all’alluce del grosso piede maschile, che sporgeva da sotto al lenzuolo usa e getta verdino pallido.

“Caso 645/14 - John Doe” c’era scritto con un impersonale stampatello.

John Doe, quindi sconosciuto: quello era il nome giuridico che si usava dare ai cadaveri non ancora identificati.
Lasciai andare quell’anonimo talloncino e mi allungai verso la scrivania per recuperare la cartella corrispondente a quel numero identificativo e lessi velocemente qualche dato dei pochi annotati.

“Uomo, età presunta tra i venticinque ed i trenta anni… altezza cm 178… recuperato nella frattura del ghiaccio di superficie del lago Drum… presunta causa della morte: assideramento… “

Mi voltai a guardare il tavolo d’acciaio su cui erano allineati pochi effetti personali: un paio di stivali anfibi, leggeri abiti ancora umidi, una bandana nera e tre pendenti che mi parvero d’oro giallo, da orecchio.
Nessun documento, nessun riconoscimento.

Triste, guardai la massa imponente celata dalla sottile copertura, che giaceva immobile sul tavolo autoptico. Pensai che era troppo giovane per quel luogo tetro, reso ancora più buio dalla fredda giornata invernale che aveva salutato il mio risveglio.

Con una mossa decisa scostai il lenzuolo, scoprendone il busto, e rivelai un giovane uomo dalla corporatura muscolosa di atleta, armoniosa e caratterizzata dalla pelle scura di chi sta all’aria aperta, seppur illividita dalla morte sopraggiunta pochissime ore prima.
Dovevamo appurarne le effettive cause della morte e pensai che era un peccato non averlo conosciuto prima che morisse.
Ipotizzai qualcosa sul suo eventuale carattere, sul suo mondo, se qualcuno lo stesse cercando.

L’occhio mi cadde sul torace scolpito da un inimitabile Fidia tornato tra noi e guardai con malsana curiosità una cicatrice, la più grande che avessi mai visto, dato che si allungava diagonalmente dall’estremità distale della clavicola sinistra alla cresta iliaca destra.
Non capivo come avesse fatto a sopravviverle, dato che era rimarginata, anche se in modo alquanto irregolare.
Presentava numerosi altri segni, nulla in confronto a quella mostruosità.
L’orecchio destro non presentava alcun foro, il sinistro tre: avevo trovato la consueta locazione degli orecchini che giacevano tra i suoi effetti personali.
Terminai di scoprirlo, lasciando per rispetto la salvietta che copriva le parti intime.
Sulle gambe altri segni, ma i più curiosi erano cicatrici che segnavano la circonferenza di entrambe le caviglie… il mio cervello cercava di elaborare quelle immagini e di capire che vita avesse potuto condurre quel tipo, senza riuscirvi.

Guardai l’orologio e mi accorsi che si era fatto tardi: avevo meno di mezz’ora prima che il Dottor T. Law arrivasse per l’autopsia e ancora dovevo predisporre tutto il necessario per effettuarla.
Sull’apposito vassoio sistemai i ferri che sarebbero serviti e lo feci con estrema riluttanza: non mi andava proprio di partecipare alla dissezione di qualcosa di così bello… la giornata cominciava male.
Poi riflettei che a quel ragazzo era andata ancora peggio e mi rimproverai per la mia superficialità.

Come di consueto avevo legato i capelli in una coda, per non avere impicci durante il lavoro e, quando mi chinai su quel bel volto privo di vita, li sentii scivolare sul collo. Non sapevo perché, ma volevo guardarlo ancora una volta mentre era intatto.
Cercai di figurarmelo vivo e sfiorai la pelle del suo viso, che potevo sentire fredda attraverso i sottili guanti di lattice.

Ma quello aprì gli occhi di scatto, ruotò i bulbi oculari verso me e mi fissò con iridi così chiare da sembrare quasi trasparenti… sentii chiaramente il mio cuore fermarsi nel petto, mentre un urlo di puro terrore mi esplodeva in gola.
Indietreggiai, incespicando sui miei stessi piedi, scivolai sul lucido pavimento di marmo e tutto si fece nero.
   
 
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