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Autore: Experiment 513    23/12/2014    2 recensioni
A Londra il tasso di suicidi aumenta pericolosamente, allarmando i cittadini e Scotland Yard; il problema si espande velocemente in tutta l'Inghilterra e successivamente anche nell'intero Regno Unito e in alcune città del resto dell'Europa.
L'ispettore Fraser sospetta che si celi qualcuno dietro questi suicidi (un serial killer o una qualche associazione segreta - una setta, forse), ma nessuno gli crede, eccezion fatta per gli agenti Williams e Walker, che insieme a lui raduneranno gli uomini migliori per creare una squadra di specialisti e trovare un numero sufficiente di prove che confermi la loro ipotesi, in modo da aprire un'indagine e risolvere il mistero dei suicidi di massa.
Genere: Azione, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

──────────────────────────

 

 

 

 

“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

November 9

MONDAY

 

 

Quando Mark si svegliò era ancora sulla poltrona. Aveva perso la sensibilità ad una gamba e il dolore al braccio destro si era fatto insopportabile. Appena provò ad alzarsi sentì una terribile fitta alla testa e ricadde sulla poltrona con un tonfo. Proprio in quel momento arrivò a dargli il buongiorno, pulendogli per bene il viso e le mani con la sua lingua ruvida (una cosa disgustosa, che aveva sempre detestato, ma era talmente stanco da non avere nemmeno la forza di protestare). Alla fine si dovette alzare e raggiunse la cucina strisciando i piedi sul pavimento, seguito da che probabilmente doveva ancora mangiare. Mise la caffettiera sul fuoco e riempii una vecchia ciotola in alluminio di croccantini. Solo dopo si accorse che sul tavolo c’erano un thermos pieno di caffè e un bigliettino.

 

                    Buongiorno!

                    Vi ho preparato del caffè, spero vi piaccia

                     (ma certo che vi piace, io sono bravissimo  J).

                    Mi sento un po’ stordito, ma devo andare ad

                    aprire il bar. Scusatemi.

                                                             Gregor

 

Mark lasciò il foglietto bianco sulla tavola e si versò una tazza di caffè. Un attimo dopo notò che Frank non era più accasciato con la fronte contro il tavolo e non poté fare a meno di domandarsi dove fosse finito.

    Lanciò un’occhiata al divanoletto e vide che Heinrich stava ancora dormendo. Successivamente andò a dare un’occhiata in camera da letto per assicurarsi che Peter ed Edward stessero bene: il primo era in bagno per colpa della nausea, l’altro teneva il cuscino sopra la faccia e si lamentava della luce che entrava dalla finestra. Mark chiuse le tende e tornò in cucina per fare colazione. Mentre si versava un’altra tazza di caffè, ancora mezzo addormentato e con i sintomi post-sbornia, gli portò il giornale. Lo sfogliò distrattamente, ignorando i segni dei denti dell’animale e i residui di saliva che erano rimasti attaccati alle pagine, mangiucchiando un paio di biscotti tra una notizia e l’altra. La nausea era talmente forte che pregò di non vomitarli tutti.

    «Buongiorno.»

    La voce assonnata di Frank lo destò dai suoi pensieri. Piegò il giornale e lo spostò verso il centro del tavolo.

    «Come ti senti?»

    «Mah, solo un po’ di mal di testa.»

    Mark si aspettava un “E tu?”, ma Frank non aggiunse altro, servendosi del caffè come se fosse a casa sua.

    «Dove hai dormito?»

    «Nella vasca da bagno.»

    «… Ah.»

    Peter li raggiunse poco dopo, con il volto pallido e le labbra serrate in una  smorfia disgustata. Era evidente che non si sentisse bene, dopotutto non era mai riuscito a reggere l’alcool e, nonostante fosse il primo ad accorgersene, si ostinava sempre a berne in grandi quantità.

    «Eccomi» annunciò con voce funebre, riuscendo a stento a sedersi sulla sedia. «Credo di non sentirmi molto bere.»

    «Bere? »

    «Bene. Volevo dire bene.»

    Appoggiò il capo sulla superficie in legno del tavolo e chiuse gli occhi, proprio nella posizione in cui Frank si era addormentato la notte precedente. Mark  diede una tazza di caffè al moro e insistette affinché la bevesse tutta.

    «Lasciami stare, per favore» mugugnò Peter.

    «Dobbiamo andare a lavoro» protestò Mark, poi si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento e si avviò in camera da letto barcollando. Il dolore alla testa era lancinante, come se le pareti del suo cranio si stessero stringendo verso l’interno. Davvero poteva andare a lavoro in quelle condizioni?

 

 

Quando Edward si svegliò salutò tutti con discrezione, poi tornò a casa sua per farsi una doccia e cambiarsi; successivamente avrebbe fatto colazione e sarebbe andato ad aprire la libreria, scusandosi per il ritardo col nipote Andrew che lo aiutava durante la settimana in cambio di un modesto stipendio.

    Heinrich, che non doveva lavorare, rimase a poltrire placidamente sullo scomodo divanoletto, rotolandosi di tanto in tanto tra le lenzuola per cambiare posizione. Mark non osava svegliarlo, ma una parte di lui avrebbe voluto cacciarlo e rispedirlo alla sua dimora.

    Frank, che non voleva lasciare da solo, decise di portarselo e passare a casa sua per prendere Mozart, il suo altezzoso cocker spaniel inglese; li avrebbe portati entrambi al parco e dopo un paio d’ore avrebbe fatto ritorno nella sua abitazione. Mark e Peter, invece, si sbrigarono per arrivare in orario a Scotland Yard. O almeno è quello che cercarono di fare.

    Quando Mark fu pronto avvisò Peter, ancora accasciato sulla sedia; la faccia pallida e l’aria assonnata non l’avevano abbandonato. Lo intimò di alzarsi, trascinandolo in bagno dove si diede una ripulita. I vestiti che indossava puzzavano di vomito e di birra, quindi gliene prestò dei suoi.

    «Mark, questi vestiti sono enormi!»

    «Non ho altro,» protestò l’omaccione con aria infastidita «accontentati.»

    Quando Mark lo vide si rese conto che effettivamente quegli abiti lo rendevano ridicolo ed era necessario fare un salto a casa sua per renderlo presentabile.

    «Ma perderemo troppo tempo!»

    «Vuoi davvero uscire conciato così?»

    «No.»

    «Allora andiamo.» Aprì la porta di casa, aspettando che Peter uscisse per poi richiuderla e andare a mettere in moto l’auto. «Merda, ho dimenticato le chiavi del garage!» esclamò, frugandosi nelle tasche.

    «Ecco, lo sapevo.»

    «Sta’ zitto! Vado a prenderle. Tu aspetta qui.»

    «Chi si muove...»

    Rientrò in casa lasciando la porta aperta; andò in cucina e guardò dappertutto: sui banconi, negli stipetti, sul tavolo… Le chiavi non c’erano. Passò in rassegna anche la camera da letto, ma senza risultati. Allora perlustrò il soggiorno – sotto il divano, dietro la televisione, sotto il tavolino e dietro i cuscini -, ma le chiavi non erano neanche lì. Controllò le tasche di tutti i vestiti che aveva nell’armadio, poi diede un’occhiata in bagno e nel ripostiglio. Nulla. Erano sparite. Stava per urlare la sua disperazione a tutto il vicinato, quando ricevette una chiamata da Frank. Ovviamente riversò la sua rabbia su di lui, anche se non aveva nulla a che fare con quella sciocca questione.

    «Pronto.»

    «Sei arrabbiato? Hai la voce incazzata.»

    «No.»

    «Certo, e io sono la Regina d’Inghilterra.»

    «Che cazzo vuoi, Frank?!»

    «Non ti scaldare! Volevo solo chiederti una cosa.»

    «Be’, fallo in fretta.»

    «Non mi va di tornare a casa tua per lasciare . È un problema se lo tengo con me e te lo riporto stasera?»

    Mark non poté fare a meno di notare che, detto in quel modo, sembravano quasi una coppia divorziata intenta a discutere sull’affidamento del figlio.

    «No. Va benissimo. Ciao.»

    «Ciao, Mar...»

    Riattaccò.

    Stava per mettersi alla ricerca delle chiavi, ma Peter lo precedette.

    «Le ho trovate.»

    «Dov’erano?»

    «… Nella tasca del pantalone che mi hai prestato.»

    Gli lanciò uno sguardo omicida, convinto che fosse indirettamente colpa sua per non essersene accorto prima, ma l’amico sfoderò un sorriso innocente, porgendogli le chiavi; Mark andò ad aprire il garage, ma prima di poter entrare sentì la voce della vicina, la signora McGravy, che lo chiamava dal suo giardino.

    «Mark, tesoro!»

    Il poliziotto radunò tutte le forze che avevo in corpo per sorridere.

    «Salve, signora McGravy

    «Come sta? Come si sente oggi? Sembra stanco.»

    Secondo la signora McGravy Mark sembrava sempre stanco. E  lo era per davvero.

    «Benissimo, grazie, ma ora devo scappare a lavoro, sono già in ritardo.»

    «No, aspetti un attimo! Prendo le mele. Gliene do qualcuna, le faranno bene. Ha sentito il messaggio che le ho lasciato in segreteria? Gliel’avevo detto che gliene avrei messe un po’ da parte! Torno subito.»

    «Sì, sì, l’ho sentito… No, no! Non si scomodi!» cercò di fermarla, ma lei era già rientrata in casa. «Peter,» bisbigliò con tono confidenziale, aprendogli lo sportello per poi spingerlo delicatamente dentro l’abitacolo «salta in macchina, andiamocene prima che ritorni.»

    «Mark! È da maleducati andarsene così.»

    «Lo so, ma quella ci farà perdere un’ora in chiacchiere. Dobbiamo andare.»

   Peter acconsentì, suo malgrado, mostrando ostinatamente il suo dispiacere con un sonoro sospiro indignato; fecero una brevissima sosta a casa di Peter e subito dopo s’impegnarono in una corsa contro il tempo per arrivare a Scotland Yard in un margine di tempo accettabile.

    Inevitabilmente ritardarono di quasi quaranta minuti – forse cinquanta – e la prima a sgridarli per la loro negligenza fu Kerstin, una stramba ragazzina che aveva l’abitudine di tingersi i capelli di tonalità assurde: quel mese, ad incorniciarle il viso e a metterle in risalto gli occhi verdi, c’era una folta chioma fucsia tenuta ritta sulla testa  come la schiena di un porcospino. I suoi colleghi l’avrebbero vista meglio come artista che come poliziotta, ma in quella stazione molti di loro erano fuori posto. Kerstin si lamentò per più di dieci minuti su quanto i due fossero distratti, pigri e… E qualcos’altro che i due non si presero la briga di ascoltare.

    Mentre la ragazza continuava il suo affascinante discorso sulla disciplina, l’ispettore Bernard Fraser spalancò la porta del suo ufficio, richiamando la loro attenzione. Era un uomo alto, con spalle larghe e occhi infossati, una persona solitamente tranquilla e pacata, ma l’espressione dipinta sul suo volto in quell’istante non era delle più rassicuranti. Kirsten, intimorita, si zittì immediatamente, tornando alla sua postazione senza neanche salutare.

    «Mark, Peter» chiamò l’ispettore, avvicinandosi con passo svelto. «abbiamo un caso.»

    «Di cosa si tratta?» s’informò Mark.

    «Suicidio.»

 

 

 

 

 

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Fatti curiosi non poi così curiosi:

Il cognome originale di Bernard era Fletcher: mi piaceva

moltissimo come suonava, ma son stato costretto a cambiarlo

perché ho scoperto che esiste già una specie di investigatrice

omonima. Ho deciso di chiamarlo “Fraser” perché mi ricorda la

parola “freezer” e Bernard è… come dire… così freddo, con le

spalle larghe e… mi ricorda un frigorifero.

 

 

                                                     Christopher

   
 
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