Blacklist Asylum
Si
erano alzate all'alba, mentre ancora il sole stava tingendo il cielo
cupo di un rosso slavato e gli edifici si stagliavano contro quella
luce come sfregi neri. ll manicomio si era presentato a loro come una
presenza nascosta in mezzo a un parco sconfinato. Visione che sarebbe
dovuta essere rassicurante, o almeno non angosciosa come era apparsa
a loro.
"Signora, signorina. Prego accomodatevi." Il
medico aprì la porta, invtandole in quello che doveva essere
il suo
studio. Un'anonima scrivania di scuro mogano troneggiava al centro
della stanza, scaffali e cassettiere addossate ai muri straripavano
di fogli scritti con una fittissima calligrafia.
L'aria era più
pesante lì dentro che negli ambienti precedenti, cosa che
Abigayle
non avrebbe mai immaginato.
"Ci sono novità?" Era
giunta lì per la prima volta, portando sua figlia Gwynevere
con sé,
solo perché questa aveva insistito. La verità era
che, se avesse
potuto scegliere, non avrebbe mai messo piede lì dentro
nemmeno lei.
"Le cose non sono cambiate, signora..."
"Mi
chiami Abigayle."
"Bene, Abigayle. Le cose non sono né
peggiorate né migliorate, tuttavia abbiamo una buona
notizia.
Nonostante la schizofrenia suo figlio non è catatonico,
ciò rende
più probabile un recupero." Gwynevere ascoltava, ed era come
essere in un sogno, in cui tutti i suoni parevano ovattati, e i
colori coperti da una patina grigia, anche la sua mente registrava
oziosamente quelle informazioni, senza riuscire però a
elaborarle.
In quegli istanti si chiese se fosse anche lei malata, come suo
fratello, se anche lei sarebbe finita rinchiusa in un manicomio
perché non riusciva più a provare nulla.
Ricevette la risposta
quando sua madre si voltò, e con sguardo compassionevole
allungò
una mano verso il suo volto, asciugando una lacrima che stava
correndole sul viso. Ero davvero lei? Lei stava piangendo per suo
fratello. Doveva per forza essere così. Eppure la patina che
rendeva
tutto irreale sembrava non volersene andare, e forse era meglio
così
perché gli attimi e i giorni seguenti sarebbero stati
costellati di
incubi fin troppo reali.
"Cos'è
la schizofrenia, mamma?" Lei si era voltata, abbandonando il
lavoro che stava facedo con i piatti sporchi, lasciando l'acqua del
rubinetto a scorrere. L'aveva osservata con gli occhi lucidi
strabuzzati. Probabilmente non credeva che sua figlia, brava
ragazzina diligente, potesse aver origliato la sua telefonata della
notte precedente.
A dire il vero, non lo avrebbe mai fatto. Era
stato un caso che passasse davanti alla porta socchiusa della camera
di sua madre a notte fonda per andare in bagno, nel tentativo di
liberarsi di un terribile mal di pancia. Aveva sentito la sua voce
rotta, bloccata dai singhiozzi che lei stessa cercava di fermare, per
parlare il più chiaramente possibile con il medico
dall'altra parte
della cornetta, e il suo primo istinto era stato quello di entrare
nella stanza e consolare sua madre. Ma rimanendo immobile aveva
scoperto la verità taciuta dietro la presunta scomparsa di
suo
fratello.
"E dove si trova realmente mio fratello?" La
vide sedersi davanti a lei, congiungere le mani sul tavolo e
sospirare profondamente. Nonostante sapesse già, quella era
una cosa
che voleva sentire chiaramente.
"Gwynevere,
ascolta..."
"Voglio la verità, mamma."
"Certamente,
ormai sei grande, certe cose devi saperle." Trasse un altro
profondo respiro, e forse fu allora che la decisione della giovane
figlia iniziò a vacillare; erano cose che desiderava davvero
sapere, quelle? Era davvero pronta ad aprire gli occhi davanti un
mondo che non aveva più nulla della spensieratezza
bambinesca?
Era
comunque troppo tardi. "Tuo fratello è malato, è
molto malato.
Ma di un male che non si può curare con cerotti e medicine.
Tuo
fratello è malato, qui." Le toccò appena la
fronte, avvertiva
il gelo e il tremito delle sue mani, il perché delle sue
occhiaie si
faceva sempre più chiaro. "Ha una malattia che non lo fa
essere
se stesso. La schizofrenia è questo. Vede cose che non ci
sono, e
parla di cose che neanche lui capisce."
"Guarirà?"
Gli occhi di sua madre si fecero lucidi.
Non le diede nessuna
risposta.
E forse fu allora che tutto divenne ai suoi occhi
irreale.
Non
seppe esattamente da quanto avesse smesso di ascoltare, sentiva il
brusio dei discorsi tra sua madre e il medico mentre si chiedeva
perché qualche giorno prima avesse insistito tanto per
andare al
manicomio con la madre. A dire il vero, se ne era pentita
nell'istante stesso in cui aveva fissato lo sguardo sul portapenne di
pessimo gusto poggiato su un lato della scrivania. Probabilmente
niente e nessuno vietava che un medico avesse un teschio come
portapenne.
Sentiva il cuore stretto in una morsa, come avvolto da
spire spinate che si facevano sempre più strette ogni
attimo,
mozzandole il respiro.
Il rumore della porta che si apriva alle
loro spalle la distolse momentaneamente dalla sua agonia interiore.
Una giovane suora era appena entrata nello studio e stava rivolgendo
loro un sorriso stanco.
"Prego, l'orario delle visite è
appena cominciato." Ormai non poteva più contare su una
qualsiasi protezione, ormai non era più una bambina
impressionabile
a cui andavano coperti gli occhi davanti a una scena horror di un
film, ormai davanti ai suoi occhi ci sarebbe stata solo la
realtà e
nessuno l'avrebbe protetta da essa.
Andare a visitare qualcuno al
manicomio non era esattamente come andare a trovare qualcuno
all'ospedale. In quel luogo, anche tenendo lo sguardo ostinatamente
basso per non dover osservare le sofferenze dei pazienti non si
poteva non incappare in qualche assurdo caso di disagio o malattia.
Camminava abbastanza spedita tenendo la mano di sua madre, senza
mai staccare gli occhi dall'abito scuro della suora davanti a loro,
fin quando questa non si fermò in mezzo al corridoio.
Credettero per
un istante di essere arrivate, tuttavia la donna pronunciò
un nome a
loro sconosciuto, richiamando la donna che, immobile in mezzo al
corridoio, fissava il pavimento e sussurrava parole a mezza voce,
citando quello che doveva essere un passo della Bibbia.
Osservarono
sbigottite la scena, mentre la suora si avvicinava alla paziente,
invitandola dolcemente a rientrare nella sua stanza, cella,
e a riposarsi un po', mentre questa alzava sempre di più il
tono
della voce, rendendo le parole sempre più chiare e i suoi
movimenti
sempre più agitati: "Egli si impadronì del drago,
il serpente
antico, che è il Diavolo e anche Satana." Gwynevere
fissò la
scena con muto orrore, aveva visto lo sguardo allucinato che aveva
rivolto al nulla nel momento in cui era tornata nella sua camera, la
sentivano ancora recitare l'Apocalisse dietro la porta spessa con
voce altalenante e folle mentre vi passavano davanti.
E, come se
niente fosse, la suora si voltò verso di loro, con lo stesso
sorriso
stanco di poco prima, invitandole gentilmente a proseguire,
ché la
cella di suo fratello era vicina.
Forse fu in quel momento che
capì di non essere pronta ad affrontare quella
realtà.
Temeva
per il fratello e per se stessa, temeva ciò che avrebbe
potuto
vedere.
Non se lo chiese neanche; sapeva che restare a casa e
conservare un ricordo quantomeno decente del fratello sarebbe stato
meglio che vederlo e poi ricordarlo per sempre con l'aspetto di un
folle.
Ma in fondo, di quella breve visita, si era aspettata ben
di peggio.
L'infermiera le lasciò sulla soglia della porta,
invitandole a entrare in quella cella di cinque metri per cinque dove
il ragazzo sembrava addormentato, rannichiato in posizione fetale su
un grigio letto addossato alla parete spoglia con i capelli che si
allargavano come una macchia di sangue sul cuscino.
La porta si
chiuse alle loro spalle e senza alcuna esitazione Abigayle si
andò a
sedere sull'unica sedia che si trovava accanto al letto, con il corpo
proteso verso la sagoma del figlio.
Gwynevere rimase in piedi, con
le spalle schiacciate contro la porta e lo sguardo vagamente confuso
che correva per la stanza.
Osservava i grigi muri spogli macchiati
dall'umidità, la minuscola finestra troppo piccola e troppo
in alto
per essere realmente utile, con i vetri macchiati dalla polvere, la
lampadina spoglia che pendeva dal soffitto, la luce di questa che
tremava e gettava lugubri ombre tutt'intorno.
"Helel,
rispondimi. Ti prego..." Osservava il volto seminascosto di suo
fratello, distorto in un'espressione folle, mentre con la mancina
grattava a sangue il palmo dell'altra mano macchiando le coperte, del
tutto indifferente a ciò che la madre, poco dietro di lui,
gli stava
dicendo.
Fino a che, forse, non si rese conto della presenza
della sorella. Allora spostò lo sguardo su di lei,
continuando a
fissarla, mentre il sorriso malsano si allargava sempre di
più, e le
unghie scavavano sempre più in profondità nella
sua stessa
pelle.
La madre non si accorse di quel cambiamento, troppo
impegnata ad asciugarsi le lacrime. Gwynevere, invece, ne fu fin
troppo consapevole.
E fu forse per quello che non ebbe più la
forza di andare in quel luogo.
*
Si
ritrovò da solo, di nuovo, schiacciato da quelle quattro
mura
opprimenti e spoglie.
Sentiva il silenzio ronzargli nelle
orecchie, dando un minimo di pace al suo animo. Voci e immagini in
quegli istanti di assoluta immobilità sembravano abbandonare
la sua
mente. Forse complice anche la breve, brevissima, visita appena
ricevuta. Non che gli avesse fatto piacere, ormai più poco
riusciva
a farlo gioire, e di certo rivedere sua sorella e sua madre non era
stato di certo un toccasana.
Si mise seduto, sfregando il palmo
della mano ora insanguinato, fissò il muro dritto davanti a
sé,
pensando che se avesse premuto l'orecchio contro di esso avrebbe
potuto sentire chiaramente la paziente 0165 salmodiare passi della
Bibbia, Vangelo, Apocalisse, e così via, in una lunga
tiritera
stancante e ripetitiva.
Lì i muri erano come carta pesta.
Era
quasi arrivato al limite della sopportazione con lei; sentirla
divagare in continuazione, lodare forze che neanche comprendeva...
Ma
presto avrebbe risolto il problema. Nonostante per ora potesse solo
aspettare.
Ancora qualche giorno, si disse, due o tre al massimo.
"...poi lo gettò nell'abisso che chiuse e sigillò sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti i mille anni, dopo i quali dovrà essere sciolto per poco tempo..."
O forse anche meno.
Le
ore passarono in fretta. Helel, rinchiuso nella sua cella attendeva
pazientemente, tentando in tutti i modi di mantenere la mente lucida.
Mancanvano pochi minuti all'ora di pranzo. Era ben consapevole
delle distrazioni in cui sarebbe potuto incappare, sapeva che sarebbe
potuto tornare in cella dopo aver mangiato senza ricordarsi nulla di
quello che era successo in quell'intervallo di tempo. Ma quella volta
era necessario che ricordasse, e che fosse pienamente presente e
consapevole di sé.
Le porte si aprirono e le guardie passarono
per il corridoio per richiamare, a volte trascinare a forza, i
pazienti verso la sala comune. Helel camminava quasi in fondo alla
fila, osservando distrattamente le persone davanti a lui. Sentiva
l'incessante tiritera della paziente 0165 che camminava dietro di
lui.
"Beato
e santo è colui che ha parte alla prima risurrezione. Su di
loro non
ha potestà la seconda morte, ma essi saranno sacerdoti di
Dio e di
Cristo e regneranno con lui mille anni."
Helel si voltò nello stesso istante in cui una guardia
intimava un
minimo di silenzio e ordine, la donna sollevò la testa,
fissando lo
sguardo allucinato negli occhi cupi di Helel, prima di incassare la
nuca tra le spalle e abbassare la voce, fino a renderla una nenia
appena udibile.
Lei viveva nel suo mondo, e che avesse sentito
l'ordine della guardia era pressoché impossibile.
Helel sorrise
soddisfatto.
Il
paziente 0078 sbatteva continuamente la testa contro il muro, diceva
che lì dentro c'era qualcuno, qualcuno che parlava in
continuazione.
Pareva che lui tentasse solo di farlo tacere, o di farlo uscire
rompendosi le ossa del cranio.
0199 stava rannicchiato sotto a un
tavolo, terrorizzato dalla gente intorno a lui, il piatto con il
pranzo era sopra, al suo posto, e sarebbe rimasto intoccato fino a
che la sala non si sarebbe svuotata un po'.
0210 fissava il
soffitto, passandosi lentamente la forchetta di plastica sporca sotto
il mento, il perché si comportasse in quel modo non l'aveva
capito
nessuno.
0211 artigliava le sbarre alla finestra e urlava frasi
sconnesse ai vetri.
0165 era seduta al tavolo, fissava il suo
piatto e mangiava lentamente. Forse quelli erano gli unici istanti in
cui interrompeva il suo mantra.
Helel gettò gli avanzi del suo
pranzo schifoso nel cestino, avvicinandosi poi a quest'ultima.
La
gente lì era tutta pazza, e anche chi giungeva lì
sano finiva per
impazzire, a furia di ripetere cose come 'io
non sono pazzo'.
Lui non era un'eccezione.
Anche Helel era pazzo, sapeva che
era così che la gente intorno a lui lo considerava,
nonostante
sapesse di essere in una situazione differente dalle gente intorno a
lui. Era più o meno consapevole della sua situazione;
c'erano
momenti in cui le azioni che compiva non erano giuste, o etiche, agli
occhi degli altri. Per lui quella distinzione non esisteva, non c'era
una linea che separava il bene dal male. O meglio, per lui il bene
era semplicemente ciò che lo faceva stare bene.
Dicevano che la
sua mente era recuperabile. Non era perso in mondi immaginari, o
bloccato in convinzioni distruttive, ma a lui quello importava meno
che niente.
Mancava poco che la paziente ricominciasse a
salmodiare i passi della Bibbia. Prontamente Helel le
afferrò
l'avambraccio, affondandoci le dita più del necessario,
volendo
avere la certezza di ottenere la sua attenzione. Infatti questa si
voltò verso di lui, senza dire una parola.
"Ti sento, ogni
notte, ogni giorno. Sento le preghiere e le parole di Dio che
pronunci in continuazione. So cosa vorresti. Questo non è il
tuo
posto, non è vero?" La sua testa scattò in
sù e in giù
diverse volte. "E se ti dicessi che c'è un modo per
andarsene
da qui?" Le sue labbra si allargarono in un sorriso ferale nel
momento in cui scorse negli occhi della donna una scintilla di
lucidità.
Tirò fuori dalla manica un uncinetto rubato dalla
dispensa, porgendolo alla donna. "Sai cosa puoi fare con
questo." Quello era solo l'inizio.
Nel
momento in cui vennero fatti tornare alle loro celle Helel si rese
distrattamente conto che la donna aveva smesso di parlare, teneva la
mani giunte in grembo, una punta di metallo spuntava appena tra le
sue dita.
Un paio di giorni di attesa si sarebbero ridotti in
poche ore.
Tornato alla sua cella si sedette contro il muro,
trattenendo l'insensato impulso di tornare a grattarsi le ferite
autoinflitte alla mano, e attese. Attese di sentire l'ultimo canto
della donna.
Ma in quelle ore regnò il silenzio.
Fino a che lo
strillo acuto di un'infermiera non riecheggiò nell'istituto.
E a
questo si sovrapposero le risate di Helel.
"Dottore,
mi scusi."
"Che cosa è successo?"
"La
paziente 0165 è morta."
"Morta? Come è
successo?"
"Pare che abbia tentato una lobotomia
transorbitale da sola con un'uncinetto, Suor Jude l'ha trovata ed
è
ancora molto scossa, non è riuscita a dirmi altro."
"Accidenti.
Ha lasciato qualcosa?"
"Beh, sì." Stava tutto
scritto in un sottile tovagliolo della mensa, la scrittura fitta e
nera, appena macchiato di sugo rosso che pareva uno schizzo di
sangue.
"Ho
la sensazione di conoscere tutti i personaggi del Buon Libro. Negli
anni passati ho consumato i suoi volumi, preziosi più di
ogni altra
cosa in questo mondo malato. Sono entrata a braccietto con Daniele
nella tana del leone, sono stata al fianco di Davide quando fu
tentato da Betsabea che si bagnava nello stagno. Ne ho trucidati
duemila con Sansone quando menava la mandibola d'asino come arma e
sono stata accecata con San Paolo sulla via per Damasco. Ho pianto
con Maria sul Golgota. Li ho conosiuti e li ho amati. Ce n'è
solo
uno, un solo personaggio di questo dramma senza eguali che io non
conosco. Uno solo che se ne sta in disparte con il volto nell'ombra.
Uno solo che fa tremare il mio corpo e gemere il mio spirito. Io lo
temo. Non so intuire il suo animo e lo temo.
Io temo
l'Intrigante.
L'Intrigante che si presentò a Eva nella forma di
un serpente che strisciava il ventre nella polvere, sorridendo e
sibilando.
Si avvicinò a Jezabel sul balcone e guardò re
Achab
precipitare urlando alla sua morte e sorrise con lei quando i cani
accorsero a leccare il suo sangue.
C'è sempre stato. Ma io non
intuisco il suo animo. Ma chi mai potrebbe intuire l'orrenda tenebra
che si agita dietro la bellezza fanciullesca, l'orgoglio e la
titanica blasfemia, l'empia gioia? E la follia! La delirante follia
che striscia e cammina tra le brame dell'uomo.
Fu Lui a portare
Nostro Signore sulla montagna, fu Lui a tentarlo e provocarlo
offrendogli tutto il mondo e tutti i piaceri del mondo. È
Lui che
tornerà quando giungerà sul mondo l'Era Ultima.
È Lui, nelle
vesti dell'Anticristo, un Re Rosso con gli occhi iniettati di
sangue.
Mi ha trovato."
In
quella misera lettera stavano tutte le sue convinzioni, il fulcro e
il motivo della sua follia e, tuttavia, un briciolo di
realtà.
"Dottore, dubito che Suor Jude si riprenderà dopo
tutto ciò..."
"Prenderemo provvedimeni al più presto."
*
L'ora
di cena arrivò abbastanza in fretta, e fu piuttosto simile a
quella
di pranzo, c'era chi ancora sbatteva la testa sul muro,
perché non
aveva mai smesso di farlo. Chi andava a nascondersi e chi urlava
frasi sconnesse. Solo una cosa era cambiata; nell'aria non
riecheggiavano più le parole recitate dalla paziente 0165.
Helel
era soddisfatto, o almeno era quello che credeva di essere in quel
momento, perché la sua mente, lentamente, sembrava starsi
scollegando; osservava le sue mani distruggere il pezzo di pane che
era insieme al suo pranzo, senza rendersi realmente conto di
ciò che
stesse facendo.
"Ti ho visto." Fu vagamente dconsapevole
dei passi pesanti dieto di sé. "Ehi, dico a te." E ancor
meno della mano che gli si era posata sulla spalla. "Ho visto
cosa hai dato a Sarah." A quanto pare quello doveva essere uno
dei pochi pazienti ancora lucidi, che si ostinavano a chiamare i
propri compagni di prigionia con il loro vero nome piuttosto che con
il numero che veniva loro tatuato sulla mano. Helel
ricollegò poco
dopo quel nome al volto della paziente 0165. "L'hai uccisa tu."
E rimase tuttavia indifferente al periocolo che quell'uomo avrebbe
potuto costituire.
"Io non ho fatto nulla." Disse
semplicemente, senza smettere di torturare il suo tozzo di pane, fino
a che non si sentì prendere per le spalle e tirare via dal
tavolo.
"Ti ho sentito ridere, tutti ti abbiamo sentito, bastardo!"
Lo fece finire a terra, mentre i loro vassoi finivano a terra e i
piatti si infrangevano in schegge, ferendoli entrambi.
Dopo
qualche attimo di colpi maldestri e mal assestati Helel si
ritrovò
con una di quelle schegge puntate alla gola, sentiva il suo stesso
sangue scorrere pigramente sulla pelle; le lievi ferite che si
sporcavano di succo vitale e sembravano avvolgerglisi attorno al
collo come rami spinati di puro dolore. Si rese conto, mentre una
scintilla di furore gli illuminava la mente annebbiata, che le sue
mani erano corse a stringere senza remore il collo taurino
dell'uomo.
Si afflosciò lentamente, mentre il suo volto assumeva
una tonaità violacea a causa della mancanza d'aria, cosicche
Helel
riuscì a capovolgere le posizioni.
Lo sentiva boccheggiare sotto
di lui, sentiva i suoi piedi agitarsi mentre con un'euforia
bambinesca continava a stringere il suo collo e a sbattere la sua
testa contro il pavimento.
Non ci volle molto, però, che un paio
di guardie lo afferrassero per le braccia e, staccandolo a forza
dall'uomo, lo trascinarono via. Non si accorsero però che
Helel
stringeva ora tra le mani una scheggia di percellana.
Confusione,
follia. Era quello che stava attendendo.
*
Il
dottore riattaccò la cornetta del telefono al ricevitore,
spostando
lo sguardo sulla suora che, dal giorno precedente, pareva
terrorizzata a morte.
"Suor Jude..." Un sighiozzo
interruppe il suo tentativo di rassicurarla.
"Non possiamo
fare nulla." Disse con voce rotta, asciugandosi le lacrime con
un sottile fazzoletto. Sospirò pesantemente, prima di
alzarsi e
dirigersi alla finestra, a osservare la tempesta in arrivo.
"Che
cosa..." Ancora una volta, venne interrotto.
"I suoi
capelli erano rossi, rossi come il sangue, come l'inferno, oh Dio,
salvaci, il male è approdato su questa terra." La suo voce
era
poco più che un sussurro in quel momento, tuttavia il
dottore la
sentì chiaramente, e capì la profonda convinzione
di quella
donna.
"Suor Jude, avanti, non sia così tragica, era solo un
ragazzo con dei disturbi." la suora si voltò verso il
dottore,
osservandolo con gli occhi arrossati, pieni di un timore mortale.
"Il
Diavolo è reale, Dottore, e non è un mostro
rosso, con le corna e
la coda. Può essere bellissimo, perché
è un angelo caduto, e un
tempo era il preferito da Dio." Per un attimo una luce bianca e
malsana illuminò tutto il panorama visibile, seguita dalla
prima
goccia di pioggia. Si riflesse sui vetri delle costruzioni
circostanti, stagliandosi imponente nel cielo carico di nuvole cupe.
La pioggia raggiunse il boato del tuono, improvvisando un acquazzone
già da tempo premeditato e preparato con cura dal cielo. Il
tuono
risuonò in lontananza, mentre l'animo del dottore pareva
appesantirsi, schiacciato dalla colpa e dal fallimento.
"Dottore,
io ho visto il suo sguardo mentre stringeva il collo di quell'altro
paziente." Riprese un attimo fiato, ancora vagamente sconvolta
da ciò a cui aveva assistito. "Non ho mai visto uno sguardo
del
genere, mi ha terrorizzata."
Aveva gli occhi che luccicavano
pieni di piacere e gioia malsana, come se in quegli istanti si stesse
compiendo il vero scopo della sua vita.
La donna riattaccò la
cornetta al ricevitore, restando poi a fissarlo per lunghi
istanti.
"Madre?" Abigayle si voltò, gli occhi
arrossati a cercare il volto della figlia tra le ombre della stanza.
"Che succede? Chi era al telefono?" Il fiato fuoriuscì
dalle sue labbra in un tremante sospiro. Ormai non aveva più
senso
tenere la figlia all'oscuro.
"Mi ha chiamato il manicomio."
Non una scintilla di gioia o speranza illuminò il volto di
Gwynevere; aveva visto il volto della madre, e aveva capito che non
ci sarebbe stata alcuna buona notizia.
"Che cosa ti hanno
detto?" Si sedette accanto a lei, cercando nei suoi occhi la
risposta che temeva.
"Hanno detto che è un pericolo, che può
far del male alla gente, che non siamo al sicuro perché..."
Aveva pregato il dottore di dirle ogni cosa che era successa, nella
speranza di capire. Aveva portato una donna a suicidarsi, secondo
alcune testimonianze, aveva quasi strozzato a morte un uomo e aveva
ucciso due guardie con una scheggia di porcellana.
"Mamma?"
"È
scappato." E infine fuggire.
*
Osservò
la sua stessa mano ferita, il numero tatuato che un tempo era stato
0166 era diventato, a furia di grattare e tirare via la pelle, il
numero della Bestia.
Finalmente era riuscito a tornare nel suo
vecchio quartiere, la sua vecchia casa, dove si trovava la sua
famiglia. Vedeva ombre muoversi dietro le tende tirate, come spettri
di un passato quasi del tutto dimenticato ma che tuttavia
continuavano a tormentarlo incessantemente.
Si avvicinò ai rovi
che contornavano la casa, del tutto incurante della pioggia che
scendeva con forte insistenza e delle spine che si insinuavano nella
sua carne dal momento in cui aveva allungato la mano verso l'unico
fiore, rosso come sangue, che svettava in mezzo a quella massa nera
di spine.
"Helel?"
Una voce piena di timore, diversa, molto più reale, ma
tuttavia
terribilmente uguale a quella che urlava e infestava la sua mente.
Voleva liberarsene a tutti i costi, liberarsi di quel tormento che
gli rubava la lucidità. Ma ora, a un passo da loro, sentiva
di
essere vicinissimo a trovare la cura. Doveva liberarsi delle loro
voci.
Recuperò al chiave di riserva che usavano lasciare nel vaso
accanto alla porta e la infilò nella toppa.
Sentì le labbra
sirarsi in un sorriso nel momento in cui vide il volto sorpreso di
sua madre.
"Helel" La sua voce si spense lentamente, a
causa delle mani del figlio che erano andate a stringersi intorno al
suo collo. Lentamente, i suoi occhi ora pieni di terrore e tristezza,
si fecero opachi, in essi impressa per sempre come ultima immagine il
volto del figlio distorto in un'espressione di folle gioia.
"Madre?"
Dal piano di sopra giunse la voce ovattata di Gwynevere, subito dopo
dei passi rapidi e leggeri.
La prima cosa che vide fu il corpo di
sua madre crollare a terra, con intorno al collo una collana di
sangue e gli occhi spalancati e fissi verso il soffitto.
Neanche
un urlo strozzato uscì dalle sue labbra quando vide la
figura del
fratello, uscì solo un farfuglio senza senso. Orrore
animalesco.
Matta disperazione. Il gemito che fanno i morti all’inferno.
Il
sorriso bambinesco e l'umida rosa rossa che stava lasciando cadere
sul corpo della madre terrorizzarono Gwynevere, così come le
lievi
parole che uscivano dalle sue labbra screpolate.
"Sembro un
santo quando faccio la parte del diavolo." Aveva il sorriso di
un folle, gli occhi che come smeraldi risplendevano di una luce
malsana e i capelli bagnati che, come sangue, gli si incollavano al
viso.
Gwynevere capì che non avrebbe vissuto abbastanza per
vedere altro.
Come
mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?
Alla
fine non era cambiato niente. A nulla era servita la sua folle
decisione. Quelle voci rimbombavano nella sua mente come un orribile
lascito.
_____________
Info:
Questa
storia partecipa al contest 'Darkness' indetto da Nelith e
Selis
Helel:
Lucifero (in ebraico הילל
o
Helel,
in greco φωσφόρος,
in latino Lucifer)
I
discorsi della paziente 0165 sono presi direttamente dall'Apocalisse.