Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: La sposa di Ade    26/12/2014    2 recensioni
I suoi capelli erano rossi, rossi come il sangue. I suoi occhi erano cupi smeraldi. Mio fratello era sempre stato bello, forse troppo, nei suoi tratti vagamente androgini e nello sguardo perennemente insolente. Era bello anche allora, avvolto nelle spire di una follia che pareva non avere nulla di umano.
Il diavolo è reale, e non è un mostro rosso, con le corna e la coda. Può essere bellissimo, perché è un angelo caduto, e un tempo era il preferito di Dio.
Ed era bello anche mentre uccideva.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Blacklist Asylum


Si erano alzate all'alba, mentre ancora il sole stava tingendo il cielo cupo di un rosso slavato e gli edifici si stagliavano contro quella luce come sfregi neri. ll manicomio si era presentato a loro come una presenza nascosta in mezzo a un parco sconfinato. Visione che sarebbe dovuta essere rassicurante, o almeno non angosciosa come era apparsa a loro.
"Signora, signorina. Prego accomodatevi." Il medico aprì la porta, invtandole in quello che doveva essere il suo studio. Un'anonima scrivania di scuro mogano troneggiava al centro della stanza, scaffali e cassettiere addossate ai muri straripavano di fogli scritti con una fittissima calligrafia.
L'aria era più pesante lì dentro che negli ambienti precedenti, cosa che Abigayle non avrebbe mai immaginato.
"Ci sono novità?" Era giunta lì per la prima volta, portando sua figlia Gwynevere con sé, solo perché questa aveva insistito. La verità era che, se avesse potuto scegliere, non avrebbe mai messo piede lì dentro nemmeno lei.
"Le cose non sono cambiate, signora..."
"Mi chiami Abigayle."
"Bene, Abigayle. Le cose non sono né peggiorate né migliorate, tuttavia abbiamo una buona notizia. Nonostante la schizofrenia suo figlio non è catatonico, ciò rende più probabile un recupero." Gwynevere ascoltava, ed era come essere in un sogno, in cui tutti i suoni parevano ovattati, e i colori coperti da una patina grigia, anche la sua mente registrava oziosamente quelle informazioni, senza riuscire però a elaborarle. In quegli istanti si chiese se fosse anche lei malata, come suo fratello, se anche lei sarebbe finita rinchiusa in un manicomio perché non riusciva più a provare nulla.
Ricevette la risposta quando sua madre si voltò, e con sguardo compassionevole allungò una mano verso il suo volto, asciugando una lacrima che stava correndole sul viso. Ero davvero lei? Lei stava piangendo per suo fratello. Doveva per forza essere così. Eppure la patina che rendeva tutto irreale sembrava non volersene andare, e forse era meglio così perché gli attimi e i giorni seguenti sarebbero stati costellati di incubi fin troppo reali.


"Cos'è la schizofrenia, mamma?" Lei si era voltata, abbandonando il lavoro che stava facedo con i piatti sporchi, lasciando l'acqua del rubinetto a scorrere. L'aveva osservata con gli occhi lucidi strabuzzati. Probabilmente non credeva che sua figlia, brava ragazzina diligente, potesse aver origliato la sua telefonata della notte precedente.
A dire il vero, non lo avrebbe mai fatto. Era stato un caso che passasse davanti alla porta socchiusa della camera di sua madre a notte fonda per andare in bagno, nel tentativo di liberarsi di un terribile mal di pancia. Aveva sentito la sua voce rotta, bloccata dai singhiozzi che lei stessa cercava di fermare, per parlare il più chiaramente possibile con il medico dall'altra parte della cornetta, e il suo primo istinto era stato quello di entrare nella stanza e consolare sua madre. Ma rimanendo immobile aveva scoperto la verità taciuta dietro la presunta scomparsa di suo fratello.
"E dove si trova realmente mio fratello?" La vide sedersi davanti a lei, congiungere le mani sul tavolo e sospirare profondamente. Nonostante sapesse già, quella era una cosa che voleva sentire chiaramente.
"Gwynevere, ascolta..."
"Voglio la verità, mamma."
"Certamente, ormai sei grande, certe cose devi saperle." Trasse un altro profondo respiro, e forse fu allora che la decisione della giovane figlia iniziò a vacillare; erano cose che desiderava davvero sapere, quelle? Era davvero pronta ad aprire gli occhi davanti un mondo che non aveva più nulla della spensieratezza bambinesca?
Era comunque troppo tardi. "Tuo fratello è malato, è molto malato. Ma di un male che non si può curare con cerotti e medicine. Tuo fratello è malato, qui." Le toccò appena la fronte, avvertiva il gelo e il tremito delle sue mani, il perché delle sue occhiaie si faceva sempre più chiaro. "Ha una malattia che non lo fa essere se stesso. La schizofrenia è questo. Vede cose che non ci sono, e parla di cose che neanche lui capisce."
"Guarirà?" Gli occhi di sua madre si fecero lucidi.
Non le diede nessuna risposta.
E forse fu allora che tutto divenne ai suoi occhi irreale.


Non seppe esattamente da quanto avesse smesso di ascoltare, sentiva il brusio dei discorsi tra sua madre e il medico mentre si chiedeva perché qualche giorno prima avesse insistito tanto per andare al manicomio con la madre. A dire il vero, se ne era pentita nell'istante stesso in cui aveva fissato lo sguardo sul portapenne di pessimo gusto poggiato su un lato della scrivania. Probabilmente niente e nessuno vietava che un medico avesse un teschio come portapenne.
Sentiva il cuore stretto in una morsa, come avvolto da spire spinate che si facevano sempre più strette ogni attimo, mozzandole il respiro.
Il rumore della porta che si apriva alle loro spalle la distolse momentaneamente dalla sua agonia interiore. Una giovane suora era appena entrata nello studio e stava rivolgendo loro un sorriso stanco.
"Prego, l'orario delle visite è appena cominciato." Ormai non poteva più contare su una qualsiasi protezione, ormai non era più una bambina impressionabile a cui andavano coperti gli occhi davanti a una scena horror di un film, ormai davanti ai suoi occhi ci sarebbe stata solo la realtà e nessuno l'avrebbe protetta da essa.
Andare a visitare qualcuno al manicomio non era esattamente come andare a trovare qualcuno all'ospedale. In quel luogo, anche tenendo lo sguardo ostinatamente basso per non dover osservare le sofferenze dei pazienti non si poteva non incappare in qualche assurdo caso di disagio o malattia.
Camminava abbastanza spedita tenendo la mano di sua madre, senza mai staccare gli occhi dall'abito scuro della suora davanti a loro, fin quando questa non si fermò in mezzo al corridoio. Credettero per un istante di essere arrivate, tuttavia la donna pronunciò un nome a loro sconosciuto, richiamando la donna che, immobile in mezzo al corridoio, fissava il pavimento e sussurrava parole a mezza voce, citando quello che doveva essere un passo della Bibbia.
Osservarono sbigottite la scena, mentre la suora si avvicinava alla paziente, invitandola dolcemente a rientrare nella sua stanza,
cella, e a riposarsi un po', mentre questa alzava sempre di più il tono della voce, rendendo le parole sempre più chiare e i suoi movimenti sempre più agitati: "Egli si impadronì del drago, il serpente antico, che è il Diavolo e anche Satana." Gwynevere fissò la scena con muto orrore, aveva visto lo sguardo allucinato che aveva rivolto al nulla nel momento in cui era tornata nella sua camera, la sentivano ancora recitare l'Apocalisse dietro la porta spessa con voce altalenante e folle mentre vi passavano davanti.
E, come se niente fosse, la suora si voltò verso di loro, con lo stesso sorriso stanco di poco prima, invitandole gentilmente a proseguire, ché la cella di suo fratello era vicina.
Forse fu in quel momento che capì di non essere pronta ad affrontare quella realtà.
Temeva per il fratello e per se stessa, temeva ciò che avrebbe potuto vedere.
Non se lo chiese neanche; sapeva che restare a casa e conservare un ricordo quantomeno decente del fratello sarebbe stato meglio che vederlo e poi ricordarlo per sempre con l'aspetto di un folle.
Ma in fondo, di quella breve visita, si era aspettata ben di peggio.
L'infermiera le lasciò sulla soglia della porta, invitandole a entrare in quella cella di cinque metri per cinque dove il ragazzo sembrava addormentato, rannichiato in posizione fetale su un grigio letto addossato alla parete spoglia con i capelli che si allargavano come una macchia di sangue sul cuscino.
La porta si chiuse alle loro spalle e senza alcuna esitazione Abigayle si andò a sedere sull'unica sedia che si trovava accanto al letto, con il corpo proteso verso la sagoma del figlio.
Gwynevere rimase in piedi, con le spalle schiacciate contro la porta e lo sguardo vagamente confuso che correva per la stanza.
Osservava i grigi muri spogli macchiati dall'umidità, la minuscola finestra troppo piccola e troppo in alto per essere realmente utile, con i vetri macchiati dalla polvere, la lampadina spoglia che pendeva dal soffitto, la luce di questa che tremava e gettava lugubri ombre tutt'intorno.
"Helel, rispondimi. Ti prego..." Osservava il volto seminascosto di suo fratello, distorto in un'espressione folle, mentre con la mancina grattava a sangue il palmo dell'altra mano macchiando le coperte, del tutto indifferente a ciò che la madre, poco dietro di lui, gli stava dicendo.
Fino a che, forse, non si rese conto della presenza della sorella. Allora spostò lo sguardo su di lei, continuando a fissarla, mentre il sorriso malsano si allargava sempre di più, e le unghie scavavano sempre più in profondità nella sua stessa pelle.
La madre non si accorse di quel cambiamento, troppo impegnata ad asciugarsi le lacrime. Gwynevere, invece, ne fu fin troppo consapevole.
E fu forse per quello che non ebbe più la forza di andare in quel luogo.

*

Si ritrovò da solo, di nuovo, schiacciato da quelle quattro mura opprimenti e spoglie.
Sentiva il silenzio ronzargli nelle orecchie, dando un minimo di pace al suo animo. Voci e immagini in quegli istanti di assoluta immobilità sembravano abbandonare la sua mente. Forse complice anche la breve, brevissima, visita appena ricevuta. Non che gli avesse fatto piacere, ormai più poco riusciva a farlo gioire, e di certo rivedere sua sorella e sua madre non era stato di certo un toccasana.
Si mise seduto, sfregando il palmo della mano ora insanguinato, fissò il muro dritto davanti a sé, pensando che se avesse premuto l'orecchio contro di esso avrebbe potuto sentire chiaramente la paziente 0165 salmodiare passi della Bibbia, Vangelo, Apocalisse, e così via, in una lunga tiritera stancante e ripetitiva.
Lì i muri erano come carta pesta.
Era quasi arrivato al limite della sopportazione con lei; sentirla divagare in continuazione, lodare forze che neanche comprendeva...
Ma presto avrebbe risolto il problema. Nonostante per ora potesse solo aspettare.
Ancora qualche giorno, si disse, due o tre al massimo.

"...poi lo gettò nell'abisso che chiuse e sigillò sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti i mille anni, dopo i quali dovrà essere sciolto per poco tempo..."

O forse anche meno.

Le ore passarono in fretta. Helel, rinchiuso nella sua cella attendeva pazientemente, tentando in tutti i modi di mantenere la mente lucida.
Mancanvano pochi minuti all'ora di pranzo. Era ben consapevole delle distrazioni in cui sarebbe potuto incappare, sapeva che sarebbe potuto tornare in cella dopo aver mangiato senza ricordarsi nulla di quello che era successo in quell'intervallo di tempo. Ma quella volta era necessario che ricordasse, e che fosse pienamente presente e consapevole di sé.
Le porte si aprirono e le guardie passarono per il corridoio per richiamare, a volte trascinare a forza, i pazienti verso la sala comune. Helel camminava quasi in fondo alla fila, osservando distrattamente le persone davanti a lui. Sentiva l'incessante tiritera della paziente 0165 che camminava dietro di lui.
"
Beato e santo è colui che ha parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potestà la seconda morte, ma essi saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui mille anni." Helel si voltò nello stesso istante in cui una guardia intimava un minimo di silenzio e ordine, la donna sollevò la testa, fissando lo sguardo allucinato negli occhi cupi di Helel, prima di incassare la nuca tra le spalle e abbassare la voce, fino a renderla una nenia appena udibile.
Lei viveva nel suo mondo, e che avesse sentito l'ordine della guardia era pressoché impossibile.
Helel sorrise soddisfatto.

Il paziente 0078 sbatteva continuamente la testa contro il muro, diceva che lì dentro c'era qualcuno, qualcuno che parlava in continuazione. Pareva che lui tentasse solo di farlo tacere, o di farlo uscire rompendosi le ossa del cranio.
0199 stava rannicchiato sotto a un tavolo, terrorizzato dalla gente intorno a lui, il piatto con il pranzo era sopra, al suo posto, e sarebbe rimasto intoccato fino a che la sala non si sarebbe svuotata un po'.
0210 fissava il soffitto, passandosi lentamente la forchetta di plastica sporca sotto il mento, il perché si comportasse in quel modo non l'aveva capito nessuno.
0211 artigliava le sbarre alla finestra e urlava frasi sconnesse ai vetri.
0165 era seduta al tavolo, fissava il suo piatto e mangiava lentamente. Forse quelli erano gli unici istanti in cui interrompeva il suo mantra.
Helel gettò gli avanzi del suo pranzo schifoso nel cestino, avvicinandosi poi a quest'ultima.
La gente lì era tutta pazza, e anche chi giungeva lì sano finiva per impazzire, a furia di ripetere cose come '
io non sono pazzo'.
Lui non era un'eccezione.
Anche Helel era pazzo, sapeva che era così che la gente intorno a lui lo considerava, nonostante sapesse di essere in una situazione differente dalle gente intorno a lui. Era più o meno consapevole della sua situazione; c'erano momenti in cui le azioni che compiva non erano giuste, o etiche, agli occhi degli altri. Per lui quella distinzione non esisteva, non c'era una linea che separava il bene dal male. O meglio, per lui il bene era semplicemente ciò che lo faceva stare bene.
Dicevano che la sua mente era recuperabile. Non era perso in mondi immaginari, o bloccato in convinzioni distruttive, ma a lui quello importava meno che niente.
Mancava poco che la paziente ricominciasse a salmodiare i passi della Bibbia. Prontamente Helel le afferrò l'avambraccio, affondandoci le dita più del necessario, volendo avere la certezza di ottenere la sua attenzione. Infatti questa si voltò verso di lui, senza dire una parola.
"Ti sento, ogni notte, ogni giorno. Sento le preghiere e le parole di Dio che pronunci in continuazione. So cosa vorresti. Questo non è il tuo posto, non è vero?" La sua testa scattò in sù e in giù diverse volte. "E se ti dicessi che c'è un modo per andarsene da qui?" Le sue labbra si allargarono in un sorriso ferale nel momento in cui scorse negli occhi della donna una scintilla di lucidità.
Tirò fuori dalla manica un uncinetto rubato dalla dispensa, porgendolo alla donna. "Sai cosa puoi fare con questo." Quello era solo l'inizio.

Nel momento in cui vennero fatti tornare alle loro celle Helel si rese distrattamente conto che la donna aveva smesso di parlare, teneva la mani giunte in grembo, una punta di metallo spuntava appena tra le sue dita.
Un paio di giorni di attesa si sarebbero ridotti in poche ore.
Tornato alla sua cella si sedette contro il muro, trattenendo l'insensato impulso di tornare a grattarsi le ferite autoinflitte alla mano, e attese. Attese di sentire l'ultimo canto della donna.
Ma in quelle ore regnò il silenzio.
Fino a che lo strillo acuto di un'infermiera non riecheggiò nell'istituto.
E a questo si sovrapposero le risate di Helel.

"Dottore, mi scusi."
"Che cosa è successo?"
"La paziente 0165 è morta."
"Morta? Come è successo?"
"Pare che abbia tentato una lobotomia transorbitale da sola con un'uncinetto, Suor Jude l'ha trovata ed è ancora molto scossa, non è riuscita a dirmi altro."
"Accidenti. Ha lasciato qualcosa?"
"Beh, sì." Stava tutto scritto in un sottile tovagliolo della mensa, la scrittura fitta e nera, appena macchiato di sugo rosso che pareva uno schizzo di sangue.

"Ho la sensazione di conoscere tutti i personaggi del Buon Libro. Negli anni passati ho consumato i suoi volumi, preziosi più di ogni altra cosa in questo mondo malato. Sono entrata a braccietto con Daniele nella tana del leone, sono stata al fianco di Davide quando fu tentato da Betsabea che si bagnava nello stagno. Ne ho trucidati duemila con Sansone quando menava la mandibola d'asino come arma e sono stata accecata con San Paolo sulla via per Damasco. Ho pianto con Maria sul Golgota. Li ho conosiuti e li ho amati. Ce n'è solo uno, un solo personaggio di questo dramma senza eguali che io non conosco. Uno solo che se ne sta in disparte con il volto nell'ombra. Uno solo che fa tremare il mio corpo e gemere il mio spirito. Io lo temo. Non so intuire il suo animo e lo temo.
Io temo l'Intrigante.
L'Intrigante che si presentò a Eva nella forma di un serpente che strisciava il ventre nella polvere, sorridendo e sibilando.
Si avvicinò a Jezabel sul balcone e guardò re Achab precipitare urlando alla sua morte e sorrise con lei quando i cani accorsero a leccare il suo sangue.
C'è sempre stato. Ma io non intuisco il suo animo. Ma chi mai potrebbe intuire l'orrenda tenebra che si agita dietro la bellezza fanciullesca, l'orgoglio e la titanica blasfemia, l'empia gioia? E la follia! La delirante follia che striscia e cammina tra le brame dell'uomo.
Fu Lui a portare Nostro Signore sulla montagna, fu Lui a tentarlo e provocarlo offrendogli tutto il mondo e tutti i piaceri del mondo. È Lui che tornerà quando giungerà sul mondo l'Era Ultima.
È Lui, nelle vesti dell'Anticristo, un Re Rosso con gli occhi iniettati di sangue.
Mi ha trovato."

In quella misera lettera stavano tutte le sue convinzioni, il fulcro e il motivo della sua follia e, tuttavia, un briciolo di realtà.
"Dottore, dubito che Suor Jude si riprenderà dopo tutto ciò..."
"Prenderemo provvedimeni al più presto."

*

L'ora di cena arrivò abbastanza in fretta, e fu piuttosto simile a quella di pranzo, c'era chi ancora sbatteva la testa sul muro, perché non aveva mai smesso di farlo. Chi andava a nascondersi e chi urlava frasi sconnesse. Solo una cosa era cambiata; nell'aria non riecheggiavano più le parole recitate dalla paziente 0165.
Helel era soddisfatto, o almeno era quello che credeva di essere in quel momento, perché la sua mente, lentamente, sembrava starsi scollegando; osservava le sue mani distruggere il pezzo di pane che era insieme al suo pranzo, senza rendersi realmente conto di ciò che stesse facendo.
"Ti ho visto." Fu vagamente dconsapevole dei passi pesanti dieto di sé. "Ehi, dico a te." E ancor meno della mano che gli si era posata sulla spalla. "Ho visto cosa hai dato a Sarah." A quanto pare quello doveva essere uno dei pochi pazienti ancora lucidi, che si ostinavano a chiamare i propri compagni di prigionia con il loro vero nome piuttosto che con il numero che veniva loro tatuato sulla mano. Helel ricollegò poco dopo quel nome al volto della paziente 0165. "L'hai uccisa tu." E rimase tuttavia indifferente al periocolo che quell'uomo avrebbe potuto costituire.
"Io non ho fatto nulla." Disse semplicemente, senza smettere di torturare il suo tozzo di pane, fino a che non si sentì prendere per le spalle e tirare via dal tavolo.
"Ti ho sentito ridere, tutti ti abbiamo sentito, bastardo!" Lo fece finire a terra, mentre i loro vassoi finivano a terra e i piatti si infrangevano in schegge, ferendoli entrambi.
Dopo qualche attimo di colpi maldestri e mal assestati Helel si ritrovò con una di quelle schegge puntate alla gola, sentiva il suo stesso sangue scorrere pigramente sulla pelle; le lievi ferite che si sporcavano di succo vitale e sembravano avvolgerglisi attorno al collo come rami spinati di puro dolore. Si rese conto, mentre una scintilla di furore gli illuminava la mente annebbiata, che le sue mani erano corse a stringere senza remore il collo taurino dell'uomo.
Si afflosciò lentamente, mentre il suo volto assumeva una tonaità violacea a causa della mancanza d'aria, cosicche Helel riuscì a capovolgere le posizioni.
Lo sentiva boccheggiare sotto di lui, sentiva i suoi piedi agitarsi mentre con un'euforia bambinesca continava a stringere il suo collo e a sbattere la sua testa contro il pavimento.
Non ci volle molto, però, che un paio di guardie lo afferrassero per le braccia e, staccandolo a forza dall'uomo, lo trascinarono via. Non si accorsero però che Helel stringeva ora tra le mani una scheggia di percellana.
Confusione, follia. Era quello che stava attendendo.

*


Il dottore riattaccò la cornetta del telefono al ricevitore, spostando lo sguardo sulla suora che, dal giorno precedente, pareva terrorizzata a morte.
"Suor Jude..." Un sighiozzo interruppe il suo tentativo di rassicurarla.
"Non possiamo fare nulla." Disse con voce rotta, asciugandosi le lacrime con un sottile fazzoletto. Sospirò pesantemente, prima di alzarsi e dirigersi alla finestra, a osservare la tempesta in arrivo.
"Che cosa..." Ancora una volta, venne interrotto.
"I suoi capelli erano rossi, rossi come il sangue, come l'inferno, oh Dio, salvaci, il male è approdato su questa terra." La suo voce era poco più che un sussurro in quel momento, tuttavia il dottore la sentì chiaramente, e capì la profonda convinzione di quella donna.
"Suor Jude, avanti, non sia così tragica, era solo un ragazzo con dei disturbi." la suora si voltò verso il dottore, osservandolo con gli occhi arrossati, pieni di un timore mortale.
"Il Diavolo è reale, Dottore, e non è un mostro rosso, con le corna e la coda. Può essere bellissimo, perché è un angelo caduto, e un tempo era il preferito da Dio." Per un attimo una luce bianca e malsana illuminò tutto il panorama visibile, seguita dalla prima goccia di pioggia. Si riflesse sui vetri delle costruzioni circostanti, stagliandosi imponente nel cielo carico di nuvole cupe. La pioggia raggiunse il boato del tuono, improvvisando un acquazzone già da tempo premeditato e preparato con cura dal cielo. Il tuono risuonò in lontananza, mentre l'animo del dottore pareva appesantirsi, schiacciato dalla colpa e dal fallimento.
"Dottore, io ho visto il suo sguardo mentre stringeva il collo di quell'altro paziente." Riprese un attimo fiato, ancora vagamente sconvolta da ciò a cui aveva assistito. "Non ho mai visto uno sguardo del genere, mi ha terrorizzata."
Aveva gli occhi che luccicavano pieni di piacere e gioia malsana, come se in quegli istanti si stesse compiendo il vero scopo della sua vita.

La donna riattaccò la cornetta al ricevitore, restando poi a fissarlo per lunghi istanti.
"Madre?" Abigayle si voltò, gli occhi arrossati a cercare il volto della figlia tra le ombre della stanza. "Che succede? Chi era al telefono?" Il fiato fuoriuscì dalle sue labbra in un tremante sospiro. Ormai non aveva più senso tenere la figlia all'oscuro.
"Mi ha chiamato il manicomio." Non una scintilla di gioia o speranza illuminò il volto di Gwynevere; aveva visto il volto della madre, e aveva capito che non ci sarebbe stata alcuna buona notizia.
"Che cosa ti hanno detto?" Si sedette accanto a lei, cercando nei suoi occhi la risposta che temeva.
"Hanno detto che è un pericolo, che può far del male alla gente, che non siamo al sicuro perché..." Aveva pregato il dottore di dirle ogni cosa che era successa, nella speranza di capire. Aveva portato una donna a suicidarsi, secondo alcune testimonianze, aveva quasi strozzato a morte un uomo e aveva ucciso due guardie con una scheggia di porcellana.
"Mamma?"
"È scappato." E infine fuggire.

*

Osservò la sua stessa mano ferita, il numero tatuato che un tempo era stato 0166 era diventato, a furia di grattare e tirare via la pelle, il numero della Bestia.
Finalmente era riuscito a tornare nel suo vecchio quartiere, la sua vecchia casa, dove si trovava la sua famiglia. Vedeva ombre muoversi dietro le tende tirate, come spettri di un passato quasi del tutto dimenticato ma che tuttavia continuavano a tormentarlo incessantemente.
Si avvicinò ai rovi che contornavano la casa, del tutto incurante della pioggia che scendeva con forte insistenza e delle spine che si insinuavano nella sua carne dal momento in cui aveva allungato la mano verso l'unico fiore, rosso come sangue, che svettava in mezzo a quella massa nera di spine.

"Helel?" Una voce piena di timore, diversa, molto più reale, ma tuttavia terribilmente uguale a quella che urlava e infestava la sua mente. Voleva liberarsene a tutti i costi, liberarsi di quel tormento che gli rubava la lucidità. Ma ora, a un passo da loro, sentiva di essere vicinissimo a trovare la cura. Doveva liberarsi delle loro voci.
Recuperò al chiave di riserva che usavano lasciare nel vaso accanto alla porta e la infilò nella toppa.
Sentì le labbra sirarsi in un sorriso nel momento in cui vide il volto sorpreso di sua madre.
"Helel" La sua voce si spense lentamente, a causa delle mani del figlio che erano andate a stringersi intorno al suo collo. Lentamente, i suoi occhi ora pieni di terrore e tristezza, si fecero opachi, in essi impressa per sempre come ultima immagine il volto del figlio distorto in un'espressione di folle gioia.
"Madre?" Dal piano di sopra giunse la voce ovattata di Gwynevere, subito dopo dei passi rapidi e leggeri.
La prima cosa che vide fu il corpo di sua madre crollare a terra, con intorno al collo una collana di sangue e gli occhi spalancati e fissi verso il soffitto.
Neanche un urlo strozzato uscì dalle sue labbra quando vide la figura del fratello, uscì solo un farfuglio senza senso. Orrore animalesco. Matta disperazione. Il gemito che fanno i morti all’inferno.
Il sorriso bambinesco e l'umida rosa rossa che stava lasciando cadere sul corpo della madre terrorizzarono Gwynevere, così come le lievi parole che uscivano dalle sue labbra screpolate.
"Sembro un santo quando faccio la parte del diavolo." Aveva il sorriso di un folle, gli occhi che come smeraldi risplendevano di una luce malsana e i capelli bagnati che, come sangue, gli si incollavano al viso.
Gwynevere capì che non avrebbe vissuto abbastanza per vedere altro.

Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?
Alla fine non era cambiato niente. A nulla era servita la sua folle decisione. Quelle voci rimbombavano nella sua mente come un orribile lascito.





_____________
Info:
Questa storia partecipa al contest 'Darkness' indetto da Nelith e Selis
Helel: Lucifero (in ebraico
הילל o Helel, in greco φωσφόρος, in latino Lucifer)
I discorsi della paziente 0165 sono presi direttamente dall'Apocalisse.


  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: La sposa di Ade