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Autore: Infelicecronica    27/12/2014    0 recensioni
“Dove trovi la forza di sorridere, dove? Non sai che la guerra ci sta annientando? Non sai che della mia casa non sono rimaste che ceneri, ceneri di case mescolate a ceneri di uomini, donne, bambini?” Il silenzio della stanza è rotto da un suono debole, roco, esausto, che dopo una decina di secondi mi rendo conto essere la mia voce."
A voi il resto, spero vi piaccia :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~“Ecco che ricomincia, un’ altra volta…spero sia l’ ultima, questa. Deve esserlo.”
La fredda luce dell’ alba inizia a farsi strada tra le sottili fessure delle persiane della mia stanza d’ ospedale, ma senza fretta. Sembra capire la mia riluttanza ad affrontare una nuova giornata, quindi procede quasi con cautela, timidamente. Si sparge a righe orizzontali sul lenzuolo stropicciato in fondo al letto e sulle pareti d’ intonaco grigio scrostato, e quando minaccia di avvicinarmisi al volto provo l’ impulso di affondarlo nel cuscino; poi, però, mi rendo conto di non riuscire a muovere neppure un singolo muscolo del mio corpo. E’ una sensazione così strana, ma non mi è sconosciuta, anzi: mi riporta indietro a due anni fa, nei boschi che circondavano il Distretto 12, in una tipica giornata soleggiata, un tappeto di aghi di pino secchi sotto la suola dei vecchi stivali da caccia ereditati da mio padre. Stavo accovacciata dietro il tronco di un albero, in silenzio, aspettando che un cervo si avvicinasse abbastanza da essere a portata di tiro. Spesso quest’ attesa si prolungava anche per un’ ora, se la preda si spostava frequentemente brucando i rari ciuffi d’ erba fresca, e allora avvertivo un lieve formicolio partirmi dalle dita dei piedi e risalire lungo tutte le gambe; nonostante ciò cercavo di non muovermi, sapevo fin troppo bene quanto fossero vigili i cervi: il più piccolo rumore, e avrei detto addio alla mia cena. Un’ altra volta.
Ora, distesa su un letto freddo e duro come una lastra di pietra, in una stanza vuota che odora di disinfettante e solitudine, provo a far rivivere in me il senso di libertà e spensieratezza che mi pervadeva il petto in momenti come quelli. Boschi. Pini. Cervi. Verde. Muschio. Sole. Vita.
Niente. Queste immagini non scatenano più niente dentro di me. Non mi fanno venir voglia di cantare, né di correre, né di stendermi in un prato ad osservare il cielo. E non è l’ effetto dei farmaci che mi iniettano da quasi due settimane a farmi sentire vuota; non sono gli aghi che sporgono dalle vene delle mie braccia a gelarmi il sangue; forse tutto questo è solo un profondo, interminabile incubo. Si, dev’essere così. Tra un po’ mi sveglierò, e ci sarà qualcuno accanto a me a tenermi la mano tra le sue per scaldarla. Riesco quasi a sentire il suo tocco, ora, voglio che quella fonte di calore così morbida mi si avvicini; la guido verso il mio volto. Rabbrividisco quando si posa sulla mia guancia, e allora sono ancora più convinta che questa stanza d’ ospedale sia solamente frutto della mia immaginazione, perché distinguo chiaramente la sensazione di incredibile calore che ora si irradia dal mio volto verso tutto il corpo, e niente di così bello potrebbe scaturire all’ interno di queste quattro mura dall’ intonaco scrostato.
Provo un moto di gratitudine nei confronti di chi mi sta accarezzando il volto. Non vedo il suo, ma per qualche ragione so di essere nel posto più sicuro del mondo. Mi sento felice. Sollevata. Amata.
Poi lo sento.
Odore di cannella e rosmarino.
Di farina e zucchero a velo.
Di pane appena sfornato.
Apro gli occhi di scatto, e non ho neppure il tempo di realizzare di aver sognato tutto quanto quando le pareti scrostate iniziano a muoversi verso di me, come per schiacciarmi tra loro. L’ aria è pervasa da un odore acre e inconfondibile, inconfondibile solo per me. Riconosco il puzzo di sangue e cadavere, con una vaga traccia di aroma di rosa. So cos’è, perché lo risento ogni notte da ormai un anno e mezzo. L’ alito degli ibridi. Poi il mio campo visivo è invaso dal buio, e mentre sprofondo di nuovo nell’ abisso da cui sono appena riemersa,  distinguo i contorni tremolanti di un volto esangue, solcato da due enormi cerchi violacei attorno agli occhi, occhi di un azzurro talmente profondo e talmente limpido che il blu del cielo mi sembra soltanto una loro copia sbiadita, un banale tentativo della natura di eguagliare quelle iridi, a confronto. Quelle due gemme celesti si piantano sul mio sguardo, ci scavano dentro, e io mi sento improvvisamente trasparente, inerme, nuda. Ho sempre odiato sentirmi vulnerabile, privarmi di quella corazza dietro la quale mi sono sempre arroccata, e che dopo gli Hunger Games ha sostituito direttamente la mia carne, ma per qualche motivo, questa volta, non è così, anzi: bramo quella scorsa, mi ci aggrappo con ogni grammo di forza che ancora mi scorre in corpo, desidero solo una cosa: che duri per sempre. Tendo lentamente una mano verso l’ alto, per accarezzare quel volto scarno ma che mi comunica fiducia, protezione. Mi avvicino sempre di più alle sue guance, mentre i suoi occhi rimangono fissi sui miei, e io riesco a leggervi la tempesta di sentimenti che vi infuria dentro, un turbinare incessante di gioia, commozione, impazienza, passione, abbandono, sconfitta, dolore, compassione, frustrazione, impotenza, nostalgia, e un’ infinita, gelida tristezza che, secondo dopo secondo, prima li vela e poi li perfora, e ogni volta che questo accade, ogni volta che quell’ azzurro placido si mescola al grigio, io muoio dentro.
Poi, proprio quando sto per abbassare gli occhi perché quello sguardo triste mi sta squarciando l’ anima, la noto, tanto viva quando inconfondibile: felicità. Felicità che affiora tra la desolazione, che rivaleggia con la tristezza, che la schiaccia e ne prende il posto. Felicità che si irradia e pervade tutto il volto, cancellando ogni traccia di pallore, sprigionando un sorriso sepolto e riaccendendo di luce i capelli di un biondo spento.
Sento un nodo bruciante salirmi alla gola, una domanda che la mia coscienza non  mi permette di ignorare: perchè?
“Dove trovi la forza di sorridere, dove? Non sai che la guerra ci sta annientando? Non sai che della mia casa non sono rimaste che ceneri, ceneri di case mescolate a ceneri di uomini, donne, bambini?” Il silenzio della stanza è rotto da un suono debole, roco, esausto, che dopo una decina di secondi mi rendo conto essere la mia voce.
 “Non sai che Cinna è morto, che Rue ha una lancia conficcata sul ventre, che gli ibridi hanno dilaniato Cato, che Mags è scomparsa nel nulla e io non sono nemmeno riuscita a dirle addio?” Sento dei rivoletti caldi scorrermi lungo le guance, e poco dopo sento un sapore salato lambirmi un angolo della bocca. “Perché sorridi?”
E lo sento rispondere, non con la voce, ma col cuore. E’ un suono così puro, così limpido e vergine che rimango stordita. Fisso il volto pallido di quel ragazzo, i suoi occhi limpidi e i suoi capelli sbiaditi, e poi sposto lo sguardo seguendo il suo. Mi ritrovo ad osservare il mio stesso corpo, abbandonato sopra il letto ospedaliero, immobile e freddo, svuotato da ogni traccia vitale. E allora capisco.
Sono io la causa della sua felicità, io e il cuore che ancora batte nel mio petto, io e il sangue caldo che ancora mi scorre nelle vene, la vita che ancora non mi ha abbandonata. “Obiettivo” è la parola che inizia a rimbombarmi in testa. “Era il suo obiettivo, che io vivessi.”
 
   
 
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