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Autore: Silvar tales    27/12/2014    3 recensioni
Qui segue il racconto di Thranduil e Filigod.

Un piccolo tentativo di conciliare film e canone tolkieniano.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Neldoreth








Dicevano che non vi era altra uscita da Menegroth se non il ponte di pietra che solcava il fiume, e il ponte era sorvegliato notte e giorno, nessuno vi passava senza che le sentinelle lo vedessero.
Dunque com’era possibile che il figlio di Oropher, un ragazzino da poco venuto alla luce del mondo, riuscisse a scappare, ogni volta? E ogni volta, gli esploratori elfici lo riportavano al cospetto del padre, dopo che l’avevano colto a girovagare tra i boschi, fuori dalle mura della propria casa.
In realtà, le sue non erano vere e proprie fughe. Egli amava la luce della luna e delle stelle, più di ogni altra luce gialla e calda che brillava nelle viscere delle gallerie, né i numerosi lucernari che bucavano il soffitto dell’osservatorio sotterraneo lo saziavano: egli voleva avere tutta quanta la volta del cielo notturno sopra di sé.
Per cui molte notti era uscito all’esterno, nella foresta, senza che nessuno se ne accorgesse, perché poi faceva sempre ritorno. Oropher comprendeva un tale bisogno: gli Eldar erano nati sotto le Stelle, e tutti loro provavano attrazione per esse, ma non poteva comunque lasciare che suo figlio girovagasse da solo per la foresta. Oropherion era ancora giovanissimo, e anche se all’interno della Cintura di Melian nessun’Oscurità poteva penetrare, lupi e altre creature selvagge erano sufficienti a metterlo in pericolo.
Un giorno, mentre Oropherion era immerso nello studio, giunse da lui Re Thingol. Il suo sguardo era saggio e gentile, e portava nel cuore una profonda calma, un’aura di luce e serenità che si spandeva intorno ai luoghi dove egli camminava.
«Così, hai trovato il passaggio per i Colli di Pietra, attraverso la sala delle fucine. Neanch’io sapevo della sua esistenza, all’inizio, quando i Naugrim costruirono questo rifugio. Arroccarsi sotto terra senza pensare a come uscirne è oltremodo stupido, e pericoloso.
Ma non ti proibirò di usarlo, non lo chiuderò, né metterò una guarnigione a sorvegliarlo. Ti chiederò soltanto di fare più attenzione, figlio di Oropher. Questo luogo deve rimanere celato agli occhi dei malvagi».
Così, rincuorato dall’indulgenza e dalla benevolenza di Thingol, il giovane Eldar tornò ancora una volta nella foresta, quando la luna era nera per metà. All’esterno, ovunque vi era silenzio: i rumori metallici delle fucine più non erano, l’aria tiepida delle gallerie più non era: vi erano il vento, i versi delle bestie, e l’aria fredda della notte.
Un sentiero dimenticato, mangiato dagli arbusti del sottobosco, correva verso Est, seguendo il ruscello che, uscendo dai cunicoli delle fucine, balzava fuori e serpeggiava tra gli alberi sempreverdi. Pareva un sentiero usato dai cacciatori soltanto, che non portava da nessuna parte, solo a una vecchia radura piena di sassi ricoperti da un muschio verdissimo. Oropherion vi giunse come ogni volta, beandosi dello spazio che le chiome degli alberi lasciavano libero al cielo. Si sedette sul masso più alto, e piegò la testa all’insù, allacciando le braccia attorno alle ginocchia per non perdere l’equilibrio.
Un lontano chiarore ancora doveva abbandonare il cielo, a Ovest, laddove il sole in agonia si era già nascosto dietro la linea dell’orizzonte. I suoi occhi azzurri, affamati di stelle, le osservavano come se fossero parte di esse.
Una strofa di un antico racconto sulla Creazione diceva che gli occhi degli Eldar erano astri caduti, poiché durante i Primi Giorni delle Lunghe Notti non vi era differenza tra i bagliori che essi emettevano e i bagliori che la luna e gli astri emettevano. Il cielo era unito alla terra da un buio profondo e al contempo da innumerevoli bianche luci.

«Chi sei tu, che guardi le stelle?»
Il giovane sobbalzò. Era forse la voce della foresta che gli parlava? Non vi era anima viva nella radura, se ne accertò guardandosi attorno, preso da spavento. Non scese dal masso, poiché rimanere in alto lo faceva sentire al sicuro.
«Chi sei? Vattene, se non vuoi dirmi il tuo nome!» disse di nuovo la voce, accompagnata da uno scalpiccìo di zoccoli tra i cespugli del sottobosco.
Una fanciulla elfica uscì dalle fronde nere, delicata come un’ombra. Una fanciulla dai capelli dorati, lunghi fino alle scapole. Nelle falde della veste grigiastra aveva della biada, e con lei uscirono dal bosco anche due cervi, un maschio dalle imponenti corna, e una femmina, esile ed elegante, così come lo era la giovane. Oropherion trovò che fosse più bella di qualsiasi creatura avesse mai veduto.
«Stai spaventando i miei cervi, vattene via», lo rimbeccò nuovamente lei.
«Non mi sembrano affatto spaventati», si difese il giovane. Il cervo maschio infatti lo scrutava con interesse, allargando le narici e muovendo nervosamente le orecchie.
«Hai ragione», fu costretta ad ammettere la fanciulla, «ora si sono incuriositi».
«Vivi a Menegroth? Non ti ho mai veduta…» Oropherion ricordò troppo tardi le raccomandazioni di Thingol, e subito avrebbe voluto tapparsi la bocca. Una mente astuta avrebbe subito compreso, dalle sue parole avventate, che nelle vicinanze vi era un ingresso per la nascosta Città delle Mille Gallerie. Ma in quella creatura non vi era ombra di malizia.
Gli aveva sorriso, poi aveva scosso la testa e si era piegata per porre a terra il fieno che portava in grembo.
La cerva si mise a brucare, mentre il cervo attese, paziente e ancora diffidente dell'intruso seduto sul masso.
«I Monti Azzurri sono la mia casa», disse la giovane.
«Anche la mia».
Ella spalancò gli occhi per la sorpresa, e in quell’attimo Oropherion si rese conto di quanto fosse acerba: forse neppure cento anni le avevano solcato il viso.
«La mia famiglia marciava verso le caverne di Finrod, ma mi sono perduta lungo la via, e nessuno tornerà mai più indietro a prendermi. Sono rimasta sola, nella foresta».
Egli stentava a credere che quanto ella raccontava corrispondesse a verità, poiché non vedeva ombra di paura o smarrimento sul suo viso.
«Non mi hai ancora detto il tuo nome, tu che guardavi le stelle».
«Oropher è mio padre. Thranduil è il mio nome». Ella gli sorrise di nuovo, con un candore e una spontaneità che non lasciavano alcun posto alla menzogna. Thranduil sentiva, nel suo cuore, di potersi fidare. «Vivi da sola nella foresta, non hai paura?»
La giovane piegò la testa in segno di rispetto. «Melian protegge questi confini. Non ho paura degli alberi né dei cervi». Il giovane Eldar sorrise, pensando alle eccessive premure che il padre gli dedicava, mentre questa fanciulla, più giovane di lui, non temeva i rumori della notte, non temeva di essere sperduta in un luogo che non conosceva.
Scese dal masso per venirle più appresso, e nei suoi occhi azzurri trovò una grande forza. «Qual è il tuo nome?»
Ella distolse lo sguardo, e parve rattristarsi, come se pensieri nefasti le avessero rabbuiato la mente.
«Io so perché la mia famiglia non torna indietro a cercarmi, né lo farà mai. Io non possiedo il dono della voce, per questo vengo disprezzata».
«Cosa vuoi dire?» Thranduil le sollevò il mento con più delicatezza possibile, di modo che lo guardasse negli occhi. Le stelle si riflettevano nei suoi occhi, e per un attimo fu come nei racconti, come se cielo e terra fossero divenuti una sola cosa.
«Non vi è grazia né beltà nella mia voce».
«Nei tuoi occhi vedo entrambe».
Si chinò a baciarle la bocca.



*





Thranduil fece in seguito ritorno da lei tutte le notti nelle quali riusciva a eludere la sorveglianza del padre. Un mese era passato, e ancora non sapeva il suo nome: lei sviava ogni volta che provava a chiederglielo, per cui Oropherion cominciò a chiamarla Ithilglîn, ed ella rideva ogni volta che lo faceva.
Rimanevano spesso ore intere sdraiati sul tappeto di aghi rossi che ricopriva il sottobosco, a rimirare le lontane stelle e a raccontarsi l'uno con l'altra storie perdute e vecchie leggende. I racconti che conosceva l’uno, l’altra li ignorava e viceversa.
Così era come se avessero condiviso un passato comune, infine entrambi venivano a sapere le stesse storie con cui erano cresciuti.
«Ithilglîn, non ho fatto parola di te con nessuno, ma forse, se lo facessi, ti potrei far entrare a Menegroth. Eppure sento che sarebbe come estirpare un fiore di montagna e metterlo su una corona: morrebbe. Tu appartieni alla foresta, Ithilglîn». La guardava negli occhi, mentre le diceva queste parole.
Ithilglîn non gli rispose, si limitò a giocare con i suoi capelli biondi, come volesse celare un momento d’imbarazzo. Si levò in piedi e Thranduil la seguì, confuso. La prese per le spalle, con grazia, e la voltò verso di sé.
Portò una mano a sfiorarle il ventre e le baciò la fronte pallida.
«Ithilglîn, se noi...»
Ma lei lo interruppe, scosse energicamente la testa per poi guardarlo con un barlume di malinconia.
«Non è ancora giunto il tempo. Prima, lasciamo che l’Onda passi, e che ci sommerga. Il nostro amore maturerà su lidi sicuri, lontano dal mare».
Thranduil non capì appieno ciò che ella intendeva, ma avvertiva un’ombra minacciare il loro nido. La strinse a sé, illudendosi di poterla spazzare via.
E i due cervi rimasero ad osservarli, silenti e immobili.







Notte in Neldoreth

   
 
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