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Autore: sheisaflame    28/12/2014    2 recensioni
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Bellarke.
"La verità nei suoi occhi era l’unica cosa capace di convincerla.
Bellamy lo sapeva.
E sentiva che anche Clarke se ne stava convincendo."
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Era la diciottesima volta in due ore che Clarke si lavava le mani.
Eppure era ancora lì. Lo era secondo la legge che dettava la sua mente, per lo meno.
Il sangue di Finn era ancora lì.
Ed era caldo. Caldo da far male. Clarke sentiva come se quel sangue le stesse pizzicando la pelle, come se fosse vivo, come se stesse cercando un luogo dove annidarsi per ricordarle continuamente ciò che aveva fatto.
Come se potesse scordarsene. Come se potesse scordarsi della lama fredda che andava a conficcarsi nel corpo di Finn. Come se potesse scordarsi dei suoi respiri sempre più veloci. Come se potesse scordarsi del suo cuore che batteva all’impazzata. Come se potesse scordarsi del suo sguardo velato e assente.
Come se potesse scordarsi di averlo ucciso.
Sapeva di aver fatto la scelta giusta. Quella era la scelta giusta da fare. L’unica che le era rimasta.
Eppure non riusciva a smettere di lavarsi le mani.

Le lacrime di Raven erano salate, quasi amare. E la maglia di Bellamy ne era completamente inzuppata.
Non era bravo a consolare le persone. Proprio per niente. E non era bravo neppure con le parole. Preferiva restare in silenzio piuttosto che dire qualcosa di sbagliato.
Raven si era addormentata tra le sue braccia e lui cercava di reprimere l’istinto di alzarsi e andare a cercare Clarke. La conosceva ormai abbastanza da capire che non aveva bisogno di nessuno in quel momento. Che non voleva aver bisogno di nessuno. Era diventato capace di interpretare i suoi pensieri attraverso uno sguardo, in un decimo di secondo o forse meno.
Se ciò fosse un bene o un male, Bellamy non lo sapeva.
Ma sapeva che gli importava di lei. Non nello stesso modo in cui gl’importava di Octavia, non come un fratello maggiore. Gli importava di lei perché la capiva, in un certo senso la capiva. E lei capiva lui.
Gli importava perché era Clarke.

«Clarke…»
Tre passi avanti. Due indietro. Tre passi avanti. Due indietro.
«Clarke.»
«Mamma.»
«Sono passati ormai due giorni, Clarke. Non pensi che…»
Un passo avanti. E poi un altro.
«Non penso niente.»
«Dovresti uscire. Prendere una boccata d’aria, schiarirti le idee. Fare qualcosa che ti tenga la mente occupata, che ti distragga. So che è dura.»
«È qui che ti sbagli, mamma. È proprio qui che ti sbagli. Non lo sai. Non puoi saperlo perché non mi hai uccisa. Mi hai mandata qui a morire, questo sì, ma non mi hai uccisa.»
«Non è stata colpa tua, Clarke.»
Uno, due, tre passi in avanti. E ancora. Fino a venti. Fino ad essere fuori da quella maledetta tenda. Fino a dirigersi di corsa verso la falla nella recinzione creata da Raven. Di corsa. Di corsa fino alla navicella dove tutto iniziò solo qualche mese prima.

«Va meglio?»
«Sì, grazie.»
Bellamy sorrise a Raven. Era un sorriso carico di compassione, di pietà, di pena. Bellamy non poteva fare altro che provare pena per quella ragazza. Aveva appena perso la sua famiglia, se Finn si potesse definire così. Bellamy poteva solo immaginare cosa si provasse. Provò a immaginarsi di vedere Octavia morire per mano di una persona a lui cara senza poter fare nulla e gli venne da vomitare.
Quando Abby entrò nella tenda, Bellamy aveva già intuito cosa gli avrebbe detto.
«Clarke è scappata di nuovo.»
Nessuna risposta da Raven.
«Ne sapete qualcosa?» Bellamy ebbe l’impressione che si rivolgesse soprattutto a lui.
«No, ma posso andare a cercarla.»
«Non è una buona idea. Fuori è ancora troppo pericoloso.»
«Finn è morto da tre giorni e la tregua ancora regge. Dobbiamo approfittarne finché dura.»
Si stava già infilando la giacca.
«Non riuscirei comunque a fermarti, vero?»
Bellamy scosse la testa e uscì.

La mappa. Per fortuna si era ricordata della mappa.
La tirò fuori e la stese sul pavimento sporco della navicella. L’aveva già memorizzata da un pezzo, ma voleva essere sicura di non aver trascurato nemmeno un minuscolo dettaglio.
Il tempo scarseggiava e Clarke se ne rendeva conto sempre di più. Ogni secondo che trascorreva con le mani in mano era una ferita aperta. Andare a riprendersi i suoi compagni a Mount Weather era l’unica sua possibilità di salvezza. L’unica cosa che potesse non farla impazzire. Era ormai un’ossessione, un pensiero fisso.
Ma aveva bisogno di un piano. Per qualche strana ragione, per la prima volta da quando erano approdati sulla Terra, sentiva di non aver bisogno di nessun’altro. Sentiva di potercela fare da sola, di poter salvare i suoi compagni da sola.
«Hai ucciso Finn, Clarke Griffin. Ora sei davvero capace di tutto» sussurrò.
Forse, però, avere un terrestre come spalla le avrebbe fatto comodo. In fondo, senza Anya non sarebbe mai riuscita a scappare da Mount Weather. Sì, doveva convincere Lexa ad affiancarle uno dei suoi guerrieri. Poteva essere una missione suicida, ma lei non doveva saperlo.
Clarke sentì dei passi. Evidentemente sua madre non ci aveva messo molto a indovinare dove fosse.
Si diresse come una furia verso l’entrata, pronta ad esplodere. Quella donna era troppo testarda. Doveva farle capire una volta per tutte che non era più la sua bambina indifesa, che poteva prendere delle decisioni da sola, che non aveva bisogno di lei.
Voleva urlare, era sul punto di farlo, finché non finì addosso a qualcuno di decisamente troppo alto e massiccio per poter essere sua madre.
«Principessa, sono appena arrivato e già mi vuoi cacciare?»

Il viso di Clarke era paonazzo, il suo corpo tremava di rabbia. Bellamy non l’aveva mai vista in questo stato. Sperava di aver fatto la cosa giusta raggiungendola, ma finora non sembrava così.
«Clarke?»
«Sto bene. Mi hai solo colto di sorpresa.»
«Ah.»
Rientrarono nella navicella e si sedettero a terra senza dirsi una parola. Era già capitato che facessero delle cose in sincrono, ma solo ora Bellamy se ne rendeva pienamente conto. Si chiedeva se anche Clarke lo notasse.
Si guardò intorno. Non c’era rimasto molto lì. Un paio di zaini, qualche medicinale di Lincoln ancora sigillato, delle tende da montare e diverse armi. Più una mappa.
«E fu così che Clarke Griffin distrusse Mount Weather con un paio di pistole e un materasso gonfiabile.»
Clarke s’irrigidì. Bellamy capì di averla colta in fallo.
«Potresti almeno portarti dietro una bottiglia di whiskey. Sai, per brindare alla tua impresa.»
L’espressione della ragazza si addolcì un poco.
«Hai un’idea migliore?» gli chiese sarcastica.
«Bere da soli è decisamente molto triste, ti serve un compagno d’avventura.»
«E come dovrebbe essere, questo compagno di avventura?»
«Senza dubbio di una bellezza mozzafiato. Affascinante. Magari moro, sai, i biondi non intimoriscono. Divertente, simpatico, alla mano. Uno che sappia maneggiare un’arma o anche due contemporaneamente. Che sappia cacciare, accendere un fuoco e persino cucinare.»
«Hai ragione. Forse dovrei chiedere a Kane di accompagnarmi.»
Risero entrambi. Non era una risata forzata, amara, tutt’altro.
«Sei venuto per riportarmi indietro, vero?» disse lei con tono rassegnato.
Bellamy dovette pensarci su. Aveva visto pura disperazione negli occhi della madre di Clarke, la paura che sua figlia non ritornasse o che facesse qualcosa di insensato. Dovevano tornare al campo. Avrebbero dovuto tornare al campo. Se Clarke fosse stata Octavia non avrebbe esitato a portarla via da lì.
Ed ecco che i visi di Jasper, di Monty e di tutti i loro amici rinchiusi dentro Mount Weather si materializzarono nella sua mente.
Erano trascorsi ben tre giorni dall’inizio della tregua e nessuno aveva ancora fatto nulla. Nessuno sembrava voler anche solo pensare a Mount Weather. Nessuno aveva preso la situazione in mano, nessuno aveva un’idea, un progetto. Si erano già arresi ancora prima di cominciare.
«Sono venuto per chiederti se ti andava di rischiare la vita con me.»

Faceva abbastanza freddo. I muscoli di Clarke erano ancora rigidi nonostante lei e Bellamy stessero camminando ormai da mezza giornata. Gli zaini pesavano sulle loro spalle come macigni. O forse non erano gli zaini, ma consapevolezza di ciò che stavano per fare che gravava su di loro come l’ascia di un boia.
Clarke si domandava a cosa stesse pensando Bellamy. Di solito non era così silenzioso. Riservato sì, ma era uno di quelli che cercava sempre di alleggerire l’atmosfera a modo suo. Solitamente chiedendo se le armi erano cariche.
«Bellamy.»
Lui la precedeva, ma la distanza fra loro era comunque minima.
«Sì, principessa?»
Si voltò verso di lei. Sorrideva. Piccole rughe si erano increspate all’altezza dei suoi occhi scuri smorzando un poco la sua solita espressione fredda.
«Ero curiosa di sapere il perché di ‘principessa’.»
Le sue labbra si incurvarono ancora di più.
«Non lo so. È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho vista.»
«Che assomigliavo ad una principessa?» Clarke chiese con sarcasmo.
«Che non saresti durata neanche una settimana qui, col tuo bel visino e tutto il resto.»
«E tutto il resto?»
«Sai di cosa parlo. Andiamo, Clarke, di certo non ti si potrebbe scambiare per una guerriera terrestre.»
«Non so se te ne sei accorto, Bellamy, ma ho un fucile in mano.»
Lui alzò gli occhi al cielo e Clarke lo imitò.
«Sono sicuro che anche gli altri hanno pensato la stessa cosa. Te ne andavi in giro con quella tua aria da ‘qui comando io’ e dando ordini a tutti. Decisamente divertente.»
«Non davo ordini a tutti!»
«Avrai risparmiato sì e no un paio di persone. Giusto Finn e…»
Finn. Gli occhi di Clarke si chiusero mentre quelli di Bellamy si accendevano di comprensione.
«Dovremmo accamparci, si sta facendo tardi. Vediamo di trovare un bunker, non ho intenzione di passare la notte tremando in una tenda.» disse lei.

Furono fortunati, dopo neanche un’ora erano già al riparo. Nel frattempo il cielo si era annuvolato e numerosi tuoni rompevano il silenzio magistrale della foresta, segno che stava arrivando un temporale.
Questo bunker era leggermente diverso dagli altri che avevano visto. Bellamy si accorse che non c’erano foto di famiglia o oggetti che potessero ricondurre alla presenza di bambini, ma solo bottiglie, asciugamani, munizioni e qualche arma. Più un pacchetto contenente qualcosa.
«Principessa, guarda qui.»
Lei gli si avvicinò con fare riluttante, sedendosi al suo fianco. Bellamy lo aprì.
«Sono…»
«Sigarette! Non pensavo ne avrei mai viste.»
Sull’Arca le sigarette, così come qualsiasi altra cosa che potesse essere altamente nociva alla popolazione già piuttosto scarsa, erano proibite. Ai bambini veniva insegnato a scuola che almeno il 20% dei loro antenati erano morti a causa dell’abuso di esse. Nessuno sapeva se ciò fosse vero o meno, fatto sta che di sigarette nello spazio non se ne potevano trovare neanche per sbaglio.
Bellamy ne tirò fuori una e se la rigirò tra le mani, poi la posizionò tra le labbra screpolate. Il sapore era acre ma non sgradevole, solo un po’ pungente. Dopo quasi cent’anni senza che nessuno le toccasse era il minimo.
«Accendiamola» Clarke gliela prese con un gesto veloce, improvvisamente rianimata. Si alzò e iniziò a frugare in giro per la stanza fino a che non trovò qualcosa. «Fiammiferi.»
«La nostra principessa è piena di risorse.»
Lei lo zittì con uno sguardo e ne accese uno, avvicinandolo poi alla sigaretta.
«E se dopo tutto questo tempo fosse avvelenata o qualcosa del genere?» chiese Bellamy.
«Lo scopriremo presto» rispose lei, accostando il fiammifero al tabacco.
Nulla.
«Lascia fare a me» Bellamy se ne impossessò nuovamente, avvicinandosela alla bocca. «Accendi un altro fiammifero e passamelo.»
Clarke fece come lui le aveva detto. Bellamy iniziò ad aspirare mentre tentava di dar fuoco all’estremità della sigaretta inumidita dal tempo. Continuò finché non sentì come una nuvola di fumo inondargli la gola e scendere giù, verso i polmoni. Iniziò a tossire.
«Ha funzionato! Dalla a me.»
«Sta…attenta…» Bellamy cercava di riprendere fiato.
«Dovresti vedere la tua faccia» lo prese in giro Clarke, per poi ripetere ciò che lui aveva fatto.
Stesso effetto.
Continuarono a passarsela finché questa non finì. Poi ne accesero un’altra. E un’altra ancora. Ad ogni sigaretta fumata il bruciore alla gola diminuiva diventando quasi piacevole. A Bellamy girava un poco la testa, ma non l’avrebbe mai ammesso. Osservava Clarke, stesa al suo fianco e con lo sguardo rivolto al soffitto, e sorrideva. Anche lei sorrideva.
«Chissà cosa direbbe tua madre se ti vedesse.»
«Passamene un’altra, così non rischiamo.»

Bellamy si era addormentato e russava piano. Clarke masticava un pezzo di carne essiccata e aspettava che la tormenta passasse con una sigaretta accesa tra le dita. Le piaceva l’idea di stare facendo qualcosa di sbagliato. Qualcosa che sua madre avrebbe disapprovato, qualcosa che sarebbe stato considerato pericoloso. E non stava pensando solamente al fumo, ma anche alla missione che aveva intrapreso con Bellamy.
Era contenta di non essere sola, dopotutto. O forse era contenta di essere proprio con lui.
Se ne rese conto solo in quel momento. Che Bellamy le era sempre stato vicino. Non ci aveva mai pensato prima, non ci aveva mai fatto caso, eppure era così. Se ne accorgeva forse un po’ troppo tardi. Se ne accorgeva dopo averlo trascinato in un’impresa folle che non sarebbe mai finita nel modo che entrambi speravano. Se ne accorgeva solo ora che Finn era morto.
E si sentiva in colpa per questo.
Anche Bellamy aveva sofferto, solo che non aveva mai estraniato questi sui sentimenti di perdita, di dolore, di smarrimento. Esattamente come lei. Clarke capì fino in fondo quanto in realtà loro due fossero simili e questo pensiero non fece altro che aumentare la consapevolezza che Bellamy era lì. Lì con lei, in quel bunker. Che lui, nonostante tutto, c’era ancora.
Aveva ucciso Finn tre giorni prima e ancora non aveva nominato il suo nome. Figuriamoci parlare di ciò che era successo. Clarke sentiva che nessuno meritava davvero di sapere cosa le passasse per la testa.
Nessuno tranne il ragazzo che ora giaceva addormentato al suo fianco.
«Bellamy…» lo scosse dolcemente.
Lui esalò un respiro profondo per poi tornare a russare.
«Bellamy.»
Bellamy aprì gli occhi di scatto e la sua mano raggiunse la pistola che teneva sempre al suo fianco. Il suo sguardo incrociò quello di Clarke, per nulla allarmato. Si calmò.
«Sono già venuti ad ucciderci?» chiese, ironico, con voce impastata dal sonno.
«No.»
«Okay…» continuava a guardarla negli occhi. Clarke sapeva che stava cercando di capire cosa ci fosse che non andava.
«Volevo chiederti scusa per prima. Per averti trattato in quel mondo quando hai nominato Finn.»
«Non…non è così grave, Clarke.»
«Sì che lo è. Credevo di essere l’unica che meritasse di parlare di lui. O di stare male per la sua morte. Mi sbagliavo. Tutti soffriamo, tutti gli volevamo bene. Non solo io.»
Bellamy si mise a sedere e si passò una mano tra i capelli.
«Il tuo sentimento è giustificato. Tu, assieme a Raven, eri quella che lo conosceva meglio.»
«E che l’ha ucciso.»
«E che l’ha ucciso» ripeté lui.

Bellamy non sapeva cosa fare. Da una parte, ciò che vedeva negli occhi di Clarke lo spaventava. Dall’altra, voleva abbracciarla. Essere capace di consolarla.
Ma non ne sarebbe stato in grado.
«L’ho ucciso. L’ho ucciso. L’ho ucciso» sussurrava lei. Sembrava una cantilena.
Bellamy le prese i polsi e li imprigionò nelle sue mani. «Clarke, hai fatto la scelta migliore. Nessun’altro ne sarebbe stato capace perché nessuno prova per Finn quello che provi tu.»
«Provavo.»
«Sì, provavi. Hai preferito ucciderlo tu piuttosto che lasciare che venisse torturato. Hai preferito macchiarti del suo sangue piuttosto che farlo soffrire ancora di più. Sei…sei stata coraggiosa.»
«Non era coraggio. L’ho fatto perché non sarei riuscita a sopportare di vederlo morire in quel modo.»
«Non è andata così e lo sai anche tu, Clarke. Volevi risparmiare ulteriore dolore a lui e a noi. A me, a Raven, a Octavia. Nessun’altro l’avrebbe fatto. Nessun’altro sarebbe stato così altruista. E lo sai. Clarke, lo sai meglio di me» Bellamy fece una pausa allentando la presa sui polsi della ragazza. «Guardami, Clarke. Guardami. Lo vedi che non sto mentendo.»
La verità nei suoi occhi era l’unica cosa capace di convincerla.
Bellamy lo sapeva.
E sentiva che anche Clarke se ne stava convincendo.

Bellamy non mentiva, Clarke lo sapeva.
Continuava a pensare a Finn. Al suo “grazie” poco prima di morire. L’aveva ringraziata e doveva esserci un motivo, una ragione. Forse Finn voleva morire per mano sua. Voleva morire in modo dignitoso senza essere torturato di fronte a tutti, di fronte alle persone che lo amavano. Forse lui e Bellamy erano gli unici capaci di comprenderlo. Ed era questo il motivo per il quale Finn aveva detto quel “grazie”. Era questo il motivo per il quale Bellamy la stava ancora guardando negli occhi e la teneva ancora stretta.
Clarke si liberò della presa e lo abbracciò.
Non fu come l’abbraccio che si scambiarono dopo che lei era scappata da Mount Weather. Fu diverso, più disperato, più triste, più intenso.
Questa volta, Clarke lo sentì, Bellamy non esitò neanche un secondo a ricambiarlo.

Clarke non piangeva.
Questo non significava che non fosse sul punto di crollare, Bellamy ne era consapevole, ma in qualche modo questo fatto lo rincuorò. Era sempre la stessa Clarke. I suoi capelli puzzavano di fumo, ma era sempre la stessa Clarke.
Dopo qualche minuto, o forse qualche ora, lei si addormentò tra le sue braccia. Gli ricordò Octavia, appena nata, che già si fidava di lui. Anche Clarke si fidava di lui.
Un sorriso gli spuntò sulle labbra mentre chiudeva gli occhi.
  
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