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Autore: lady igraine    28/12/2014    3 recensioni
Le Terre di Confine, dopo la Caduta del Regno di Neanna, da duecento anni sono governate dal Conclave, una misteriosa congrega di Maghi che stringe nelle proprie mani il destino dei Regni indipendenti.
Ma quando un incubo antico, quello che ormai è solo un racconto per spaventare i bambini, riemerge dall’oscurità, ogni equilibrio è destinato a spezzarsi.
E Sianna, cresciuta nella sicurezza della sua valle isolata, protetta da presenze rassicuranti che la seguono fin dall’infanzia, è l’inizio di quella crepa che incrinerà il suo mondo, e ne ignora la ragione.
Eppure è lei che La Morte sta cercando e, per sopravvivere, Sianna deve presto fare i conti con un passato più complesso di quanto possa anche solo immaginare.
***
«Te l’ho già detto. Le tue linee non sono complete. Non so come spiegarlo… ma il tuo è un futuro che non posso vedere. È come se l’altra metà del tuo destino non fosse incisa sulla tua mano ma da qualche altra parte, come se appartenesse a qualcun altro»
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

 

PROLOGO

 

Nevicava.
Nevicava sempre.
Ci era cresciuta in quella città ammantata di ghiaccio che non conosceva altro che coltri bianche e gelo perenne. Aveva mosso i suoi primi passi nelle neve, aveva colto la prima rosa, orlata di cristallo e tanto bella che quasi aveva pianto, negli immensi giardini del palazzo. Aveva tenuto la mano alla sua bellissima sorellina dalla chioma argentata mentre a sua volta imparava a camminare, con loro padre che le studiava da lontano, le braccia conserte e un sorriso lieve. L’aveva sostenuta, l’aveva abbracciata nelle notti gelide, perché al contrario di lei la piccola il freddo lo sentiva e tremava come una foglia.
Le era sempre stata accanto, aveva impedito che conoscesse la solitudine che il gelo del loro mondo aveva gettato su di lei.
Ricordava come qualcosa le si era sciolto dentro quando aveva stretto la mano della piccola, quando sua sorella le aveva sorriso per la prima volta. Era stato il giorno in cui aveva capito che non sarebbe stata più sola. Il giorno in cui aveva smesso di sentirsi sola.
Paragonato alla durata della loro vita tutto questo era accaduto solo ieri, ma per lei quei pochi attimi si erano verificati un’eternità prima.
Ora la neve si stava trasformando in una tormenta mentre ripercorreva gli stessi scalini che aveva salito correndo nella sua infanzia.
Il tempio sorgeva sulla cima di un’altura tagliata da un’infinita ripida scalinata scolpita nel ghiaccio e consumata dai secoli. A volte gettava uno sguardo sulla città sottostante, schiacciata dall’imponente presenza di quel luogo sacro e da ciò che esso rappresentava.
Una follia a cui avrebbe messo fine.
O forse era lei, a star commettendo una follia?
La folla, le urla, il fumo.
Sentiva gli assordanti rumori della morte provenire da lontano, ma le fiamme crepitanti che già si levavano, fomentante dal vento gelido che spargeva scintille, e il fumo acre che rendeva l’aria pestilenziale nascondevano ai suoi occhi la danza macabra che si stava compiendo grazie a lei.
I suoi Alfar si erano introdotti attraverso le ciclopiche mura di Neanna durante la notte, col favore delle tenebre, e avevano iniziato a razziare e uccidere senza pietà gli abitanti molto prima che l’allarme venisse dato. Le campane della Cattedrale dei Peccatori suonavano incessanti come monito alla strenua difesa, ma era troppo tardi, il nemico era dentro le mura, lei stessa ve lo aveva condotto. Era la prima volta nella Storia che il suolo sacro di Neanna veniva profanato, la prima volta che le infallibili mura di ghiaccio venivano varcate da entità prive del sangue dell’Eletta Stirpe.
Tornò a guardare davanti a sé, allontanando i rimpianti.
Un portico circolare privo di archi si apriva davanti a lei, sostenuto da colonne larghe dieci piedi, scolpite nel più limpido cristallo con capitelli decorati di amaranto e agrifoglio.
Amaranto e agrifoglio ovunque.
Eternità, immortalità, spirito combattivo, fedeltà alla propria causa, speranza.
Quanti significati per dei piccoli, insignificanti fiori.
«Nostra signora?»
La voce secca del Dokkalfar la risvegliò. Aveva portato con sé quaranta Alfar e ora rimpiangeva di non aver preso delle maggiori contromisure. Non aveva idea di quanti membri della setta la aspettassero al di là del portone e non era certa che i suoi soldati sarebbero bastati.
Stava esitando, loro lo sentivano.
«Andiamo, ormai sapranno di noi»
Attraversare il piazzale era come camminare su un lago ghiacciato, molto più sicuro certo, ma sotto lo strato solido della superficie sembrava davvero che vi fosse dell’acqua.
Percorse la strettoia costeggiata da colonne fino alla facciata del tempio: dietro al peristilio l’immenso portone era spalancato verso l’interno e lasciava uscire l’aroma dell’incenso.
«Mostyn», chiamò piano, in un sussurro appena accennato.
L’Alfar le fu subito accanto, dritto come un fuso e pallido come la morte. Aveva occhi verdi, di un verde tanto tiepido da risultare quasi trasparente, e la bocca bluastra era contratta quanto le sue sopracciglia bianche. Un fantasma, ecco cos’era il suo generale, uno spirito sottratto al sottosuolo.
«Dieci di voi entrino per primi e controllino la situazione»
«Come desiderate, Signora»
Attese in silenzio, la mano contratta intorno al bastone a doppia lama legato alla schiena, pronta a sganciarlo al minimo segnale di pericolo e si rilassò solamente quando un Dokkalfar le fece cenno di entrare.
L’immensa sala era vuota e silenziosa, le tre navate prive di qualunque ornamento erano opache senza il sole che baluginava sulle pareti creando giochi di luce. Sembrava quasi abbandonato, non fosse stato per l’incenso, un odore che lei odiava e di cui il tempio era sempre stato impregnato.
Prendeva alla gola, così dolciastro da dare la nausea.
Lasciò vagare i suoi occhi cerulei sulle superfici delle arcate e dei colonnati intarsiati d’oro e d’avorio, si soffermò sulle fredde spoglie pareti fino all’altare: vuoto.
Non si aspettava veramente di trovare l’Artefatto al suo posto, eppure non le riuscì di non provare delusione. Sarebbe stato tutto più facile, se non avesse dovuto incontrare lei.
Non era cambiato nulla, ogni cosa era esattamente come i suoi ricordi le avevano raccontato, quel luogo era sospeso eternamente fra le pieghe di un tempo immortale che le causava disgusto. Non c’era spazio per il cambiamento, ma lei lo avrebbe portato con il ferro e con il fuoco, fosse stato necessario.
I Dokkalfar stavano perlustrando ogni anfratto senza successo.
Dove era il Capus Caelum? Perché non la stava aspettando proprio lì, davanti a quell’altare che aveva giurato di difendere, con una spada sguainata?
Era probabilmente l’ultima occasione che avevano di rivedersi… il Capus Caelum non poteva tradirla anche nell’ultimo momento.
Cercò di rimanere presente a se stessa, di non farsi prendere dai ricordi e soprattutto non dalla tenerezza, quella che aveva sempre provato per lei. Non c’era spazio per gli errori ora che il tempo era giunto e non aveva intenzione di rinunciare.
Sospirò e, in mezzo alla navata centrale, aspettò studiando cauta l’ambiente, in attesa di un suono che non avrebbe tardato ad arrivare, perché almeno questa volta era certa che il Capus Caelum non l’avrebbe delusa.
Non si scompose quando il rumore di numerosi passi sul ghiaccio riecheggiò nelle arcate, ma non riuscì a impedire ai suoi muscoli d’irrigidirsi e alla sua mano di correre agile al bastone sulla sua schiena, con un movimento preciso e spontaneo.
Serrò la mascella e trattenne il fiato. Dentro di sé combattevano il desiderio dello scontro e una reminescenza di quella che poteva chiamare coscienza. Era stato l’odio a portarla a quel preciso istante, ed il rancore che non era riuscita a soffocare. Ed ora, ad essi, si affiancava la paura dell’inevitabile. Tutto franava sotto i suoi piedi e non c’era alcun modo di tornare indietro, perciò s’impose d’ignorare con fermezza la voce che da dentro le ricordava tutto l’affetto e l’amore che un tempo l’avevano legata alla bimba argentata.
Stimò una ventina di Fulakas, i Custodi del tempio, che andavano loro incontro. Molti più di quanto si aspettasse.
Gli Alfar si radunarono trepidanti alle sue spalle, in attesa di un suo segnale per agire, le armi già sguainate.
«State pronti, stanno arrivando», mormorò sempre a fil di voce.
Alcuni fra i Dokkalfar annuirono impercettibilmente, ma la loro inquietudine appestava l’aria più dell’incenso, e per un essere dotato di una forte empatia come lei tutto quel nervosismo rendeva più difficile la concentrazione. Avevano paura di scontrarsi con i Custodi della Pietra ed erano consci del fatto che ben pochi di loro sarebbero arrivati alla fine della giornata.
Solo da Mostyn, il viso affilato imperlato di sudore, i capelli bianchi spettinati celati malamente da un elmo che poco concedeva alla protezione, non trasudava alcun turbamento. Restava fiero e immobile accanto a lei, con la pacata calma di un essere millenario che di vite ne aveva viste e vissute migliaia e che con il suo vuoto sguardo reclamava la stessa vendetta che l’aveva spinta lì a sua volta.
Da un’entrata secondaria ad arco, non distante dall’altare, comparvero i primi Fulakas, le spade alla mano, i mantelli ondeggianti alle loro spalle. Dalle grandi finestre trifore lungo le pareti entrò una debole luce morente che lasciò strani riverberi luminosi sulle armature smaltate d’argento.
Al centro, sul petto, ogni guardiano recava incisa la Pietra, raffigurata su una croce dai bracci uguali, conici, rivolti all’esterno con i bordi svasati: il simbolo di Neanna, della Casata Reale, di tutto ciò che il suo popolo rappresentava.
Il simbolo dei Guardiani della Pietra Elementare.
Il corpetto proteggeva i custodi fino alla vita, da cui scendeva una gonna di anelli metallici che sfiorava la metà coscia. Da sotto di essa spuntavano alti stivali in cuoio e ginocchiere d’acciaio che fasciavano poi la gamba.
Era facile riconosce i novizi della setta dagli anziani: indossavano tutti la stessa tenuta, ma una gonna di seta azzurra aperta sul davanti faceva capolino da sotto gli anelli metallici e dalla lunghezza di questa dipendeva il grado all’interno dell’Ordine.
La prima fila, che si fermò a una decina di passi da lei e dai suoi Alfar, era composta da novizie con i capelli raccolti in due alte code. Bambine che si erano convinte di essere guerriere, che le facevano montare solo la nausea ed un profondo disprezzo.
Erano attesi, non si era sbagliata. Era convinta che questa volta sua sorella non l’avrebbe delusa.
Il cuore accelerò il suo battito quando gli angeli davanti a lei si aprirono metodicamente, come fossero ad una parata, a ventaglio, per permettere al Capus Caelum di passare fra loro, protetta.
La voce chiara, vagamente malinconica nelle sfumature, del Fulakas si levò contro di lei:
«Speravo, sorella, che questo giorno non si presentasse mai, ma alla fine ha vinto la tua ambizione»
La dama che si era fatta avanti era ben diversa dalle altre che la difendevano. La sua bellezza ricordava il delicato candore argentato della luna, così come la sua apparente fragilità, che la faceva sembrare più debole e più adulta degli angeli che la circondavano sebbene in realtà fosse infinitamente più giovane.  
Quella dama era sua sorella e si presentava a lei senza protezione alcuna. Nessuna armatura, nessuna arma, solo la sua disarmante bellezza, il suo volto delicato nascosto dalla maschera nera sacerdotale, che lasciava intravvedere unicamente gli occhi dal taglio sicuro, del suo stesso limpido azzurro cielo. Indossava gli abiti della Somma Vestale, impalpabili veli candidi che la rendevano diafana e leggera, un mantello bianco l’avvolgeva e nell’insieme pareva veramente un simulacro che avrebbe potuto facilmente dissolversi con un soffio di vento. I suoi capelli, puro argento liquido, erano sostenuti in due alte code da un diadema di pietre dure, e arrivavano fin quasi a sfiorare il suolo, scivolando sulle morbide ali bianche che le bucavano la schiena.
Era sempre stata bellissima, la sua sorellina, e troppo fragile per quel loro mondo di violenza. Eppure ora non esitava a sfidarla, con i suoi occhi duri, a giudicarla, per quella sua scelta così difficile e sofferta.
«Capus Caelum» sibilò «Dammi la Pietra, non voglio altro. Vi lascerò andare. Voglio solo la Pietra… e voglio Lei»
Lo disse con la consapevolezza di non essere creduta. Sua sorella lo sapeva, che voleva vendetta, che avrebbe preteso del sangue. Il suo sangue e quello della bambina.
Ed infatti il Capus Caelum la fissò fermamente prima di rilasciare un sorriso scettico.
«Non ti basterebbero. Vuoi di più… Vuoi punirmi. Noi siamo Custodi della Pietra da tempo immemore, solo se saremo morti potrai privarci di essa. Solo se saremo morti potrai fare del male anche a Lei» una supplica balenò nel suo sguardo «Sei ancora in tempo per fermare tutto questo, stai per fare un grande errore. Riflettici, ti prego!»
Se aveva nutrito dubbi le parole della Fulakas li uccisero definitivamente. Era esattamente quello lo sguardo che aveva odiato con tutta se stessa, e ancora di più detestava la supplica, tutte le sue menzogne a cui aveva creduto con cieca fedeltà.
Sputò ai piedi del Capus Caelum di fronte a lei e borbottò a denti stretti:
«Da quanto tempo sapevi che sarebbe finita così? Hai sempre mentito. Mi fai schifo… hai avuto la tua possibilità per uccidermi e non l’hai fatto, ora pagherai le conseguenze»
Sua sorella tenne gli occhi bassi, esitante, a fissare il pavimento combattuta. Una parte di lei desiderò davvero di perdonarla, di rivedere nel volto nascosto dalla maschera quello della bambina a cui aveva stretto la mano per anni quando aveva gli incubi, ma poi il Capus Caelum alzò il capo con orgoglio e la osservò con malcelato disgusto.
«Lo sapevo da tempo, ma speravo che tu avresti combattuto e ti saresti affidata alla parte migliore di te. Mi sbagliavo, in te c’è solo marcio. Rinuncia, non avrai quello che cerchi»
Erano due estranee ora, restava solo il sangue da reclamare per porre fine a tutto. La sfida diretta ruppe gli argini della sua collera.
 «Hai commesso un errore»
Un solo cenno e i Dokkalfar si scagliarono contro i Fulakas che, in allerta, si richiusero subito sul Capus Caelum per proteggerla e ingaggiarono battaglia.
Fu un attimo, e gli uni furono addosso agli altri.
Si ritrovò in mezzo al conflitto, persa in un momento di confusione, circondata dal rumore delle spade che cozzavano fra loro. L’odore del sangue subentrò intenso, sbloccando la sua immobilità, e subito cercò il Capus Caelum in quel mare di figure che si massacravano. I suoni si allontanarono da lei, divenendo ovattati, la sua mente si concentrò solo sulla ricerca di un varco per raggiungere sua sorella.
Sganciò il bastone, lo fece roteare in aria e lo calò con forza contro un Fulakas che le stava correndo incontro con la spada sollevata e un urlo di rabbia a sfigurarle il volto. La lama sbatté violentemente contro il legno e quasi la sbilanciò, ma continuando a far ruotare il bastone s’inginocchiò e con il filo della sua arma trapassò il cuoio e recise nettamente i tendini della gamba destra del Fulakas che con un gemito ruzzolò a terra, incapace di reggersi. Senza guardarla in viso con un ultimo gesto secco le troncò la testa.
Il corpo del Fulakas cadde definitivamente coprendo il sangue che a fiotti sgorgava dalla ferita spargendosi sul pavimento e sporcava le ali candide della Guardiana di denso argento. La testa rotolò poco lontano impedendogli di vedere l’ultima, attonita espressione della sua prima vittima.
Mai aveva ucciso un angelo. Non era stata lei ad aprirsi la strada fino al tempio con il suo bastone, ma gli Alfar ad aver combattuto per lei.
La prese una strana sensazione, la comprensione dell’inevitabilità. Non poteva non accadere, ed ora che era successo per una volta riuscì ad avere anche da sola un’idea, seppur vaga, di cosa l’attendesse in un futuro prossimo.
Si gettò una rapida occhiata attorno e si rese conto che, come aveva immaginato, nonostante i suoi Dokkalfar possedessero un evidente vantaggio numerico rischiavano di essere sopraffatti.
C’era anche la remota possibilità che le sue truppe fossero sconfitte da un simile nemico.
Doveva trovare sua sorella prima che ciò accadesse.
Spintonando si fece largo nella guerriglia senza fermarsi direttamente in un corpo a corpo, attenta solo a difendersi e a schivare i colpi, volontari o meno, mentre i Dokkalfar le coprivano le spalle perché passasse indenne. La riuscita di tutto dipendeva solo dal Capus Caelum.
Una lama la ferì di striscio all’ala e una fitta di dolore la colpi prepotentemente. Dovette stringere i denti per non lasciarsi sfuggire nemmeno un lamento. Si volse invece a fronteggiare il Fulakas che aveva osato colpirla. La gonna di seta azzurra era lunga fino al suolo, era un guardiano di livello superiore.
Provocò la custode con un sorrise di scherno:
«Se desideri la morte non hai che da chiedere, ti sarà data» sibilò derisoria.
«Non sei tu la Morte!» urlò il Fulakas tentando una stoccata. Fu più rapida della guardiana, schivò il colpo e con un fluido movimento del bastone la colpì con tanta forza all’articolazione del gomito che all’avversario la spada sfuggì di mano. Con slancio colpì il Fulakas in volto con una gomitata che la fece cadere a terra per il contraccolpo.
Solo in quel momento, torreggiante sul nemico, si rese conto che anche la sua stessa ala stava sanguinando.
La sua ala, il simbolo dello splendore della sua divinità che la rendeva superiore ad ogni altro angelo.
Il suo sangue reale, più puro di quello di qualunque angelo, anche con la traccia di rosso che ne sporcava il luminoso argento.
Il suo sangue versato da un’inetta, da un angelo inferiore.
La collera le scivolò nelle vene come fuoco liquido. Senza pietà affondò la lama del bastone all’altezza della spalla dell’ala del Fulakas, nel punto più sensibile, per quelli della sua stirpe, dove i nervi si concentravano. Le atroci urla di dolore furono la conferma che aveva colpito bene.
Un sorriso di scherno le solcò il bel volto mentre guardava la Guardiana contorcersi in modo grottesco gridando la sua sofferenza. Si chinò appena su di lei, per incrociare gli occhi spiritati del Fulakas:
«Come hai detto, io non sono la Morte. Non sarò io a liberarti dalla sofferenza»
Si volse abbandonandola ai suoi tormenti per cercare nuovamente il Capus Caelum. I Dokkalfar l’avevano circondata per proteggerla e si frapponevano fra lei e gli altri Guardiani, permettendole di scrutare ogni singolo volto.
Alla fine la vide.
Vicino all’ingresso dalla quale aveva fatto la sua comparsa, sua sorella a sua volta frugava ogni volto nella mischia di spade e sudore alla ricerca di lei. Quando finalmente riuscì a trovarla, il Capus Caelum le sorrise, poi imboccò l’arco sparendo alla sua vista.
Stava fuggendo.
Dopo il primo smarrimento iniziale per quel comportamento anomalo partì all’inseguimento, aprendosi un varco con una spallata. Nessuno tentò di fermarla e riuscì a scivolare indenne fuori dalla massa di corpi.
Affrancò il bastone al gancio sulla sua schiena, fra l’attaccatura delle ali, e abbandonò i Dokkalfar al loro destino: c’era Mostyn con loro, dovevano farselo bastare.
Oltrepassò a sua volta la porta ad arco che conduceva all’ala del tempio riservata ai Custodi e si ritrovò in un vasto corridoio. I suoni striduli del metallo contro il metallo lì giungevano distanti, attenuati dalle immense pareti di ghiaccio. Da un lato si apriva una scalinata ripida, dall’altro due file di stalagmiti e stalattiti, che partendo dal soffitto e dall’umido terreno s’incontravano formando colonne di ghiaccio, creavano una strada che conduceva ad una porta discreta.
Si guardò attorno e individuò il Capus Caelum sulla sommità della scala da dove la studiava con serietà.
Appena l’ebbe ritrovata quella riprese a correre scomparendo nuovamente dalla sua visuale. Provava la sensazione di essere beffata dalla sorellina e questo incrementava solo la sua rabbia. Senza il minimo sforzo percorse correndo i gradini scivolosi di ghiaccio per ritrovarsi su un pianerottolo che dava su tre corridoi. Un labirinto nel quale si sarebbe senz’altro smarrita non fosse stato che il Capus Caelum sembrava voler essere trovata e aspettava solo di essere vista prima di riprendere la sua fuga.
Forse stava andando incontro ad una trappola e visto con chi aveva a che fare era un’ipotesi da non escludere. Sua sorella non era una sciocca e aveva avuto molto tempo, più di chiunque altro, per prepararsi alla sua rivolta. Quando il Capus Caelum s’infilò in una stanza, chiudendosi alle spalle l’immensa porta di ferro battuto con un tonfo sordo, sentì finalmente di averla in pugno e un sorriso soddisfatto scivolò sulle sue labbra corallo.
Era in trappola.
Appoggiò la mano aperta sulla superficie in apparenza liscia, saggiandone la consistenza. Non poteva sentire il freddo o il caldo, non provava sensazioni di alcuna sorta nell’avere, sotto i suoi polpastrelli, una superficie ruvida o levigata. I suoi sensi non erano sviluppati alla maniera umana, solo sua sorella riusciva ad avere sensazioni tattili di quel genere. Eppure si soffermò lo stesso concentrandosi sul materiale irregolare, antico e mangiato dal gelo, scavato da tante piccole rientranze invisibili da lontano.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro: non era certa di cosa avrebbe trovato dall’altro lato, era evidente che il Capus Caelum l’aveva condotta lì con un preciso scopo; ma ormai era giunta fin su quella soglia, non poteva più tirarsi indietro.
L’aria immota intorno a lei, pesante come ogni cosa in quell’ambiente solenne e antico, iniziò a vibrare, increspandosi come la superficie di un lago. Spalancò gli occhi azzurri e diede maggior pressione sul ferro con la mano aperta. In risposta, come un’onda che si abbatte sugli scogli, l’aria si trasformò in un rapido, impetuoso vento che si accumulò e s’infranse sulla pesante porta con tale impeto da sfondarla. Le ante si aprirono all’interno con tale violenza da andare a cozzare contro le pareti di ghiaccio causando un fortissimo frastuono e una scossa che riverberò sul pavimento.
Finalmente la vide.
Il Capus Caelum era immobile in mezzo alla stanza, le braccia inerti lungo il corpo e l’espressione dura e vuota. Aveva il gelo dell’inverno in quel suo sguardo, occhi difficili da sostenere.
Si era rifugiata nelle sue stanze spoglie: alle sue spalle, accanto alle ampie  finestre da cui entrava il gelo della tormenta e fiocchi di neve che avevano già rivestito il davanzale e parte del pavimento, c’era un letto basso con il baldacchino di organza leggera che danzava al minimo soffio di vento. Era una camera semplice, con una parete rivestita da un lungo armadio le cui ante erano composte da una lastra di cristallo sovrapposta allo stagno, in modo tale da poter riflettere l’ambiente circostante; dall’altro lato un ironico quanto inutile camino scolpito nel ghiaccio, dove una fiamma dalle sfumature azzurre danzava flemmatica, e un catino ricolmo d’acqua calda da cui esalava vapore.
Un ambiente troppo freddo per sua sorella di cui l’unico tocco si coglieva dai gigli bianchi e dalle rose rosse intrecciate alle colonnine del letto.
L’immagine stoica del Capus Caelum in attesa del suo destino le strappò un altro sorriso, non privo di amarezza. Nessuno conosceva il proprio destino come sua sorella ma comunque le restava inspiegata la di lei sicurezza. Nonostante tutto, anche in quel frangente continuava ad ammirarla, quella bimba dai capelli d’argento.
Si avvicinò cautamente ma l’altra non batté ciglio e non mutò espressione.
«Sono stanca di giocare a nascondino, non siamo più bambine. Voglio Sjalens, non voglio farti del male», disse piano, quasi con dolcezza.
«Non puoi odiarla davvero così tanto… è solo una bambina»
La rabbia la pervase di nuovo, dettata stavolta dall’impotenza.
«E tu non puoi amarla tanto da voler morire per lei! Non vedi come ti ha ridotto?»
Fragile, ecco come la vedeva.
Malata.
Eppure loro non avrebbero dovuto potersi ammalare.
Magra, pallida, delicata.
Era sempre stata un uccellino, fin da piccola, troppo diversa. Così diversa che a volte dubitava potessero avere davvero lo stesso sangue argentato.
Il Capus Caelum sorrise: «Non fingere, ti prego. Non cercare d’ingannarmi, non ora che siamo solo noi. Tu vuoi la Pietra, non dare a Sjalens le responsabilità dei miei sbagli. Odia me»
Rapida sganciò di nuovo il bastone e puntò la lama alla gola della sorella.
«Non ho mai detto di non odiarti» sibilò a denti stretti, a meno di una spanna dal suo volto. «Sei una bugiarda ammaliatrice che sa vendere solo inganni. Hai ragione, voglio la Pietra, e voglio sventrare quella bambina con le mie mani. Dove sono?»
Il Capus Caelum non aveva battuto ciglio e sosteneva il suo sguardo senza alcuna esitazione nonostante la lama le stesse già incidendo la candida pelle del collo.
Fu solo un attimo.
Un brivido le percorse la schiena e si allontanò dalla Custode, turbata. Era stata una sensazione, come se qualcuno le avesse strappato qualcosa all’improvviso, qualcosa d’impercettibile eppure di dannatamente importante. Uno strato di lieve sudore le imperlò la fronte.
«Cosa è stato?» mormorò.
Il battito del cuore di sua sorella era aumentato come il suo, anche il Capus Caelum sembrava in quello stesso stato di strana sofferenza che provava lei stessa. Eppure la Custode le sorrise soddisfatta da dietro la maschera nera.
«Lo sai, cos’è stato. È troppo tardi ora, ti avevo avvertita: non troverai nulla di ciò che cerchi. Hai fallito»
L’atteggiamento trionfante e colmo di disprezzo di lei la ferì nell’orgoglio.
La Pietra… ecco cos’era stato quel brivido.
Era come se la Pietra non fosse esistita più, come se fosse stata strappata dal loro mondo, portandosi via un frammento della loro anima.
Non poteva essere vero.
Le mani le tremarono per la rabbia e lei si affrancò al bastone con tutta la sua forza.
«Mi hai ingannata di nuovo», constatò a mezza voce. Faticava a parlare tant’era furiosa.
«Dimmi che cosa hai fatto»
Il Capus Caelum continuò imperterrito a sorriderle: «Non sono io ad ingannarti, ti inganni da sola»
Ferita, ignorò quelle parole e fece per uscire dalla camera lasciando sua sorella lì, ancora immobile come la aveva accolta. Poi però, colta da un impeto di furore, si volse di nuovo e trapassò il ventre del Capus Caelum da parte a parte. Il corpo di sua sorella si ripiegò sull’asta di legno e la fronte di lei si posò piano sulla sua spalla. Il sangue colò lento lungo il legno e le impiastricciò le mani con la sua densa consistenza.
Si sporse vicino all’orecchio di lei: «Non so cosa tu abbia fatto, ma non potrà essere nascosta da me in eterno. Io avrò quella Pietra, e quando l’avrò trovata non ci sarai più tu a proteggerla»
Con lentezza tolse la lama, mentre il Capus Caelum agonizzante, emetteva deboli gemiti sofferenti.
Incrociò i suoi occhi ancora una volta, l’ultima volta, e ne restò ancora turbata. Un velo di dispiacere offuscava gli occhi azzurri di quella che una volta era stata sua sorella, dispiacere per lei.
Lasciò la presa e il corpo della guardiana si accasciò con un ultimo gemito. Raggomitolata sul pavimento sopra una densa pozza di sangue sembrava una patetica bambola, con l’abito sporco di rosso e d’argento e le ali macchiate.
Se la lasciò alle spalle e tornò dai suoi Dokkalfar. Nella navata la battaglia si era conclusa ed il pavimento era ricoperto di cadaveri, l’azzurro delicato delle pareti imbrattato di sangue. I Fulakas erano stati sconfitti, ai pochi che ancora soffrivano veniva dato il colpo di grazia, e dopo tanto rumore ogni cosa venne permeata da un silenzio innaturale.
Solo dodici dei suoi erano sopravvissuti e non si stupì di riconoscere Mostyn fra questi. Silenziosa e felina lo raggiunse, persa nelle sue considerazioni. Anche se la Pietra era stata portata via non poteva averla condotta troppo lontano.
Fuori dalle finestre ad arco che fendevano le pareti laterali s’intravidero alcuni fiocchi di neve che mulinavano nell’aria, danzando pigramente. La tempesta di neve si era ormai consumata.
«Setacciate il tempio» disse infine, rivolgendosi a Mostyn «Se c’è ancora qualcuno di vivo uccidetelo. Cercate la Pietra»
Il Dokkalfar rimase immobile. «Dov’è la bambina?» chiese con voce insolitamente innocua, distante.
La frustrazione la fece fremere. «Deve essere qui… da qualche parte»
Le sue stesse parole le suonarono incerte.
L’aveva sentito. Poteva negarlo agli Alfar, anche a se stessa, ma aveva sentito lo strappo. Non c’erano più, né Sjalens né il Cuore del Mondo. Aveva vinto lei, eppure, ancora una volta, aveva vinto il Capus Caelum.
La neve della città si tinse d’argento, quella notte, ma inutilmente, poiché la Pietra non venne più ritrovata.


 

 

ANGOLO AUTRICE

Aaye Atan, caro lettore/lettrice! (Scusate, morivo dalla voglia di fare delle prove in elfico, giusto per vedere se tutto questo studio Tolkeniano online sta portando i suoi frutti!)
Non c'è  granchè da dire, a parte che mi piacerebbe davvero davvero tanto avere una vostra opinione, mi arrischio a pubblicare questa storia solo per questo quindi ,non dovesse avere recensioni, la ritirerò! Spero che vi piaccia! =)

A presto!

  
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