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Autore: ManuFury    29/12/2014    2 recensioni
E anche se abbiamo corso troppo non ci mancherà mai il fiato, corriamo verso il futuro e non scappiamo dal passato.
[...]
E quando il cielo grigio fa pandan con il tuo umore, solo se sarai felice ci sarà un giorno migliore.

***
Brevi squarci della mia vita... a cavallo tra il presente e il passato...
A mostravi il Serapion di ora e il Serapion di prima, quello che ero prima di commettere il peggior errore della mia vita...
1# "“Da quando non ti piace il the?” Sconcerto nel mio tono. Forse troppo se penso che certe inflessioni non le uso nemmeno di fronte ai miei superiori quando questi mi devono fare una ramanzina.
2# "Il bacio è l’etereo incontro di due anime che si sfiorano, prima di incontrarsi con i corpi." (Seconda Classificata al Contest: "Fattela 'Na Risata [60 Prompts]" indetto da slanif)
3# Perché voglio raccontare una favola finta tratta da una storia vera... (Terza Classificata al Contest: "I'm on a roller coaster thet only goes up" indetto da M4RT1)
Genere: Generale, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fratres in Armis'
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[Questa storia si è Classificata TERZA al Contest: “I’m on a roller coaster thet only goes up” indetto da M4RT1 (è per questo che all’interno della storia non compare mai la parola “mamma”, era un divieto del Contest)]

Prompt: 10 - Letto
Titolo: Tamma aveva una coperta
Autore: ManuFury
Fandom: Originali - Introspettivo
Personaggi: Serapion I. Petrov (POV) – Tamara K. Petrov (accenni a Illarion P. Petrov – a Klaudiya T. Petrov e a Kapiton A. Petrov)
Genere: Introspettivo – Triste – Parzialmente Fluff verso la fine
Rating: Giallo
Avvertimenti: Raccolta // Vengono trattate (ovviamente non nel dettaglio) delle malattie mentali
Lunghezza: 3’330 Parole / Quasi 5 Pagine 


 
TAMMA AVEVA UNA COPERTA
 
 
 
Mentre dorme, Tamma ha il viso così rilassato da parere quello del più sereno degli angeli: le rughe dovute all’età sono sparite tutte e un sorriso innocente da bambina le incurva le labbra.
È un sorriso contagioso, il suo, bello come me lo ricordavo da piccolo, tanto da spingermi a sorridere leggermente a mia volta, scostandole una ciocca di capelli castani dagli occhi chiusi. Mi ritraggo un attimo dopo, appoggiandomi allo schienale della sedia su cui ho preso posto, lasciandomi andare in un sospiro mentre sposto lo sguardo verso la finestra: le tende non sono state tirate, come al solito, e questo mi permette di spaziare con lo sguardo al cielo blu scuro, appena rischiarato in lontananza dal sole che non è ancora nato, ma che lo farà a breve.
È presto, troppo presto per le visite ai parenti, non per niente non dovrei essere qui, ma non ho potuto fare altrimenti: oggi ci sarà un’esercitazione importante, perfino rischiosa, ed io non potevo non rivederla.
Un mugugno esce dalla bocca della donna che dorme beata: arriccia le labbra in modo buffo e si volta leggermente, scoprendosi una spalla e parte del petto. Mi chino di nuovo su di lei, per rimboccarle le coperte come faceva lei un tempo: molto prima che tutto questo accadesse, prima che scavasse un fossato attorno al suo animo, troppo largo per portarlo saltare, troppo profondo perché possa essere colmato, a isolarsi per sempre dal mondo reale.
Forse dovrei svegliarla, è un pensiero che più volte mi ha sfiorato: se non mi vede, se non parlo con lei, questa visita sarà inutile come una bottiglia di vodka vuota, ma ammetto di non avere cuore di farlo; dorme troppo serenamente, è troppo tranquilla, così come non la vedevo da tempo e non voglio turbarla, inoltre non so che reazioni potrebbe avere alla mia vista. Potrebbe non riconoscermi e mettersi a urlare, rivelando a tutti la mia presenza abusiva e questo sarebbe un vero problema, perché Stepan non potrebbe proteggermi e, anzi, rischierei solo di causargli più guai di quanti non ne abbia già. [1]
Afferrando l’orlo delle lenzuola i miei occhi cadono su un dettaglio che prima non avevo notato: qualcosa è adagiato sul petto di Tamma, sembra una vecchia copertina di lana ormai scolorita, ma che lei si stringe avidamente al petto, a proteggerla come il più prezioso dei suoi tesori. Oltre al colore di fondo della coperta, ormai più grigio che azzurro, noto un disegno strano, serpeggiante e di un giallo spento che mi ricorda il piscio di prima mattina. Non ho bisogno di vederlo tutto per sapere di cosa si tratta.
Sento gli angoli della bocca alzarsi, le labbra incurvarsi in un sorriso che si rafforza sempre di più mano a mano che i ricordi riaffiorano.
 
*
 
La pioggia batte fortissima sulla finestra della mia cameretta e l’aria fredda entra da un piccolo buco sotto di essa, ma non è questo a spaventarmi. Mi terrorizza il rumore del vento: urla, sbraita, graffia contro il vetro come un’animale feroce che cerca di entrare per sbranarmi. Grida forte il vento, come papà quando è arrabbiato per qualcosa e il viso gli si arrossa tutto; ma so che non è papà, lui è in prigione, adesso, e quello oltre il vetro è un mostro.
Mi stringo la copertina tra le mani, stropicciando i bordi contro il petto per regolarizzare il respiro, ogni tanto la alzo per asciugarmi le lacrime di paura che mi scendono dagli occhi come tanti piccoli fiumi. Avevo promesso a papà che non avrei pianto in sua assenza, perché gli uomini di casa non piangono mai, ma non riesco a trattenermi.
Non ho il coraggio di guardare verso la finestra, perché ho paura di vedere il mostro lì appostato, che non aspetta altro che un attimo di distrazione per balzarmi addosso. So che è lì, lo sento graffiare contro il vetro e sbavarci sopra, mi ero sbagliato, non è la pioggia che bagna la finestra, ma è la sua orribile saliva.
All’ennesimo urlo del vento-mostro mi alzo di scatto, senza gridare però, i miei genitori lo fanno già abbastanza di loro senza che mi ci debba mettere anch’io, inoltre, so che a Tamma non piace: lei è sensibile ai rumori forti, la rendono strana e così lontana da essere irraggiungibile, alle volte.
Scendo dal letto e rabbrividisco, il pavimento è così gelido da farmi venire la pelle d’oca ovunque. Cerco la porta con gli occhi, la coperta ben stretta al corpo: è la mia armatura contro tutti i mostri che vorrebbero tentare di attaccarmi e non funziona solo con loro, ma anche con tutti i brutti pensieri che vogliono rendermi triste.
Attraverso la cameretta ed esco nel piccolo e spoglio corridoio, ma dove la moquette mi salva un po’ dal freddo e mi dirigo tremante verso la porta di fronte a quella della mia camera; quella della camera dei miei genitori.
Nel buio, vedo una figura addormentata in un letto sfatto, sommersa dalle lenzuola che da troppo tempo non vengono cambiate: odorano di sudore cattivo e sono macchiate in più punti, come il manto di un leopardo.
Tiro su con il naso e mi avvicino timidamente al grande letto, asciugandomi il viso con la mano libera. Adesso che mi sono fatto avanti sento qualcuno russare, fa quasi ridere perché mi pare un grosso orso addormentato e forse non dovrei disturbarla, ma ho troppa paura che il mostro venga a prendermi se resto ancora da solo, anche se ho la mia copertina a proteggermi.
La chiamo, ma lei non risponde.
Sono ai piedi del letto quando la chiamo ancora. Questa volta arriva un borbottare che mi ricorda un grosso pentolone d’acqua quando bolle e un po’ sorrido; un braccio cade da sotto le lenzuola e la mano sfiora il pavimento.
Scivolo lentamente lungo il fianco del letto e, vedendo una spalla spuntare dalle coperte, la sfioro, ripetendo il mio richiamo con un po’ più di voce. Chiamo Tamma, anche se dovrei chiamarla in un altro modo, ma questo nome se l’è inventato papà e mi piace, è più simile al suo ed è più bello da pronunciare. [2]
Lei si alza di scatto dal letto: il viso ancora assonnato, gli occhi verdi appannati come i vetri d’inverno quando fuori fa freddo e dentro caldo e i capelli castani che sembrano un grosso cespuglio di rovi.
“Illarion! – Chiama subito, vedo una sua mano scivolare nella metà vuota del letto, quella occupata di solito da papà, ma quella parte è troppo fredda perché la mano resi lì a lungo. Poi quegli occhi verdi mi vedono nella penombra e la sua espressione si fa dolce come sempre. – Sery. Tesoro, cosa succede?”
“C’è un mostro in camera mia.” Sussurro, abbassando gli occhi mentre lei accende la piccola luce del comodino al suo fianco.
“Che mostro?” S’informa, osservando l’orologio vecchio e tondo del nonno: mi piace tanto quell’orologio perché brilla sempre e non si porta al polso come tutti gli altri ma in tasca. Ne intravedo la faccia e noto che le lancette sono messe a L, con quella più piccola rivolta in basso.
“Il mostro che c’è fuori alla mia finestra. Grida e graffia e a me mi fa tanta paura.” Singhiozzo piano, stringendo ancora di più la mia copertina.
“Shhh. Sery, amore, non fare così, su. – Inizia lei con un bel sorriso, di quelli caldi che sembra che sia il sole stesso a sorriderti. – Sai che non c’è nessun mostro fuori dalla tua finestra. È solo il vento.”
“No! Il mostro esiste davvero! Ed è là! Vuole mangiarmi!” Una lacrima mi scivola da un occhio ed io la pulisco con rabbia, perché non mi vuole credere? Io le sto dicendo la verità, il mostro esiste davvero.
“Shhh. Shhhh.” Mi fa lei, posandomi un dito sulle labbra quando si sporge. Sorride ancora e si allunga verso di me, prendendomi in braccio e posandomi sul letto, accanto a lei. Recupera le coperte che ha calciato via e ci avvolge, come in un grande e morbido abbraccio.
“Esiste.” Ripeto.
Lei annuisce lentamente, passandomi una mano tra i capelli.
“Va bene, esiste. Scusa se non ti ho creduto, cucciolo, ero ancora mezza addormentata. – Ridacchia, posandomi un bacio sui capelli. – E com’è fatto?”
“Non l’ho viso bene. Ma è grosso e urla e graffia e sbava tantissimo perché ho la finestra tutta bagnata.” Sussurro, appoggiando il viso contro il suo petto, a sentire il battito del suo cuore: batte lentamente, con calma, mi fa capire che non ha paura del mostro come me, mi fa capire che dovrei essere un po’ più come lei.
“Proprio una brutta bestia, eh? Ma cosa facciamo quando qualcosa vuole farci del male?” Domanda, toccandomi la punta del naso.
Ci penso un momento, abbassando gli occhi concentrato, prima di sorridere leggermente e alzare la copertina gelosamente stretta al mio corpo che ora non trema più. Non così tanto, almeno.
“Lo facciamo andare via con questa.” E la esibisco come a farmi capire meglio, a mostrarle lo scudo che mi protegge dal male, sempre.
“Esatto, tesoro! E ti ricordi il perché?”
Annuisco con convinzione, liberandomi dal suo abbraccio e da quelle lenzuola puzzolenti per stendere la copertina sulle gambe: è vecchia, fatta di lana ruvida e azzurra, sopra c’è disegnato un sole, grande e giallo, un colore vivace e forte che sa scacciare via ogni cosa brutta.
“Perché il Sole mi protegge. È per questo che mi hai dato il suo nome.[3]
“Esatto, Sery, amore mio. Il sole ti protegge e proteggeva anche me quando ero piccola così.” Allunga una mano in avanti a mostrarmi quando era piccola.
Scoppio a ridere, dandole una leggera spinta.
“Ma nessuno è mai stato così piccolo!”
“Oh, io sì! Fidati: ero piccola, piccola, piccola!” Ridacchia, mostrandomi la lingua e punzecchiandomi un fianco a volermi fare il solletico. Sguscio via dalle sue braccia ridendo, scomparendo sotto le lenzuola fino a raggiungere la parte di letto occupata da papà, afferro con una mano il suo cuscino e con l’altra la mia copertina.
“Bugia! Bugia! Adesso ti punisco!”
Rido, sbucando da sotto le lenzuola e alzandomi in piedi, armato di cuscino e protetto dalla mia copertina. Lei ride sulle prime, ma poi i suoi occhi si spengono improvvisamente e lo sguardo si abbassa.
Mi blocco anch’io di colpo mentre la guardo, papà chiama questi momenti “attimi di distrazione”: dice che il cervello si spegne e lo sguardo si oscura; in quei momenti Tamma viene trascinata lontano da me e dalla realtà. Capita molto spesso quando lui non c’è a proteggerla e a farla sorridere.
Lascio cadere il cuscino e mi avvicino, abbracciandola con forza, ma non funziona.
Mi fa male sapere di non essere bravo come papà a consolarla, ma forse ho un’idea: dopo qualche attimo, mi decido a metterle sulle spalle la mia copertina, so che serve più a lei, che a me.
“Va tutto bene, Tamma. Ci sono io a proteggerti, non avere paura.” Sussurro pianissimo, perché so che anche i rumori forti la fanno stare male, per questo non grido mai.
Vedo i suoi occhi colorarsi un po’ di più, tornare presenti e il sorriso fare capolino dalle sue labbra.
“Oh, tesoro, che farei senza di te?” Chiede, posando le sue mani sulle mie.
“Non fai, punto e basta!” Ridacchio abbracciandola. So che papà uscirà presto dalla prigione dove è chiuso, ma prometto che fino ad allora ci sarò io a proteggere Tamma, io e la mia copertina col sole. Ci sarò io ad amarla forte come merita.
 
*
 
Respiro a pieni polmoni quest’aria malsana che sa di medicine e ospedale: l’odore pungente è così diverso eppure così uguale a quello che sentivo quando ero nel letto con lei, tra quelle lenzuola sudice, ripensando a quante notti ho dormito con lei per evitare che gli incubi la perseguitassero e gli occhi le si spegnessero.
Sospiro, rimboccandole le coperte e nascondendo alla mia vista quell’ammasso di lana che è passato da me ai miei fratellini, un sorriso amaro sulle labbra.
No, il sole non mi protegge, nemmeno avendo il suo nome.
Nessuno ormai mi protegge più.
Ed io non so proteggere più nessuno: né papà che è di nuovo in prigione, né Tamma che è rinchiusa qui da quando anch’io l’ho tradita, né Klaudiya e Kapiton che sono cresciuti in un istituto perché io li ho abbandonati.[4]
Inizio a domandarmi perché sono venuto fin qui a vegliare sul sonno di una donna che ormai è troppo distante da me e a farmi trascinare da pensieri che mi fanno solo male, perché mi ricordano quello che ormai ho perso: la normalità di una famiglia, tutte quelle piccole certezze che sanno far sorridere tutti.
Scuoto il capo e mi alzo dalla sedia. Ho sbagliato a venire qui e dire che me lo sentivo nelle viscere che stavo facendo una cazzata clamorosa, persino peggiore di quella di aizzare il più cattivo Mastino dell’Esercito e farmi spaccare un dente, solo per una scommessa che ho perso, tra l’altro.
Mi dirigo verso la finestra dalla quale solo arrivato di soppiatto poco prima: il cielo si sta schiarendo leggermente in lontananza, ma pennellate più scure ne intaccano la vivacità facendomi capire che è ancora molto presto, almeno sarò puntuale per l’esercitazione di oggi e sarebbe la prima volta.
Quando apro la finestra una brezza leggera e fresca mi accarezza il viso gentile come tante carezze e socchiudo gli occhi al tocco, permettendole di trascinare lontano i ricordi che mi affliggono.
“E tu chi sei?” Mi chiede una voce sconvolta alle mie spalle: è roca, come se fosse intessuta col vetro e mi pare spaventata. Voltandomi vedo i suoi occhi verdi sgranarsi come quelli di una bambina terrorizzata dall’uomo nero: è seduta nel letto, le lenzuola abbandonate in grembo, a coprirle il corpo magro solo quella copertina sgualcita che le era appartenuta quando era piccola e che fu mia e dei miei fratellini dopo di me.
“Sono io.” Le dico lentamente.
Io… chi?” Alza un sopraciglio mentre sulla fronte le si formano all’improvviso una miriade di rughe che sembrano un mare in burrasca.
“Serapion. Tuo figlio.” Rispondo paziente. La vedo scuotere la testa e abbassare gli occhi, stringendosi maggiormente la copertina tra le dita.
“No, no, no, no, no! Tu non sei Sery! Tu non sei mio figlio. Lui è in prigione. È con Illarion. In prigione. Lontano da me.” Farfuglia, con gli occhi che ballano per la stanza come se faticasse a riconoscere gli oggetti e la poca mobilia che la circonda, come se si trovasse in un paese straniero e cercasse di orientarsi.
Forse dovrei andarmene, ma non posso vederla in questo stato pietoso e per questo mi avvicino, sedendomi sulla stessa sedia che occupavo poco prima, a debita distanza da lei che comunque si ritrae un pochino.
“Sono io, Serapion. Non mi riconosci, Tamma?” Lei mi osserva, mi scruta, vaglia ogni centimetro del mio viso per cercare qualche tratto famigliare. Sulle prime non sembra trovarlo tant’è che si rabbuia, ma poi, incrociando i miei occhi, la vedo illuminarsi un po’, forse mi ha riconosciuto, forse ha sentito solo ora il nome con cui l’ho chiamata, nome che usavamo solo io e papà.
“Sery. Amore mio. Ma… ma che hai fatto ai capelli?” Domanda sporgendosi verso di me, ad accarezzarmi la testa rasata. Le regalo un sorriso tirato.
“Ho cambiato look!” Non che sia stata una mia scelta: con i capelli che avevo prima, in prigione, il mio bel culo sarebbe durato meno di un minuto, con questo taglio ho almeno fatto capire a tutti che ero davvero un maschio; non che sia servito, non del tutto, ma almeno mi sono conservato parzialmente integro.
Sorride anche lei e mi accarezza il viso, con la stessa delicatezza con cui me lo accarezzava il vento quando ho aperto la finestra.
“Tesoro, sei bellissimo, tanto bello, come il tuo papà…” Inizia solo per lasciare la frase a metà, con le labbra socchiuse come se dovesse parlare ancora, ma non lo fa, resta lì immobile: da piccolo lo chiamavo “attimo di distrazione” ora che sono grande lo chiamo “insight[5], una parola che non dice molto, ma racchiude in sé una malattia devastante, sviluppatasi quando papà è stato arrestato e chiuso in carcere la prima volta, dopo quello è iniziato il declino, peggiorato dall’arrivo improvviso di Klaudiya e Kapiton, due bambini urlanti e scatenati che non facevano altro che amplificare i suoi già numerosi problemi.
Cercando di farla tornare al presente le prendo la mano ferma sotto al mio mento e l’accarezzo, lentamente, con dolcezza. Vedo i suoi occhi tornare presenti a poco a poco e il sorriso incurvare di nuovo le sue labbra.
“Sery. Ma perché sei in piedi a quest’ora? Non dovresti, è presto e tu hai bisogno di dormire.”
In effetti, nessuna persona sana di mente si sarebbe svegliata alla quattro del mattino per attraversare mezza città e arrivare alle cinque e un quarto davanti all’ospedale psichiatrico nel quale è rinchiuso uno dei propri genitori.
Eppure… eccomi qui. Ormai non sono più in grado di stupirmi di quello che un figlio può fare per amore della propria Tamma.
“Non ti preoccupare, ho dormito a sufficienza.” Mento abbastanza bene da convincerla ed è questo che conta. Dopo un primo attimo di smarrimento, inizia a parlare e lo fa a raffica: mi chiede come sto, che ho fatto in questi anni, da quanto sono uscito, se ho trovato un lavoro e spesso non mi lascia nemmeno il tempo di rispondere che riprende a parlare, a domandarmi cose, a ridere per qualcosa che passa solo nella sua testa e ad accarezzarmi il capo, ora che mi sono avvicinato e seduto sul bordo del letto con lei.
“Mi sei mancato tanto, amore.” Afferma dopo un bel po’, in un sussurro così basso che pare che mi stia rivelando un segreto incredibile, un qualcosa che deve restare solo tra noi due.
“Anche tu, tanto.”
Sorride e vederla sorridere è la cosa più bella che mi sia capitata in questo periodo.
“Vieni qui, su. – Dice, alzandosi meglio a sedere e battendo una mano nella parte di letto al suo fianco. Non mi tiro indietro e mi siedo accanto a lei, allungando le gambe sul letto, non badando al fatto che gli anfibi sono sudici di terra e Dio solo sa che altro. – Vuoi che ti racconti una favola, Sery?”
Ridacchio solo leggermente, nemmeno fossi ancora un bambino piccolo. Poi lo sguardo mi cade sulla copertina che ancora si stringe al petto, sul sole ricamato sopra.
“No, te la racconto io una favola, questa volta. La favola di Tamma e della sua coperta, di quando lei era piccola così.” Mimo lo stesso gesto che mi fece lei quando avevo solo sei anni e avevo paura dei mostri fuori dalla finestra.
Ride.
E sentirla ridere mi scalda il cuore, ma ora devo concentrarmi.
“Allora… c’era una volta una bambina piccola, piccola, piccola. Questa bimba si chiamava Tamara, ma tutti, nel Regno in cui viveva, la chiamavano Tamma; perché Tamma è un bel nome: allegro come una risata e luminoso come il sole. E Tamma aveva una coperta.”
Inizio con enfasi, infondendo nella mia voce tutta la mia scarsa capacità di narratore, ma sortisco lo stesso l’effetto desiderato: vedo quegli occhi verdi farsi sempre più vivi e presenti, guardarmi con ammirazione mentre racconto, inventando le parole come meglio riesco e non badando al fatto che farò tardi. O al fatto che sono seduto a fianco a una donna affetta da Psicosi, il cui umore potrebbe cambiare per una parola sbagliata o un gesto diverso da come lei si aspetta.
Perché voglio raccontare una favola finta tratta da una storia vera: una storia ambientata una mattina presto, in un luogo lontano da questo, ma ugualmente grigio e terribile, dove le cose piccole, come persone e sogni, vengono calpestati tutti i giorni. Voglio raccontare la favola di Tamma che aveva una coperta con un sole; lo stesso sole che mi ha dato il nome e che mi scalda il cuore d’amore.
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Finalmente sono riuscita a riprendere in mano questa Raccolta su Serapion e sulle persone che più hanno segnato la sua vita, nel bene o nel male.
 
Come le precedenti One – Shots, anche questa è stata scritta per la Challenge “Slice of Life” indetta da areon. Confesso che il Prompt fornito forse non era centrale per la vicenda narrata (è più importante la copertina col sole), ma visto che è il “luogo” dove si svolgono le vicende, direi che ci può anche stare… o almeno lo spero… ^^’’
 
Come al solito non è mancato il Flashback sull’infanzia di Sery: ci tengo molto a questi passaggi perché, in qualche modo, cercano di spiegare il suo comportamento di adesso (che poi non lo facciano bene è un altro discorso! XD). E proprio a questo proposito vorrei spendere un paio di parole: il Lessico è calato drasticamente durante il Flashback e le ripetizioni sono aumentate, questo per il semplice fatto che Serapion qui è un bambino di poco più di sei anni e non poteva avere una grande padronanza della lingua.
Come si può notare, la mamma di Sery non ci sta tanto bene di testa e questo è dovuto essenzialmente al fatto che il marito è stato arrestato di fronte a lei ed essendo l’uomo l’unica fonte di sostentamento della famiglia, il fragile equilibrio psicologico di Tamara è crollato; lei cerca di essere presente per suo figlio, ma le risulta comunque difficile prestare del tutto attenzione alla situazione senza “distrarsi” almeno in parte, come a voler fare una pausa dalla realtà che l’affligge.
Per quanto riguarda il resto della famiglia: beh, Illarion è un bastardo che presto farà la sua comparsa, Klaudiya la conoscete già e Kapiton è il prossimo della lista dei parenti da far conoscere… u_u
 
Dovrei aver detto quasi tutto, tranne questi ultimi dettagli:
 
Questa storia partecipa alla Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 con il prompt 36) Malattia… è una malattia mentale, spero che vada bene lo stesso… ^^’’
 
Ok, con questo ho davvero finito, sperando di non aver dimenticato nulla. :D
Ci sentiamo presto e se avete tempo e voglia, lasciate un commentino! ;)
Alla prossima
ByeBye
 
ManuFury! ^_^
 
 
[1]  Stepan P. Kasabov è il Sergente Maggiore che ha garantito per Serapion quando l’ha fatto uscire di prigione e risponde in prima persona a ogni eventuale azione illecita commessa da Serapion. La scena dell’assunzione è QUESTA!
 
[2]  Visto che avevo come obbligo quello di non far comparire mai la parola “Mamma” mi sono inventata una fusione tra questa e il nome della donna (Tamara), creando così il nomignolo “Tamma”.
 
[3]  Serapion è un nome di derivazione egiziana che, con gli anni, è stato trasformato dalla lingua latina in Serapio o Serapion e significa appunto “Sole” oppure, secondo altre traduzioni “luminoso”, “solare”.
 
[4]  Come penso di averti già riferito Serapion è finito in prigione quando era molto giovane perché ha ucciso per sbaglio uno degli usurai cui dovevano dei soldi. Klaudiya e Kapioton sono i fratellini di Serapion e hanno sette anni in meno di lui (sono gemelli, giusto per) e sono stati concepiti più o meno qualche mese dopo il ricordo di Sery. Essendo che la madre soffre di Psicosi, quando anche Seapion è finito in prigione, loro sono stati chiusi in un istituti per l’infanzia e ne sono usciti solo quando avevano diciotto anni. Per questo motivo Serapion si sente in colpa, perché è convinto di averli abbandonati a loro stessi con il suo atto egoista.
 
[5]  Questo è un termine medico per indicare dei momenti in cui la Psicosi colpisce un dato individuo facendolo estraniare completamente dal mondo che lo circonda.
  
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