NOTE DELLA PIGNA
Buon
ultimo dell’anno!
Comunque, questa è una shot
scritta per il contest natalizio indetto dal gruppo Facebook Sherlockians, con il quale mi scuso
perché… insomma, Natale era praticamente una
settimana fa.
Ringrazio Martina per il bellissimo
prompt Wholock (che mi ha messo una
tristezza addosso incredibile…) e chiunque abbia ancora lo
spirito natalizio
per leggerla!
P.S.: Come penso si possa ben
capire dalla descrizione, il Dottore di cui ho voluto scrivere
è Eleven, perché…
perché Matt Smith, ecco. Manca tanto.
Sherlock
Holmes odia il
Natale. Odia la generale allegria non giustificata. Odia i visi
sorridenti
delle persone che per un mese all'anno mettono a tacere le reciproche
antipatie
in nome di una festività di cui apprezzano solo il lato
economico per lo scambio
di doni. Odia la gente che passeggia per strada e augura buone feste
agli
sconosciuti, elargendo falsi sorrisi e pacche affettuose sulle spalle.
Sherlock
odia il Natale perché
tutti quei sorrisi e tutta quella gioia diffusa gli ricordano qualcuno
incontrato
due secoli prima, qualcuno di veramente importante per lui e che
avrebbe
seguito fino alla fine dei suoi giorni. Non gli aveva mai rivelato la
sua
identità, ma
si era semplicemente
presentato come il Dottore.
Con
il suo atteggiamento poco congeniale
e misterioso aveva attirato l'attenzione di Sherlock dopo essergli
finito
addosso, brandendo in mano uno strano utensile che diffondeva una luce
verde
brillante ed emetteva uno strano suono e correndo via. Lo aveva
inseguito per
qualche vicolo, prima di perderlo di vista un momento dopo che aveva
svoltato
un angolo. Lo aveva cercato nei giorni seguenti, ma senza successo.
Voleva
sapere di più su
quell'uomo. Da una semplice occhiata di sfuggita era riuscito a dedurre
poco o
niente di lui e per semplice curiosità umana - e un leggero
senso di sconfitta
per il fallito tentativo di deduzione - non riusciva a smettere di
pensare allo
svolazzo di quel lungo cappotto scuro e allo bizzarro utensile nelle
mani di
quell'uomo. Aveva fatto delle teorie sulla sua identità,
lui, che affermava che
ipotizzare non era nient'altro che la più azzardata delle
mosse. Non ne aveva
parlato con suo fratello Mycroft, consapevole del fatto che lo avrebbe
schernito definendolo un bambino, ma non aveva smesso di cercarlo e nei
giorni
seguenti Londra non fu più la stessa.
La
gente diceva che la neve
era strana, giudizio derivato senza alcun dubbio da qualche strano
intruglio
venduto a poco prezzo dai proprietari delle locande come nuova bevanda
natalizia. Sherlock aveva notato la crescente quantità di
pupazzi di neve per
le vie della città ma aveva dato la colpa ai numerosi orfani
che non potevano
giocare con nient'altro se non con la neve stessa, quell'anno caduta
abbondante. Era naturalmente conseguita la diffusione di racconti,
sicuramente
inventati dai numerosi fanatici che si risvegliavano ferventi sotto il
Natale.
E poi una sera qualche settimana dopo l'aveva rivisto, chino su una
montagnola
di neve, intento a studiarla e ad assaggiarla. Sherlock si era
avvicinato
lentamente e con attenzione, trattandolo quasi come un animale
selvatico per
non spaventarlo con movimenti bruschi e rumori improvvisi.
"Sherlock
Holmes."
Aveva esclamato l'uomo senza voltarsi, prendendo in contropiede
Sherlock, che
aveva esitato per un momento prima di fermarsi qualche passo dietro di
lui.
"Voi
non siete
propriamente di queste parti, non è vero? Altrimenti
sapreste che non è saggio
assaggiare la neve caduta per terra a Londra." Rispose stoico, portando
le
mani dietro la schiena. L'altro aveva continuato a prendere manciate di
neve,
facendola cadere per terra e osservandone la caduta.
"La
neve è di nuovo sana.
E' stato un piacere." Affermò infine, alzandosi e voltandosi
con uno
svolazzo teatrale del cappotto mentre si sfregava le mani insieme.
Sotto il
cilindro di velluto scuro spuntavano ciocche castane che incorniciavano
un
volto giovane dalla mascella squadrata e prominente e gli occhi
incavati fissi
su Sherlock, che sollevò leggermente il mento mentre lo
squadrava con occhio
critico. "Sono il Dottore, piacere di conoscerti, mio giovane amico."
Disse, porgendogli una mano, che il riccio osservò con un
sopracciglio
sollevato. L'uomo riabbassò la mano ma il sorriso non
scomparì dalle sue
labbra. "Non sembri avere molti amici." Esclamò cautamente
dopo qualche
momento, avvicinandosi a lui e invadendo il suo spazio personale.
"Non
è affar
vostro." Rispose bruscamente Sherlock, senza interrompere il contatto
visivo.
"Ti
va di partire per
un'avventura o due, Sherlock Holmes?" Continuò l'altro
ignorando il suo
tono scortese. "Mi ricordi qualcuno di importante che ha fatto qualcosa
di
ancora più grande. Ho già sentito il tuo nome."
Aggiunse, facendo un passo
indietro e sollevando un sopracciglio con aria invitante.
Sherlock
sbatté le palpebre,
distogliendo lo sguardo e sinceramente incuriosito dalla sua proposta.
Si
guardò intorno, osservando le povere abitazioni di mattone
rosso ora nero per
la sporcizia accumulata e le persone che passeggiavano a giusto qualche
metro
di distanza da loro e che tuttavia li ignoravano come se appartenessero
ad un
altro mondo. Un altro mondo. Forse era quella la soluzione. Non sapeva
se
poteva fidarsi completamente di quell'uomo, o qualunque creatura essa
fosse, ma
aveva altra scelta? Non aveva un lavoro se non quello che si era
inventato, suo
fratello continuava a insistere perché si trovasse una
moglie per assicurare
una successione al nome della famiglia, ma Sherlock non voleva cambiare
chi era
per accontentare qualcuno.
"Avventura
per
dove?" Si sentì domandare, un leggero tremolio nella voce
che non era in
grado di interpretare. L'uomo allargò il sorriso.
"Hai
a disposizione ogni
anno di ogni epoca di ogni luogo. Da dove cominciamo?"
Sherlock
sbatté le palpebre e
si guardò intorno, con un sopracciglio sollevato in aria di
sfida.
"Non
avete un'astronave
aliena o qualcosa di simile per poter viaggiare nel tempo e nello
spazio?"
Chiese, trattenendo la risata sprezzante per quanto gli suonasse
ridicola la
domanda. Lo strano uomo schioccò le dita come se gli fosse
appena venuto in mente
qualcosa, spiazzando per un momento Sherlock.
"Certamente!
Che stupido
che sono! Devi ancora conoscerla!" Esclamò, girandosi sui
tacchi con uno
svolazzo del lungo cappotto e trotterellando via, lasciandosi l'altro
alle
spalle con un'espressione confusa e stupefatta sul volto dai lineamenti
decisi.
Sherlock aprì la bocca per chiamarlo ma al contrario si
ritrovò ad inseguirlo a
breve distanza, facendosi largo tra la gente per restare al suo passo.
Nonostante avessero entrambi le gambe lunghe, l'uomo misterioso era
comunque
qualche passo in vantaggio rispetto a lui quando scomparve dalla vista
di
Sherlock. Questi si arrese di fronte alla consapevolezza di aver perso
l'unico
incontro realmente interessante da un mese a quella parte e non
trattenne uno
sbuffo sbuffato, prima che questo mutasse in un gridolino strozzato
quando si
sentì afferrare per le spalle e trascinare in una zona
appartata.
"Sherlock
Holmes! Conosci
Londra come il dorso della tua mano, è impossibile per te
perdere di vista un
bersaglio." Lo schernì, sebbene il suo viso fosse addolcito
da un sorriso
affettuoso. Il moro se lo scrollò di dosso con aria stizzita
e si sistemò il
cappotto, allontanandosi da lui di qualche passo.
"La
vostra astronave
aliena." Gli ricordò dopo qualche secondo trascorso a
studiarsi a vicenda.
L'uomo schioccò nuovamente le dita, ma questa volta si
materializzò dietro di
lui una cabina della polizia blu. Sherlock indietreggiò
spaventato e con gli
occhi sgranati, che scattarono immediatamente allo strano oggetto.
Rimase come
bloccato sul posto mentre l’altro si avvicinò ed
aprì la porta, spalancandola
in modo che potesse vedere una grande stanza al suo interno al cui
centro si
trovava una sorta di plancia di comando. Sherlock spalancò
la bocca, che
richiuse subito per ostentare sicurezza, e schiarì la gola
prima di farsi più
vicino a sua volta.
“Coraggio!
Non morde mica.” Lo
incoraggiò l’uomo, dandogli una pacca sulla spalla
che in circostanze normali
gli sarebbe costata un’occhiataccia e il più aspro
dei commenti sulla sua
persona o famiglia, ma che quella volta fu bellamente ignorata. Il moro
fece un
passo all’interno, gli occhi spalancati che mal celavano la
sorpresa e
l’incredulità. Si guardò intorno
qualche volta, battendo il piede sul pavimento
per essere certo che fosse reale prima di precipitarsi fuori, compiendo
il rito
qualche volta, per poi fermarsi sulla soglia.
“Dillo
pure. Ci sono
abituato.” Disse l’altro, agitando una mano
nell’aria ed entrando a sua volta.
“E’
fisicamente impossibile!”
Esclamò Sherlock, scuotendo la testa.
“Beh,
c’è sempre una prima
volta.” Fu il commento dell’altro, che
ridacchiò e lanciò il cilindro su una
piccola poltrona dall’altra parte della plancia di comando,
se così si poteva
definire. Si appoggiò ad essa, osservando Sherlock con un
sorrisetto invitante
sulle labbra sottili che lo faceva sembrare più giovane. Il
riccioluto deglutì
a fatica, seguendolo all’interno e camminando nella sua
direzione facendo
scorrere una mano sulla balaustra in metallo, come per accertarsi
ancora una
volta dell’effettiva esistenza di ciò che lo
circondava.
“Siete
un alieno.” Sussurrò,
non volendo credere alle sue stesse parole, lui che aveva sempre
creduto che la
fredda logica dimostrasse la veridicità di tutte le leggi
dell’universo.
L’altro annuì.
“Sono
un Signore del Tempo di
900 anni, se vogliamo essere pignoli come te.” Gli rispose,
lasciandolo
momentaneamente confuso per poi farsi più serio.
“Tutte le epoche e gli eventi
che hai sempre desiderato vedere. Allora, da dove
cominciamo?” Gli chiese e
questa volta Sherlock incrociò il suo sguardo, un lieve
sorriso che iniziò
titubante a nascere sui lineamenti del viso.
Ha
vissuto mille avventure con
quell’uomo tanto misterioso quanto straordinario: incontrato
strane forme di
vita, esplorato nuovi pianeti mai visti prima – e salvato
alcuni di essi da
esseri chiamati Dalek e da altri che si dichiaravano essere Cyberman.
Ma Sherlock
non sapeva che non sarebbe durato per sempre.
Per
quanto ricordi vividamente
ogni singolo momento passato con il Dottore, del loro addio non ricorda
niente.
Assolutamente niente. E questo fatto non potrebbe frustrarlo di
più.
Ricorda
solo che gli ha
balbettato qualcosa sul fatto di essere destinato a qualcosa di
più grande, a
incontrare qualcuno che gli avrebbe stravolto completamente la vita una
seconda
volta ma che non lo avrebbe coinvolto in avventure in giro per lo
spazio. Non gli
ha detto il nome di suddetta persona, biascicando al posto delle
risposte alle
sue domande delle scuse, prima di tornare nella sua cabina blu e
scomparire per
sempre.
Sherlock
scuote la testa e
sbatte le palpebre un paio di volte, scacciando il pensiero
stoicamente. Estrae
le chiavi dalla tasca del cappotto e si decide finalmente a salire i
diciassette gradini che lo portano a John Watson, il quale lo attende
con una
tazza di tè fumante e un sorriso.