Storia
partecipante al contest 1 su 24 ce la fa di ManuFury
Nick sul forum/ Nick su EFP (segnalare quello che si vuole avere sul
Banner):_Nica89
Tributo:Cecelia
Turno:settimo
Titolo
Storia:Incontri a caro prezzo
Pacchetto
(se presente): nessuno
Genere:slice-of-life
Rating:giallo
Avvertimenti:missing
moment
Pairing
(se presente):nessuno
Note (facoltative): i calcoli del protagonista, Scott, sono volutamente
sbagliati. Cecelia ha diciotto anni, quando viene estratta per i
sessantunesimi
Hunger Games.
Incontri
a caro prezzo
La prossima
edizione
degli Hunger Games è ormai alle porte e tutta Capitol City
sembra avvolta in
un’aurea di palpitante attesa, prima che l’apertura
delle scommesse dia il via
alla frenesia di indovinare il Vincitore dei sessantunesimi Giochi,
ancora
prima che i tributi siano stati scelti durane le mietiture. Per le
strade si
sentono già i primi pronostici su distretto di provenienza,
età e genere
dell’unico superstite che potrà dire di essere
sopravvissuto all’arena.
Per un senza-voce – come me – assegnato al Centro
di Addestramento, la vigilia
di una nuova edizione è sinonimo di lavoro febbrile,
affinché sia tutto pronto
per l’arrivo dei nostri ospiti.
Quando salgo al
piano
dedicato ai tributi del Distretto 3 e al loro staff, gli stilisti sono
intenti a
osservare le mietiture che si stanno svolgendo in tutta Panem. Non
presto
attenzione al televisore e mi avvio verso le stanze da letto, per
sistemare gli
ultimi dettagli.
Quando ritorno
in
soggiorno, le immagini stanno mostrando un ragazzino salire sul palco.
Non ho
bisogno di leggere il numero sul Palazzo di Giustizia, per sapere che
si tratta
della mietitura del Distretto 8: vi ho assistito dal vivo fin troppe
volte, per
non riconoscere il mio distretto d’origine.
La telecamera
mostra
anche la ragazza estratta in precedenza. È più
grande del suo compagno di
sventura, probabilmente era uno degli ultimi anni in cui rischiava di
essere
sorteggiata. Da quel poco che posso osservarla, sembra abbastanza
graziosa,
anche se il suo è un viso piuttosto comune nel nostro
distretto. Forse è per
questo che mi sembra vagamente familiare, o forse è solo la
nostalgia di chi ho
dovuto abbandonare, a causa della mia impulsività, a
renderla tale.
«Ehi,
tu! Vammi a
prendere le stoffe nel mio laboratorio!»
La voce dello stilista mi riporta alla realtà e mi accorgo
di essere rimasto
fermo davanti allo schermo che, grazie a un’elegante chiusura
e apertura delle
porte dei Palazzi di Giustizia, ci introduce a una nuova mietitura.
«Mi hai sentito? Le stoffe, quelle cose che si usano per fare
i vestiti … – mi
ripete, per poi commentare col suo collega – Ogni anno sono
sempre più stupidi
…»
Abbasso la testa
ed
esco. Una volta avrei risposto a quell’offesa, adesso sono
obbligato a rimanere
in silenzio. Se solo avessi saputo trattenermi tempo fa, forse, non mi
troverei
qui. Ma non c’è tempo per rimpiangere quello che
è successo: gli Hunger Games
incombono e se i costumi per la sfilata di domani non saranno
all’altezza, gli
stilisti non avranno problemi ad additarmi come capro espiatorio.
*
* *
La sfilata
è riuscita.
Tutti gli stilisti hanno cercato di valorizzare al meglio le produzioni
dei
Distretti dai quali provengono i loro tributi. Perfino la tuta da
minatore dei
due ragazzi del Distretto 12 sembrava più curata del solito,
ma nessuno è
riuscito a spiccare tra gli altri. Fare colpo sul pubblico limitandosi
a
salutare e sorridere da un carro è difficile, soprattutto se
altre ventitré
persone imitano i tuoi stessi gesti.
Rimango vicino
al
cancello, in attesa che il carro dei cavalli rientri, per osservare
più da
vicino la giovane del Distretto 8. Da una delle tribune più
vicine sento una
donna urlare alla sua compagna:
«Sai, vorrei tanto essere un senza-voce, in questo momento,
così potrei vedere
da vicino i tributi, senza dover aspettare la fine dei giorni
d’addestramento.
Deve essere così emozionante! Soprattutto la sessione
privata, non sai cosa
pagherei per potervi assistere!»
Lascio la signora continuare il suo elogio dei Giochi e ritorno verso
la postazione
assegnatami, schifato da tanta superficialità.
Devo essere
impazzito,
è l’unica spiegazione possibile per il mio
comportamento: sgattaiolare fino
alle palestre e sostituirsi a uno degli altri senza-voce solo per
assistere
alle sezioni individuali potrebbe essere un’ottima idea solo
per un folle
amante dei giochi. O per un aspirante suicida, nel caso il piano
fallisca.
Farlo per una ragazza sconosciuta del Distretto 8 non ha alcun senso.
Eppure,
in questo momento, mi sento tanto vicino alle posizioni della donna
alla
parata.
Vedere la
giovane
uscire carponi, tra le risate di scherno degli Strateghi, dal rifugio
improvvisato che le è collassato addosso, mi stringe il
cuore. È talmente
mortificata che non alza nemmeno lo sguardo verso la piattaforma
riservata a
loro.
«Signorina,
può
andare».
Accolgo quelle parole con sollievo. La ragazza si passa velocemente la
mano
sugli occhi, prima di uscire.
«Speriamo solo che non si eserciti troppo con le coperte
della sua stanza,
altrimenti rischiamo di doverle trovare un sostituto!»
commenta una donna,
servendosi dal vassoio che stringo tra le mani, suscitando
l’ilarità generale.
L’unica
consolazione è
che le porte si sono già chiuse alle spalle della giovane.
*
* *
Con una prova
simile
non mi sorprendo quando Caesar Flickerman annuncia, con voce fintamente
dispiaciuta: «Distretto 8, Cecelia Tailor: Cinque!».
Scoprire il nome
della
ragazza non fa altro che confondermi maggiormente le idee sul
perché il suo
viso mi sembri così familiare. Tailor è un
cognome comune nel nostro distretto,
perfino mia sorella ne ha sposato uno, ma sono sicuro di non conoscere
questa
ragazza.
E come potrei?
Devono
essere passati quindici, sedici anni – o forse qualcosa di
più – da quando sono
stato portato a Capitol City.
*
* *
Le interviste si
susseguono, alcune brillanti, altre talmente faticose da far sembrare
quei tre
minuti eterni. In quest’occasione, Cecelia non sbaglia, anche
se è molto
impacciata.
Quando Caesar
porta il
discorso sulla valutazione, dagli spalti riservati agli Strateghi, si
alza
qualche risolino che non passa inosservato. Cecelia arrossisce e cerca
di
cambiare discorso.
Da bravo maestro
di
cerimonie, Caesar l’asseconda, spostando la conversazione sul
braccialetto
intrecciato col quale la giovane continua a giocherellare. Prontamente
le
telecamere lo inquadrano, permettendo a tutti gli spettatori di vedere
l’oggetto.
La sorpresa nel
riconoscerlo mi lascia senza fiato: non ho dubbi che sia quello che
regalai a
mia sorella come augurio per le sue nozze. Le parole di Cecelia fanno
da
sottofondo ai diversi ricordi della mia vecchia vita che affiorano,
gareggiando
tra loro per riemergere dall’oblio dove li avevo confinati.
Uno, in
particolare,
risulta nitido e reale.
«Cecelia! Ha detto che la vuole
chiamare
Cecelia!» aveva esclamato mio cognato –
nonché marito di Lena, mia sorella –
appena gli avevo aperto la porta, che sembrava essere diventata il suo
personale antistress.
«Ciao,
Philip. È bello sapere che avrete una bambina! Prego,
accomodati pure …» lo
invitai scherzosamente a entrare, facendogli notare che fosse ancora
sulla soglia
di casa.
«Scusami, Scott, non ti ho neppure salutato, ma vedi, tua
sorella mi sta
veramente facendo impazzire con questa storia del nome
…» riprese mio cognato,
seguendomi in cucina senza interrompere la sua filippica sul
perché “Cecelia”
non dovesse essere il nome da dare a un bambino.
«Quindi
non è sicuro che sia una femmina».
«No, è Lena a esserne convinta. Sai
com’è quando s’impunta su qualcosa
… ormai
parla del bimbo solo al femminile» continuò,
lasciandosi cadere a peso morto su
una sedia.
«E
tu spera che nasca un maschio!» suggerii, allungandogli un
bicchiere d’acqua e
sedendomi di fronte a lui.
«La fai facile, tu, che non sei sposato. Mi piacerebbe
proprio vederti, tra
qualche anno con la tua dolce metà»
borbottò Philip, tra un sorso e l’altro.
«Ho
solo diciannove anni, dammi un po’ di tempo!»
scherzai a mia volta, alzando le
mani in segno di resa. Mio cognato mi sorrise compiaciuto.
«Però, mi prometti che le parlerai?»
domandò speranzoso.
«Va bene, – acconsentii – ma credi
davvero che possa farle cambiare idea?»
«Sinceramente? No, ma è pur sempre un
tentativo». Sorrise, scrollando le
spalle.
Eppure
quel tentativo non è mai avvenuto, a causa di alcune
proteste scoppiate in
fabbrica. Lena mi aveva sempre supplicato di tenere a freno la lingua,
ma
durante quel turno di lavoro non riuscii a rimanere in silenzio.
Decidere
di iniziare un’apprendista facendole prendere le misure al
capo dei
pacificatori non era stata una mossa lungimirante, da parte del
direttore della
fabbrica. La povera aveva iniziato a tremare come una foglia fin da
quando ero
stato mandato a chiamarla per comunicare il suo nuovo incarico e a poco
erano
servite le mie rassicurazioni.
Vedere
l’uomo schiaffeggiarla, solo perché uno spillo lo
aveva punto, mi fece
scattare. Probabilmente tutto si sarebbe risolto discretamente dentro
qualche
magazzino poco frequentato della fabbrica, per nascondere
l’accaduto, lasciando
il mio corpo coperto di lividi come ammonimento, oppure avrei potuto
cavarmela
con qualche frustata pubblica, giusto per ricordare a tutto il
distretto chi era
a comandare, se solo non avessi istigato anche gli altri lavoratori a
ribellarsi e bloccare la catena produttiva.
Non
era stato tanto il mio gesto, quanto le mie parole, a colpire nel
segno; per
questo portarmi a Capitol City e farmi tagliare la lingua
sembrò loro il
contrappasso migliore.
Osservo Cecelia
alzarsi
dalla poltroncina, congedarsi da Caesar e tornare al suo posto tra gli
altri
tributi. Continuo a fissarla, ripensando al mio primo periodo da senza-
voce,
quando non facevo che pensare al mio distretto e alla mia famiglia ma,
soprattutto, al figlio di mia sorella che non era ancora nato. Non
poter avere
loro notizie mi faceva soffrire più del non poter parlare.
Non passava
giorno che
io non trascorressi a desiderare di rivederli e di conoscere
l’ultimo arrivato,
come se la mia punizione potesse essere reversibile. Poi, la logica ha
avuto
ragione sul cuore e ho cercato di rifuggire l’unica soluzione
che avevo per
conoscere quella che – ora so – è mia
nipote.
*
* *
Passo la notte
insonne,
incapace di chiudere occhio al pensiero di quello che la
aspetterà nell’arena. Vorrei
poterla conoscere meglio e una parte di me vorrebbe farle sapere che
non sono
morto, come ha sostenuto durante l’intervista. Ma non
c’è più tempo per questo
incontro, non c’è mai stato veramente e, forse,
è meglio così per entrambi.
Il giorno arriva
troppo
presto ed io devo tornare agli ordini del team di preparatori che
è rimasto al
Centro di Addestramento.
Le lancette segnano le dieci in punto, quando lo schermo
s’illumina e un
eccitatissimo Caesar Flickerman annuncia l’imminente inizio
dei sessantunesimi
Hunger Games.
Passa
mezz’ora prima
che ci venga mostrata, per la prima volta, l’arena di
quest’anno:
apparentemente una distesa di ghiaccio e candida neve, interrotta solo
da
alcune zone rocciose e dalla boscaglia che sembra ricoprire tutta la
parte
orientale del campo di gioco. Di sicuro un’arena suggestiva,
anche se
all’apparenza poco minacciosa, che il conduttore assicura
impareremo a
conoscere e apprezzare. Sento mormorii d’insoddisfazione
diffondersi tra il
piccolo pubblico che si è riunito per non perdersi lo
spettacolo.
Lentamente,
dalle
piastre di metallo emergono i ventiquattro tributi, mentre dal cielo
iniziano a
cadere soffici fiocchi di neve. Cerco Cecelia, a un primo sguardo
è difficile
distinguerla dagli altri ragazzi. Alcuni, i più lucidi, si
sono già preoccupati
di alzare il cappuccio delle loro giacche, rendendo ancora
più difficile
riconoscerli.
Solo pochi
tributi
spiccano tra gli altri, generalmente per le loro costituzioni fisiche
minute, o
troppo possenti, rispetto a quelle degli avversari, ma Cecelia non
è tra
questi. Mi domando se questo potrà tornarle utile, in
qualche modo.
Nei secondi che
rimangono, prima che il gong sancisca l’inizio del bagno di
sangue, la
telecamera immortala il tutto con dei primi piani dei ragazzi; la
maggior parte
dei quali è una maschera di terrore.
Cecelia non fa
eccezione: la paura è chiaramente stampata sul suo volto e
lei non sembra
preoccupata di nasconderla, ma noto – o, forse, voglio notare
– che non è
rassegnata a farsi vincere così facilmente.
Appena il suono
del
gong dà il via ai Giochi, quasi tutti i tributi iniziano ad
arrancare nella
neve, per conquistarsi gli oggetti migliori. Anche Cecelia fa
altrettanto, ma
non si arrischia ad avvicinarsi troppo alla Cornucopia, dove la neve
inizia a
mostrare le prime screziature di sangue.
La osservo
allontanarsi, mentre due preparatori commentano, poco impressionati, le
gesta
che stanno vedendo in tv.
*
* *
L’edizione
non decolla, ormai è chiaro che i
cittadini di Capitol City non riescono ad appassionarsi a
un’edizione povera di
adrenalina e colpi di scena, dove i pericoli maggiori sembrano
provenire da
lastre di ghiaccio nascoste dalla neve – troppo fragili per
reggere il peso dei
tributi –, dove i concorrenti muoiono per lo più
di stenti e nemmeno gli ibridi
creati dagli strateghi sembrano riscuotere troppo successo tra gli
spettatori
annoiati.
Morti i tributi
del Distretto 3, la squadra di
preparatori accoglie ogni colpo di cannone con un sospiro di sollievo
per
l’avvicinarsi del Gran Finale, che segna la chiusura dei
Giochi.
Per me, ogni colpo di cannone sparato è accompagnato dalla
paura che sia per
Cecelia.
A suonare per
lei, invece, sono le trombe della
vittoria. Sfogo la mia incredulità e il mio sollievo in un
pianto liberatorio,
che mi rende oggetto di scherno dei due stilisti del Distretto 3, ma
non me ne
curo. Il sollievo lascia, però, spazio alla preoccupazione
quando la vedo
cadere, stremata, nella neve.
*
* *
La zona adibita
a
ospedale è inaccessibile, così cerco di origliare
le conversazioni al Centro di
Addestramento per avere qualche informazione sulla salute di Cecelia.
Vederla
scendere dall’hovercraft in barella, avvolta in una specie di
coperta termica
metallizzata, senza poter fare nulla per aiutarla è stata
dura.
Adesso che gli
stilisti
non hanno più bisogno di me, sono stato assegnato alla cura
del guardaroba
dello stesso Caesar e questo aumenta notevolmente il mio raggio
d’azione e le
mie possibilità di avere informazioni sulla convalescenza di
mia nipote.
A quanto pare,
la
giacca rubata alla ragazza morente ha giocato un ruolo fondamentale
nell’evitarle l’assideramento, anche se i medici
sembra non riescano a portare
stabilmente la sua temperatura sopra i trentacinque gradi.
Nel camerino di
Caesar
Flickerman si respira un clima di tensione: il pubblico è
stanco di attendere
l’ultima vincitrice e il conduttore inizia a essere in
difficoltà a
temporeggiare ulteriormente, anche a causa della breve durata e del
poco
materiale interessante di questa edizione.
Il capo stratega
e
alcuni dei suoi più stretti collaboratori si alternano sul
palco, svelando
qualche aneddoto sui vari tranelli che erano presenti
nell’arena e cercando di
scaricare le colpe dell’insuccesso sugli stessi partecipanti
dell’edizione.
«Non credo, Caesar, che cadrà qualche testa,
metaforicamente parlando,
ovviamente! – risponde un giovane stratega in carriera, di
nome Seneca Crane –
Può capitare che una mietitura risulti particolarmente
sfortunata. È molto
raro, certo, ma non si può negare di come pochissimi, tra i
tributi
sorteggiati, fossero predisposti al combattimento».
Le parole di
Seneca
Crane divengono ben presto la linea di difesa ufficiale
dell’organizzazione, ma,
in ogni speciale, il grande assente rimane sempre Cecelia.
Finalmente, giunge il momento della tanto attesa serata con
l’intervista alla
vincitrice.
Rimango dietro
le
quinte, mentre il presentatore è già sul palco a
interagire con il pubblico.
Cecelia arriva accompagnata dal suo mentore. Nonostante
l’ambiente non sia
climatizzato, noto che indossa un abitino di lana pesante.
La osservo,
cercando di
resistere al desiderio di spiegarle chi sono e di stringerla finalmente
a me. Quando
mi passa accanto, la trattengo per un braccio. Lei sussulta, fissandomi
spaventata. Ritiro la mano, fingendo di togliere un filo inesistente
dal suo vestito,
gli occhi mi si riempiono di lacrime e abbasso lo sguardo –
pentendomi
dell’intrusione – e faccio cenno a Cecelia di
andare verso l’assistente del
palco.
Il suo mentore
le posa
una mano dietro la schiena, per rassicurarla. Mentre sta per salire i
gradini
si volta verso di me, con sguardo interrogativo, o forse spaventato
all’idea
che io possa nuovamente coglierla alla sprovvista.
Quello che
è certo è
che non mi ha riconosciuto. E come avrebbe potuto, nascosto dietro il
pesante
strato di trucco che è la mia divisa di
quest’anno? Ma, forse, è meglio così.
Nessuno vorrebbe sapere che il proprio zio è diventato un
senza-voce di Capitol
City.
Sento il
pubblico
applaudire caldamente l’ingresso sul palco della vincitrice,
quando due
pacificatori mi si avvicinano, facendomi segno di seguirli. Lancio un
ultimo
sguardo al palco, come per dire addio a quella nipote appena
conosciuta, che
già devo abbandonare e faccio come mi è stato
ordinato.
*
* *
Rinchiuso in
questa
cella asettica ho tempo di ripensare a quanto sia stato avventato.
Avrei potuto
essere più discreto, attendere ogni anno il suo ritorno a
Capitol City per
avere notizie su di lei e sulla nostra famiglia, eppure ho rovinato
tutto.
La porta si apre
ed
entra un uomo, accompagnato da un pacificatore che trasporta un piccolo
proiettore portatile. L’uomo preme il pulsante di accensione
e sul muro
compaiono tutte le follie che ho fatto per Cecelia. Immagine dopo
immagine, mi
rendo conto che per tutto il tempo loro sapevano perfettamente che non
mi stavo
attenendo alle regole che mi erano state imposte. È chiaro,
inoltre, che loro
sapessero della mia parentela con Cecelia.
«Credevamo
che la morte
della ragazza nell’arena, insieme a una condanna al lavoro
nelle fogne sarebbe
stata una punizione sufficiente, – inizia a spiegare
l’uomo in tono neutro,
sospendendo il filmato per qualche momento, per poi lasciare che le
immagini di
poche ore fa scorrano nuovamente davanti ai miei occhi –
avremmo potuto
sorvolare anche sulla vittoria della ragazza. Purtroppo, col suo gesto,
ci ha
costretto a rivedere la nostra posizione».
Faccio per
alzarmi
dalla sedia, ma le mani legate dietro lo schienale
m’impediscono i movimenti e
per il pacificatore non è difficile rendermi inoffensivo.
«Naturalmente sua nipote è una Vincitrice, non
è a lei che mi riferivo. E non
sarebbe giusto turbarla con l’esecuzione di uno zio che lei
già credeva morto».
Sento il metallo
freddo
della bocca della pistola premermi sulla tempia. Questa è la
punizione che mi
sarebbe aspettata anni fa, sono felice di poterla scontare lontano
dagli occhi di
mia sorella e sua figlia. Il colpo parte silenzioso e inaspettato e
tutto si fa
nero.