Storie originali > Horror
Ricorda la storia  |      
Autore: Belzeboozo    02/01/2015    1 recensioni
I più angoscianti e terribili segreti del mondo glaciale vengono riportati alla luce. La devastante storia di come un uomo possa impazzire semplicemente sperimentando l'orrore e la paura.
Genere: Drammatico, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sono intento a scrivere queste poche parole in uno stato di completa tensione psicologica e di insostenibile terrore ed orrore. Vedrò l’alba tra poche ore e in quel preciso momento io, latore tramite queste poche righe, di una così sconvolgente e terrificante notizia, cesserò d’esistere come un frutto che una volta giunta la maturazione si stacca dal proprio albero cadendo desolato e solo sul terreno. Queste poche parole sono destinate ad essere affidate al vacuo e vano Destino che m’ha portato in tale orripilante situazione. Privato della droga – la sola cosa che mi ha permesso di resistere fino ad oggi – mi trovo ora a rivivere incubi su incubi incapace di riconoscere la realtà e a differenziarla da ciò che ha preso possesso dei miei più profondi e misteriosi pensieri.
Non mi rimane altro modo per sottrarmi a tale opprimente immaginazione che sembra essersi ridestata tutta d’un colpo nella mia testa: mi getterò dalla finestra al levare del Sole e quando le mie oppresse membra toccheranno terra in boulevard Hucks tutto giungerà alla più giusta e corretta fine.
Tuttavia sappiate che non sono un debole e nemmeno un pazzo: ciò che ho scritto di seguito e che lascio a voi come monito e come confessione è la pura e semplice verità. Per quanto possa apparire cruda e spietata è solo quella: la verità. E tramite essa forse riuscirete a comprendere le motivazioni del mio folle e definitivo gesto: ascoltate, quindi, le mie ragioni.
La mia avventura ebbe inizio durante la spedizione scientifica cui partecipai a partire dall’otto luglio dell’anno 1997 mentre mi trovavo nelle Terre Adélie (Antartico), più precisamente nella base permanente Dumont d’Urville. Il compito che era stato affidato a me ed altri due colleghi di laboratorio era quanto mai banale e semplice: portare a termine alcune trivellazioni della calotta polare ad alcune decine di miglia dalla base. L’obiettivo era quello di concludere alcuni studi ancora in corso riguardo la datazione di determinati organismi rinvenuti in trivellazioni praticate in un’altra zona delle terre antartiche governate dalla Francia. La nostra trivellazione sarebbe servita da comparazione per poter appurare l’ era in cui l’organismo rinvenuto potesse essere collocato.
Lavoravamo alacremente cercando di terminare il tutto prima che il buio calasse in quella landa desolata ricoprendoci del suo freddo più totale. A circa metà perforazione la trivella sembrò bloccarsi riprendendo successivamente con meno velocità e meno stabilità: lo strumento infatti emetteva delle percebili vibrazioni. Ci avvicinammo tutti e tre allo strumento con la convinzione di tentare di ripararlo, ma nel preciso istante in cui fummo circa a 2-3 metri dalla trivella sentimmo un rumore sordo e prolungato, seguito poi dal fragoroso rumore del ghiaccio che si spezzava. Non avemmo il tempo per realizzare cosa stava succedendo perché precipitammo quasi in sincronia con l’inizio del rumore.
Ora, conscio di quanto avvenuto in seguito, posso affermare che quella caduta nel più tetro e terrificante buio dei gelidi abissi antartici era un presagio di sventura. Nulla sarà più come prima. Nulla.
Rinvenimmo tempo dopo. Assodare quanto tempo fosse effettivamente passato era impossibile essendo noi privi di orologi o altri strumenti simili.
Ciò che provai in maniera immediata fu un terribile e quanto mai puro terrore: crollati nelle viscere del terreno senza picchetti ne altro per poter tentare la scalata, isolati da tutto e da tutti. I soccorsi non sarebbero mai arrivati poiché erano stati informati del nostro lavoro e quindi un certo ritardo (anche di un paio di giorni) al rientro sarebbe parso come possibile e non soggetto a dubbi.
Il dolore del colpo ricevuto dalla caduta era ancora acuto e percepibile, tant’è che nessuno si arrischiò ad alzarsi o a forzare troppo le già deboli gambe.
L’intero nostro campo era crollato con noi: il ghiaccio oltre alla trivella si era trascinato con sé le nostre tende lasciandole, fortunatamente, intatte.
Ne raggiunsi una e presi una torcia, cercando così di studiare almeno in parte ciò che stava a noi attorno.
Quella fu la decisione che fece precipitare l’intera situazione: fu lo zenit della stupidità. Ma solo ora, dopo aver vissuto ciò che avvenne in seguito, posso dirlo.
Le pareti di ghiaccio che stavano a noi attorno erano completamente lisce e senza scalfitture o errori di forma, solo la parete ad ovest ossia quella alle spalle delle tende non era completamente intatta: essa presentava infatti un foro centrale di diametro circa 1,5 metri non al livello del pavimento ma leggermente discostato da esso. Era lapalissiano, guardandolo da più vicino, che quello fosse un tunnel. Altrettanto chiaro era che non potesse essere un tunnel naturale. Le pareti lisce e la sua perfetta conformazione non lasciano adito ad altre spiegazioni ma fu ciò che trovammo davanti all’entrata di quel tunnel che dissipò ogni dubbio e che ci convinse che quello fosse un antichissimo accampamento primitivo: dal pavimento, modellato nel ghiaccio, un gradino alto all’incirca 10 cm si levava collegandosi al foro nella parete.
Vorrei ora, divagando liberamente, spiegare il perché noi decidemmo di addentrarci ulteriormente in quel luogo invece di attendere i soccorsi o cercare una via di fuga verso l’alto: l’essere scienziati – e quindi, per natura, curiosi- rappresentò in quell’occasione la vera nostra rovina. Ma era la nostra natura ed altrimenti non avremmo potuto fare: essere uomini di scienza e non uomini di fede ha rappresentato per secoli la sciagura e la sfortuna di tantissimi personaggi di spicco e rilevanza mondiale. Basti pensare al solo Galileo Galilei: costretto a ritrattare le sue stesse tesi –oggi appurate e riconosciute da tutti come vere e pure- per non rischiare di finire al rogo. Ritrattò la verità per scampare e non continuare a vivere.
Noi, modesti scienziati in una terra ancora più modesta e misera, avevamo l’obbligo di appurare cosa a noi stava attorno e dove di preciso quell’infausta caduta ci aveva trasportato.
Il tunnel si estendeva per diversi metri in discesa a malapena percepibile. Successivamente sbucammo in un’ampia stanza priva di ulteriori fori alle pareti, queste contrariamente a quelle dove ci eravamo ritrovati dopo la caduta non erano lisce: incisioni di carattere rupestre le ricoprivano per intero, lasciando ben poco spazio tra una rappresentazione ed un’altra.
La grotta si presentava ampia, tant’è che la luce delle torce lambiva a mala pena la fitta oscurità che permeava l’intero spazio a noi circostante.
Al lato ovest della grotta era intravedibile un piccolo laghetto. Ci avvicinammo per osservarlo meglio: l’acqua era limpida e ciò risaltava ulteriormente a causa anche del fondo che appariva completamente trasparente e cristallino. Consci dell’interessante scoperta che avevamo appena fatto, ci dirigemmo nuovamente verso il tunnel con l’intento di ritornare alle tende e cercare in qualche modo di risalire la parete.
Fu quello il preciso istante in cui il Diavolo arrivò per riscattare le nostre anime e porre fine alle nostre vite.
Quando io, che ero il primo della fila, ero ormai con la testa infilata all’interno del tunnel un rumore sordo riempì la stanza: un gorgoglio proveniva dal laghetto riempiendo il silenzio che si era addensato nella grotta.
Quel che accadde dopo rappresenta ad oggi, almeno ai miei occhi, la prova dell’esistenza di Dio e della sua controparte malefica: Satana. Non in altro modo potrei spiegare la figura che lentamente e gloriosamente emergeva dalle limpide acque di quel laghetto.
Non essendo illuminata l’unica cosa che si poteva percepire anche al buio era la sua imponenza e la sua grandezza: era una figura alta, che si ergeva a due zampe e che non emetteva nessun tipo di suono. Nemmeno i passi che faceva mentre avanzava verso di noi erano udibili, forse anche complice il folto nevischio presente sul terreno.
Io ed i miei colleghi eravamo in preda alla più totale paralisi e nessun nostro muscolo sembrava rispondere al cervello che ci intimava di scappare e di metterci in salvo.
Ma ormai era troppo tardi.
La figura raggiunse la zona blandamente illuminata, a pochi passi da noi, rivelandosi per la sua totale brutalità: la testa non era umana bensì appariva (ed appare ancora ora ai miei occhi, sognandolo ripetutamente) come una testa di coccodrillo o di alligatore, quelli che dovevano essere gli arti superiori si rivelarono essere delle mani provviste di pollice opponibile ma ricoperte di squame e molto più grosse di quelle umane. L’Animale (così preferisco chiamarlo non concependolo come persona) si ergeva su due zampe palmate, anch’esse squamate e notevolmente robuste e muscolose. Il corpo era di un color verde scuro -possibile che la poca luce accentuasse questa sua caratteristica-  mentre il petto era di un verde chiaro che rassimilava il giallo.
Eravamo assorti nella più totale contemplazione di quell’essere, esterrefatti e scioccati dalla nostra stessa scoperta.
Non avemmo nemmeno il tempo di commentare ad alta voce la situazione eccentrica in cui ci eravamo ritrovati: l’animale emise un urlo disumano che echeggiò nel vuoto della stanza e che rese il mio sangue gelido e i miei arti rigidi. Con una rapidità mostruosa colpi il collega ad Esso più vicino squarciandogli il petto con una sola zampata.
Inutile dire che nello stesso istante in cui ciò avvenne, noi (io e l’altro mio collega) ci mettemmo carponi e iniziammo la risalita del tunnel nella maniera più veloce possibile. Ma l’animale ci stava braccando in maniera sempre più furente e non passò troppo tempo dall’inizio della nostra risalita che ci raggiunse catturando e divorando poi l’altro mio collega. Le grida d’aiuto lambivano le mie orecchie che cercai di mantenere sorde: sarei stato spacciato come loro due se solo mi fossi permesso di ridiscendere il tunnel per prestare soccorso.
Arrivato nel luogo della caduta, superate le tende, tentai la risalita. Forse a causa dell’adrenalina in corpo, forse per la paura che l’animale sembrava avermi scaturito: non so cosa mi diede la forza di trarre le mie terrificate membra in salvo. Usando le dita come picchetti iniziai la risalita con una velocità inumana. Ben presto potei constatare il rosso carminio del mio sangue bagnare la candida neve bianca della parete, ma ciò non mi interessava resomi conto che oramai ero a circa un metro dal culmine della voragine.
Nel buio terrificante sottostante a me le urla non si erano smorzate, anzi avevano ripreso a martellare con più veemenza rispetto a prima.
Una volta sopra la spaccatura, quando ormai constatai d’essermi messo in salvo dall’incubo peggiore della mia vita, una risata isterica e prolungata si fece padrona del mio corpo inibendo qualsiasi altra sensazione e azione. Camminavo come un automa tra i ghiacci ridendo istericamente e senza alcunché di motivo.
E me ne rendo conto or ora di quanto debba essere apparsa strana la mia ricomparsa, tre giorni dopo, in quelle condizioni. Comprendo anche le motivazioni che spinsero i miei soccorritori a farmi rinchiudere, almeno momentaneamente, al St Mary Hospital  Arkham una volta ritornato in patria. Non li biasimo per nulla, conscio del mio debole stato mentale e del mio apparire pazzo. Ancora oggi ho dei grossi dubbi sulla mia sanità mentale, non ancora capacitatomi di quanto accaduto nei freddi e tetri ghiacci dell’Antartide.
Ma la cosa che ancora oggi più mi terrorizza e ciò che i soccorritori trovarono inciso sul mio petto quando mi ritrovarono in pieno stato d’ipotermia (terzo grado di classificazione): una grossa scritta, occupante due righe, che si estendeva per orizzontale all’altezza circa dello sterno che recitava
 
“Purge my body of disease, empty my heart of pain.
Dua Sobek!”
---------------------------------------
“Ripulisci il mio corpo dalla malattia, svuota il mio cuore dal dolore.
Dua Sobek!”
 
Inutile cercar di spiegare loro che non ricordassi nemmeno d’essermi inciso quella frase, tant’è che nemmeno sapevo ciò che realmente volesse dire non comprendendone il significato implicito.
E’ durante la gelida notte che rivedo quell’orrenda creatura, specialmente quando si tratta delle notti di luna piena. Ho cercato aiuto nella morfina, tentando d’alleviare il mio angosciante dolore, ma ciò mi ha donato un blando e momentaneo momento di sollievo e di calma d’animo. Oggi, trascorsi circa due mesi dall’accaduto, non posso negare d’essere schiavo di due cose: della morfina, mia unica compagna di vita, e dell’immagine impressa in maniera indelebile nella mia mente della mostruosa creatura con la quale sono venuto in contatto.
Conscio di tutto ciò una sola cosa rimane a me da fare: porre fine alla mia esistenza terrena una volta terminata questo mio breve ma veritiero racconto. Spesso giungo a pensare che tutto ciò che io ricordo possa essere solo una semplice allucinazione provocata dalla terribile caduta nel vuoto, ma il vivido orrore che mi pervade durante la notte quando sogno non lascia adito a supposizioni simili.
Tutto è stato reale.
Penso sempre a quando queste creature emergeranno dai ghiacci e cercheranno altre prede, non sazie di quanto trovato negli abissi. Le loro mani squamose e viscide che ghermiscono bambini e donne incinte trucidandoli e cibandosi della loro carne; queste stesse creature il cui gusto sfrenato per l’orrore sembra essere senza limite, godendo alle urla di terrore e di paura emesse dagli altri esseri viventi.
La mia fine è ormai giunta, l’ora è scoccata.
Mentre m’avvicino alla finestra odo ancora in lontananza, seppur attutite dalla morfina, le grida di terrore dei miei colleghi.
Che Dio maledica quell’orrenda creatura, così come viene maledetta ogni persona che ne viene in contatto.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: Belzeboozo