Era
stata un’idea di John, naturalmente. Idee all’apparenza innocue, dai risultati
ben più impraticabili e tendenti al disastroso, erano senza eccezione frutto di
una mente predisposta a pensare limitatamente, a guardare in una sola
direzione: la più probabile.
Anche
quell’anno John aveva organizzato uno di quegli sciocchi party di Natale, coadiuvato
nei suoi sforzi dalla sollecitudine di Mrs. Hudson, sempre disposta a dare una
mano ai suoi ragazzi e dal senso
pratico di Mary.
Nello
sfaccendare logistico dei tre, Sherlock aveva subito trovato di che ridire, prima
di tutto nei suoi esperimenti che era stato costretto a lasciare incompiuti per
permettere il riassetto della cucina. Non che ce ne fosse bisogno, ma qualcuno
gli aveva forse dato ascolto? Certo che no!
Con
un diavolo per capello e masticando il beccuccio della pipa che Mary gli aveva
fatto trovare in uno sprazzo d’umorismo – non che fossero sporadici nel loro
manifestarsi - la settimana precedente sulla mensola del camino, Sherlock si
dispose di traverso sul divano, osservando con occhi funebri gli strati di
polvere che venivano sbatacchiati via dalle scansie e dai ripiani dei mobiletti,
il ghigno di Billy che riacquistava parte del suo macabro smalto dopo essere
stato lucidato a dovere.
Dieci cose che (non) sai.
Sherlock
si era rassegnato alla prospettiva di avere ospiti in casa propria, si era
perfino rassegnato al diventare anfitrione di uno sgradito intrattenimento in
un giorno che continuava ad essere privo di alcun significato celebrativo per
lui.
Si
era rassegnato perché, anche se non l’avrebbe mai ammesso, gli era mancato
tutto quello. Per due anni aveva guardato al passato, lottando nell’orizzonte
del presente e nel frattempo aveva pensato soltanto alla maniera più rapida per
tornare a casa - non ad una che fosse
indolore, ma che fosse la più veloce.
Ora
che era tornato, non riusciva ad osservare con gli stessi occhi di una volta
quanto lo circondava: il cicaleccio inesauribile di Mrs. Hudson, il repertorio
pressoché illimitato di storielle sconce di Garret Lestrade, il rossore soffuso
sulle guance di Molly Hooper al suo quarto bicchiere di vino e più di tutti John
Watson. John che distribuiva cocktail con l’espressione di chi non abbia un
pensiero al mondo, di chi abbia toccato il fondo e ne sia uscito immacolato.
Mary
gli si affiancò, offrendogli un bicchiere panciuto, riempito con due dita di
scotch liscio, senza aggiunta di ghiaccio o acqua.
Sherlock
accettò e le rivolse un cenno, continuando ad osservare il quadro familiare
della stanza affollata dal riflesso dello specchio.
Lui
e Mary erano dirimpetto al camino, di spalle e un poco discosti dagli altri
che, se pure lo avevano notato, non sembravano farsene cruccio, quasi fosse
qualcosa di naturale.
Con
uno sguardo penetrante dedusse per l’ennesima volta la donna che gli stava
accanto, apparendo del tutto a proprio agio in sua presenza e annuì tra sé,
approvando quel che altri ‘vedevano’, ma non ‘osservavano’.
Mary
intrecciò le mani dietro la schiena e si sporse in avanti. “Un penny per i tuoi
pensieri.”
Sherlock
avrebbe sbuffato, invece inarcò un sopracciglio, accostando di nuovo il
bicchiere alle labbra. “I miei pensieri non valgono così poco.”
Mary
scoppiò a ridere e Sherlock si ritrovò a sorriderle di rimando. Si voltarono e
gli sguardi di entrambi, come richiamati, si spostarono per incrociare quelli
di John che fece una smorfia ridicola e mimò con due dita un ‘vi tengo
d’occhio’.
“Idiota,”
dichiararono simultaneamente e celebrarono la verità inconfutabile del loro
giudizio con un brindisi.
“Ma
un idiota che amiamo,” aggiunse Mary e Sherlock non avrebbe potuto essere più
d’accordo.
*
“Quest’anno
abbiamo organizzato qualcosa di diverso dal solito,” annunciò John, prendendo
Mary per mano. “Una caccia al non-detective che è in noi.”
Sherlock
fece una smorfia eloquente e Mary gli strizzò l’occhio.
A
Lestrade andò di traverso quello che stava bevendo e si limitò a fissare John
come se gli fossero spuntati zoccoli e coda. “Ho capito bene?”
“Perché
non lasciamo che John ci spieghi, prima?” intervenne Molly. Era seduta sul
divanetto, Mrs. Hudson a un fianco e il suo ragazzo/fidanzato sull’altro. Alla
sua sinistra - Tom? - Tom annuì
energicamente.
“Le
regole sono semplici.” John rivolse un sorriso grato a Molly e prese il
cappello a cilindro che Mary gli stava porgendo. “Ognuno di noi pesca un
biglietto su cui sono scritti i nomi dei presenti e deve scrivere dieci cose
che sa di quella persona. Non che ha dedotto,” lanciò un’occhiata
inequivocabile nella sua direzione e Sherlock roteò gli occhi, “ma di cui è a
conoscenza perché gli sono state raccontate.” Raddrizzò le spalle e tirò su col
naso, una cattiva abitudine che denotava nervosismo, quindi fece vagare lo
sguardo sui presenti, strofinandosi la fronte. Si schiarì la voce. “Sono
trascorsi due anni e be’, non sono stati
esattamente i migliori della mia vita. Scusa, tesoro,” John si rivolse a Mary. “Non
esattamente i migliori della mia vita quindi, ma neppure i peggiori e questo
per valide e ottime ragioni. Una
valida e ottima ragione, in effetti. Sono trascorsi due anni nei quali ci siamo
allontanati e inevitabilmente persi di vista e se ora ci ritroviamo di nuovo qui,
è in onore dei bei vecchi tempi, oltre che grazie al colossale idiota in mezzo a noi. Credo
che sappiamo tutti a chi mi riferisco, sì, Sherlock, parlo di te, grazie.
Perciò ci tengo soltanto a farvi sapere che rinunciare a tutti voi è stato
come perdere una famiglia e anche se due anni sono poca cosa rispetto al tempo
che ci rimane da trascorrere insieme, di sicuro non sono
bastati a renderci degli estranei e questo è lo scopo del gioco.”
“Oh,
John!” Mrs. Hudson si asciugò gli occhi con uno dei fazzoletti di carta che
avevano guarnito i vassoi degli stuzzichini.
“Mi
sembra un’idea deliziosa,” convenne Molly, passandole un braccio dietro le
spalle e i suoi occhi, brillanti e non lucidi come ci si sarebbe aspettati
dall’empatica Molly Hooper, incrociarono per un attimo quelli di Sherlock. Lei
non abbassò i propri e lo scrutò senza la soggezione e il timore che avevano contraddistinto in
ampia parte i primi anni della loro conoscenza. Gli sorrise e non c’era traccia di
imbarazzo nei suoi modi, solo trasparente dolcezza e calore.
Probabilmente
parte del disagio che lui provò dovette evincere dalla sua espressione, perché
il sorriso di Molly si incrinò agli angoli e lei aggrottò le sopracciglia,
confusa.
Nello
stesso momento, Lestrade levò il bicchiere in alto. “Che altro dire, allora? Ai
vecchi tempi!”
Lo
imitarono tutti, Sherlock distolse con un attimo di ritardo lo sguardo dal
volto radioso di Molly.
*
C’era
un timer e una porzione del suo cervello, quella che stava contando i secondi
rimanenti, gli comunicò l’approssimarsi della scadenza.
Sherlock
non se ne curò. Fissò il foglietto che aveva pescato e il nome che vi era
scritto.
Molly
Hooper
Dieci
cose su Molly Hooper da scrivere sul retro, informazioni ottenute non per averle
dedotte, ma perché doveva essere stata lei stessa a raccontargliele.
Non
avrebbe dovuto risultargli difficile, posto che non le avesse buttate durante
una delle numerose incursioni di pulizia capitanate da Mrs. Hudson.
Sherlock
si concentrò.
Cosa
sapeva, lui, di Molly? Molly, Molly Hooper, la sua patologa di fiducia, il suo
accesso facile ai laboratori del Bart’s. Aveva un gatto di nome Toby, un
randagio che aveva adottato alla Casa del Cane. Era orfana di madre dall’età di
undici anni e di padre dai ventidue.
La
più giovane specializzanda dell’ospedale, durante il suo tirocinio; l’unica
donna del dipartimento di patologia; la sola tra gli addetti che non avesse
reagito ai suoi commenti sprezzanti trincerandosi dietro una riserbata nota di
biasimo o le definizioni superficiali del caso. Disprezza ciò che è diverso da te, bandiscilo e mettilo all’angolo.
Non
Molly, non Lestrade, non John. Non loro.
Sherlock
si era aspettato il vuoto o al massimo mensole riempite per metà, non la
caterva di informazioni che trovò a portata di mano, una pioggia di ricordi che
gli piombarono addosso con la caducità della neve appena caduta e già sul punto
di trasformarsi in acquerugiola.
La
quantità di informazioni lo sconvolse, tuttavia non quanto la loro sfarzosa inutilità.
Una
scelta, due possibili binari da percorrere. Sherlock odiava abbandonare
un’opera in itinere e ancora di più i compromessi. Quelli li lasciava
volentieri agli indecisi. Da scartarsi non-scelte, dunque, o scelte a metà.
Su
un binario, quello bianco e candido come il sorriso luminoso che Molly gli
avrebbe rivolto, lui avrebbe dovuto riempire il retro del foglietto, facendo
facilmente appello ai ricordi che non aveva
eliminato dalla sua memoria, tanto meno estirpato alla maniera in cui si
sradicano le erbacce.
Le
conseguenze, in quel caso, quali sarebbero state?
Perfino
a lui non era dato saperlo, soltanto scoprirlo, nel caso in cui avesse scelto
quella strada.
Sherlock
la scartò, al bianco aveva da sempre preferito sfumature meno chiare.
Si
avviò con passo sicuro sull’altro binario, il secondo tracciato per lui dalla
propria mente e colorato appositamente di un nero carbone.
Se
provò rimorso, nel compiere quella scelta, stabilì di rimandarlo a dopo, ad un momento
in cui l’appartamento si sarebbe liberato del coro di voci che lo riempiva.
*
Arrivò
il suo turno e Sherlock porse a John il biglietto con un gesto da
prestigiatore, tenendolo tra l’indice e il medio.
John
lo prese e lo voltò e l’espressione sul suo volto si rabbuiò un attimo in una
di esplicito rimprovero, un acciglio rapido a dileguarsi dalla sua fronte,
prima che si sforzasse in una risata obbligata. “Vuoto,” comunicò agli altri e in
fretta nascose loro la vista del nome scarabocchiato sul davanti.
Gesto
inutile, pensò Sherlock annoiato, dal momento che il semplice conto finale
avrebbe portato all’esclusione diretta del fortunato che gli era capitato in
sorte.
John
passò oltre e cominciò a leggere il successivo.
Gerry
Lestrade gli diede una pacca sulla schiena. “Non è facile come sembra, vero?
Non quando non puoi ricorrere a quel tuo cervello iperbolico!”
Sherlock
piegò la bocca all’ingiù, fingendo di fremere per il fastidio e si mosse verso
la finestra.
Era
quello che ci aspettava da lui, in fondo e quelle aspettative, per una volta,
gli pesarono sulle spalle come non erano mai riuscite a fare in precedenza, provocandogli
un dolore nuovo e più acuminato, uno che spingeva poco alla volta con una
pressione persistente, ma senza oltrepassare la soglia di male tollerabile e
trasformarsi in qualcosa di lancinante.
Si
sforzò di non notare lo sguardo di Molly che lo seguiva né il modo pensieroso in
cui, mentre lo fissava, si sfiorasse il labbro inferiore col dito.
Finse
di non accorgersi delle onde morbide in cui lei aveva acconciato i capelli e
che le ricadevano graziosamente sulle spalle, della catenella dorata che
portava al collo e che scompariva nella curva del seno, nascosta dal
maglioncino d’angora che indossava. Il verde le donava, così come la semplice
eleganza del vestito che portava al di sotto e il trucco naturale che le
ammorbidiva la linea delle labbra sottili e le ingigantiva lo sguardo.
Oh, di certo era assurdo. Eppure rappresentava
l’unica opzione sensata. Aveva assurdamente senso e lui avrebbe già dovuto
capirlo mesi orsono, nell’immediatezza del suo ritorno, quando lei gli aveva fatto da assistente.
Stava
nevicando fuori e sulla strada il vento faceva compiere alla neve già
depositata volteggi degni di un contorsionista.
Aveva
nevicato anche quel giorno, ricordò.
Osservò
la neve e pensò a cosa sarebbe successo se invece di incamminarsi, allora, lui
si fosse voltato.
“Sei
stato molto scortese stasera.”
Dopo
aver assistito ai riti della buonanotte senza avventurarsi a prendervi parte,
Sherlock aveva impugnato il violino e aveva ripercorso mentalmente le note
dell’orchestra di Praga ad accompagnarlo nel suo concerto.
Tra
la fine del primo movimento e poco prima che attaccasse il secondo, John era
piombato a sedere sulla sua poltrona. Mary, invece, in un permesso che Sherlock
non le aveva mai concesso, non a parole quanto nei fatti, si lasciò cadere
nella propria.
John
li squadrava e qualcosa, nel comportamento di entrambi, sembrava aver provocato
la sua disapprovazione.
Sherlock
sospirò, spense il suono dell’oboe e lo mise in pausa. “Non capisco a cosa ti
stai riferendo.”
Mary
risollevò la testa per rivolgergli l’ombra di un sorriso smaliziato. “Nel
dettaglio?”
“Voi
due,” John indicò le loro teste come se non sapesse cosa volesse farci, se
sbatterle una contro l’altra o aprirle e vederne il contenuto, “tra voi due non
so chi sia il peggiore, dico davvero.”
“Pensavo
di essere io la tua preferita,” replicò Mary.
“Arrivi
con quattro anni di ritardo,” la avvertì Sherlock.
“Ah,
ci rinuncio,” disse John, “è come avere a che fare con due bambini.”
Una
pausa che si protrasse abbastanza a lungo da fargli sperare che la questione
sarebbe stata lasciata cadere, irrisolta. Sfiorò i piroli e il ponticello e
riposizionò il manico del violino contro il collo, flettendolo di conseguenza.
Pizzicò le corde con l’archetto -
“Non
che ti importi o ti interessi saperlo, ma sei stato atroce nei confronti di
Molly.”
-
e produsse un suono stridente.
“Atroce,”
ripeté, atono, rimanendo immobile nella sua posizione. “Atroce, John. Spiegami
in che modo e per quale ragione sarei stato atroce nei riguardi di Molly.”
John
non fu scalfito dai suoi toni né dal suo sorriso sarcastico. Di nuovo quell’acciglio
trovò posto sulla sua fronte. “Un biglietto vuoto, Sherlock, sul serio? Anni
che lavori con Molly Hooper e non sei stato capace di ricordare dieci cose di
lei? Anche cinque o sei sarebbero state sufficienti.”
“Perché?”
John
batté le palpebre, come se fosse sorpreso dalla sua domanda. “Come dici?”
“A
quale scopo?” domandò Sherlock, secco.
“A
quale scopo essere gentili?” ritorse John, alzandosi di scatto e il fastidio,
ora, era diventato acrimonia e rabbia. “A quale scopo mostrare un briciolo di
gentilezza a qualcuno che lo è sempre stato con te, anche quando ti saresti
meritato di essere mandato al diavolo! Ma dimenticavo con chi sto parlando.
Sherlock Holmes, l’uomo che –”
“John,”
lo richiamò a bassa voce Mary, sfiorandogli il braccio. Bastò perché un barlume
di ragione e fredda lucidità ritornasse negli occhi di John.
“John,”
insistette Mary, “è la Vigilia.”
John
non si scansò, ma dopo poco sciolse con delicatezza le dita di lei dalla loro
presa e si avviò verso il basso tavolino per versarsi qualcosa di forte.
Mary
seguì i suoi movimenti e senza girarsi ad osservarlo, disse: “Sherlock, perché
non ci racconti quello che pensi realmente?”
Al
che lui avrebbe potuto dare numerose risposte, tutte dannatamente banali: ‘Non
vedo perché dovrei’, ‘i miei pensieri sono affare mio’, ‘non capireste’.
Invece,
straordinariamente, decise di farlo, di raccontare quello che pensava, quello a
cui aveva pensato per quasi tutta la serata, o perlomeno per una buona fetta di
essa.
Parlò
di Molly Hooper e di tutte le cose che sapeva di lei, piccoli o grandi che
sembrassero, superflue o importanti che fossero, raccontò loro ciò che aveva
scoperto di sapere, che aveva conservato senza che ne fosse stato cosciente,
non fino a quel momento.
Molly Hooper aveva una
predilezione per le cose dolci. Preferiva il vino rosso a quello bianco. Le
piaceva l’odore della colla acrilica e del legno lavorato, delle pareti
ridipinte di fresco. Adorava i film in bianco e in nero e quelli americani del
decennio 50’-60’. Si commuoveva guardando Vacanze Romane e la sua attrice
preferita era Liz Taylor.
Non sapeva andare in
bicicletta perché nessuno le aveva mai insegnato.
Ogni anno, a novembre,
rileggeva il libro preferito di suo padre; era 1984 di Orwell.
Le piacevano le
anticaglie e aveva una collezione di vecchie cartoline di estranei, comprate
sulle bancarelle dei mercati delle pulci. Adorava i cappelli e anche il colore
nero che trovava elegante, ma non indossava mai perché lo associava alla
tristezza e alla perdita. Conservava in una scatola decorata in découpage gioielli
di famiglia ereditati da sua madre; odiava portarli.
Parlò
e parlò, il violino dimenticato e poggiato sul davanzale, l’archetto che
sembrava scivolargli tra le dita scarne allo stesso modo delle sue confessioni.
Ne aveva a centinaia, avrebbe potuto continuare per l’intera nottata e per
quella successiva, impiegare le sue scorte senza completarle. Ad un certo
punto, tuttavia, tacque e il suo silenzio trovò altro silenzio a
scortarlo.
Alla
fine fu Mary a spezzare l’incantesimo. “Oh, Sherlock. Ora è troppo tardi, lo
sai questo, vero?”
Lo
guardò con dolore, quasi fosse suo il rammarico di quello che non era successo,
ma che in un’altra dimensione sarebbe potuto succedere.
Non mi sono accorto di
cosa stessi perdendo finché non l’ho perduto.
“Cosa?
No!” esclamò John, guardandoli con aria sconvolta. “Ma insomma, conquistala! Se
questo è ciò che provi, va’ da Molly e diglielo chiaramente.”
“Per
offrirle cosa, John? La mia vita è il mio lavoro e nel mio lavoro c’è spazio
per la mia patologa, non per Molly Hooper.”
“Queste
sono scuse,” replicò John duramente. “Ti ci aggrappi per non affrontare la
realtà e cioè che hai paura, una fottuta paura del diavolo. Sei dovuto morire
per capirlo, ma pensavo che lo avessi accettato:
tenere a qualcuno non è uno svantaggio. Ti rende migliore. Molly Hooper può
renderti un uomo migliore, Sherlock, potrebbe, se tu glielo lasciassi fare.”
Sherlock
fece un verso di scherno. “Cosa ti fa credere che glielo permetterei?”
“È
il tuo orgoglio a parlare.”
“No,
è tutto ciò in cui credo, a cui ho dedicato la vita a farlo.”
John
scosse la testa e la sua voce era come era stata due anni prima, carica di
qualcosa che era supplica e implorazione e altro impossibile da spiegare. “Non
precluderti questa possibilità.” Non aggiunse: potrebbe essere l’ultima. Non occorreva
farlo e lui capì ugualmente.
Sherlock
si concesse tre secondi.
John
non poteva saperlo, non poteva vederlo né seguirlo in quei tre secondi. E come
avrebbe potuto?
Tre secondi.
Lui
e Molly Hooper e il mondo ai loro piedi. Lui e Molly Hooper, il mondo ai loro
piedi e un cane, una vita a Londra e una in campagna al momento del suo ritiro
dalle consulenze investigative.
Tre secondi.
Sherlock
inspirò a fondo e diede loro le spalle. Riprese il violino. “L’ho già fatto.”
La
sua di voce suonò simile a una sentenza. Irrevocabile.
N/A:
Tutta
la storia nasce da un’idea semplice che io ritengo di non aver reso
adeguatamente né bene o almeno ‘abbastanza bene’. L’idea è appunto quella del
gioco che John ha spiegato.
È
il primo Natale dopo il ritorno di Sherlock (quello che trascorrono a casa dei
suoi genitori è il secondo perché rivedendo la terza stagione si capisce che
tra il primo e il secondo episodio trascorrono sei o sette mesi e tra il primo
e il terzo un anno intero), il primo che tutti loro trascorrono a Baker Street
e John, da uomo sentimentale quale io reputo che sia, decide di organizzare
questo gioco: tu generico peschi un biglietto su cui c’è scritto un nome, poi scrivi
dieci cose che sai di quella persona, ma, ehi, attenzione, deve essere qualcosa
che sai perché è stata quella stessa persona a raccontartelo!
Per
Sherlock sarebbe facile o risulterebbe complicato? Forse entrambi. Io gli ho
reso le cose ancora più ostiche. Non soltanto gli risulterebbe semplice
scrivere dieci cose su Molly Hooper, ma talmente semplice che Sherlock ne
risulta giustamente spiazzato e disorientato e bam!- capisce. Cosa? Che è
troppo tardi. Ha capito che tiene a Molly, questo lo sapeva già da prima, ma
non aveva compreso fino in fondo la portata di quel ‘tenere a lei’. Ora lo ha
capito, ma non intende fare niente perché le ha già detto addio, appena pochi
mesi prima, nella scena che viene mostrata nel primo episodio.
Sono
cattiva e sadica? Ne sono cosciente, ma questo è l’effetto che mi fanno le
feste: malinconia e angst a palate. Spero di scrivere qualcosa di più allegro
prossimamente e che questa storiella, nel frattempo, sia stata un passatempo
passabile. Bacioni :)