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Autore: ToraStrife    05/01/2015    2 recensioni
Una bambola rotta e un robot obsoleto, giocattoli abbandonati in una gelida soffitta.
Cos'é il calore? E' vita? E' ciò che ci fa muovere?
Come lo avvertiamo? Proviene da noi?
O possiamo avvertirlo tenendoci stretti nelle braccia di qualcuno?
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Warm Inside.
Warm Inside
Il calore di un abbraccio



L'intera soffitta appariva immobile, nel buio impenetrabile.
Poi la luna decise di uscire dal suo nascondiglio di nuvole, complice il forte vento di quella notte glaciale.
Aveva smesso di nevicare da poco, e le colonnine di mercurio all'esterno stavano registrando un pauroso calo di temperatura.
Un bizzarro fischio faceva capolino dai lucernari chiusi, i vetri sferzati senza pietà dall'aria invernale.
Beth indugiò lo sguardo sullo spettacolo del satellite nel cielo, poi lo distolse per esplorare le vicinanze, finalmente rese visibili dalla tenue luce notturna.
Gli occhi vitrei fissavano la desolazione dell'impolverato pavimento in cemento.
Una vecchia bicicletta era appoggiata sulla parete di mattoni, accompagnata da una seggiola sgangherata, una valigia aperta e vuota, e altre cianfrusaglie di poco conto.
La bocca socchiusa, immobile, tentò di proferire qualche parola, invano.
Un improvviso torpore sembrava averla presa, da quando aveva tentato più volte di chiamare la sua migliore amica.
Avrebbe voluto scandire ancora il suo nome, ma lo aveva fatto così tante volte che il suono di quella parola, solitario, le era venuto a noia alle orecchie.
Avevano il suono della solitudine, dell'abbandono.
Se avesse potuto piangere, lo avrebbe fatto.
Il problema è che non ne era capace.
Non era così perfetta, anche se alla sua migliore amica mai era importato. O forse. alla fine, sì?
Dopotutto, la sua migliore amica era cresciuta, mentre lei era rimasta sempre uguale. Un'amicizia che con il tempo non avrebbe mai potuto durare.
Ed infatti, alla fine, fu portata lì.
Durante il trasporto, non l'aveva mai neppure guardata negli occhi, ma quello era il meno.
Il loro rapporto si era inaridito con il tempo.
Era normale, si era detta. Certo, un po' triste, considerato che una volta loro due erano inseparabili.
A pranzo, in giro, in camera a giocare. Persino a letto.
Lo poteva ancora avvertire, il calore di quel corpo. Il cuore pulsante che batteva ritmicamente.
Agli inizi, Beth non aveva una chiara percezione del mondo.
Non sapeva neppure di esistere. Fu come nascere, respirare, svegliarsi abbracciati a qualcuno che ti vuole bene. Come una manna.
Non esiste calore più grande.
Alzò meccanicamente un braccio, poi lo riabbassò.
Avvertì con la schiena lo scatolone sul quale era stata appoggiata, seduta con le gambe distese.
Si era stufata di quella posizione.
Mise le mani sul pavimento, rannicchiò gli arti inferiori e provò a darsi una spinta. Scivolò con la schiena sul cartone, e tornò con il bacino a terra.
Si rovesciò allora su un fianco, e poi carponi.
Stette un attimo così.
Era la prima volta, in effetti, che provava a mettersi in piedi. Non aveva mai neppure camminato.
Non che ne avesse mai avuto bisogno: c'era la sua migliore amica a prenderla in braccio e muoverla. Era un gioco che le piaceva.
Ma dal momento che era stata abbandonata, avrebbe dovuto cavarsela da sola.
Quando si sentì pronta, si alzò di  scatto e... fallì.
Era stato solo microsecondo, ce l'aveva fatta, era in piedi, eppure subito dopo l'equilibrio le era mancato, sentì il mondo ruotarle attorno e farsi sottosopra.
Cos'era andato storto?
Esplorò il suo corpo per capire. Poi, con sgomento, la vide.
La sua caviglia destra mancava. Al suo posto, solo un moncherino frantumato.
Beth scoprì così il motivo per il quale non poteva mettersi in piedi.
E, con dolore, apprese anche del probabile motivo per cui era stata relegata in quell'angolo della casa.
Stette per lungo tempo a riflettere sulla sua condizione, il solo sibilo dell'aria di fuori a farle compagnia.
Arrivarono i ricordi, poi la delusione, poi la rabbia, poi la tristezza.
Infine i rimpianti.
Da una parte sperava che quella maledetta botola si aprisse, e la faccia familiare della sua amica facesse capolino, pentita.
L'avrebbe presa in braccio e l'avrebbe portata di sotto. L'avrebbe coccolata come faceva da piccola.
In realtà, le sarebbe bastato anche rimanere sul vecchio scaffale della camera da letto, dove stava immobile giorno e notte.
Sospirò.
Chi voleva ingannare? Quel battente non si sarebbe mai aperto.
A dire il vero, quella della soffitta era solo una formalità: era già stata dimenticata da mesi, anni.
Ma non le importava, in fondo. Anche se, ignorata, guardava l'amica solo più pochi attimi diurni e il suo regolare sonno notturno dal fondo di un angolo, Beth era felice.
L'alzarsi e abbassarsi ritmico del suo respiro, il grosso corpo che cambiava posizione più volte durante il sonno.
Lei ormai era solo più spettatrice, ma si sentiva sempre parte della sua vita.
Così invece, era stato troppo freddo e crudele.
Un addio forzato.
Un grosso groppo cominciò a insidiarsi in gola, e il magone le riempì gli occhi di... nulla.
Erano lacrime immaginarie: lei non poteva piangere. Neanche sorridere.
Ma il dolore lo sentiva tutto, ogni singola stilla. Ogni singola punta che le graffiava l'anima.
Mise le mani sugli occhi, stropicciandoli.
Le palpebre, meccanicamente, si aprivano e chiudevano.
Si accorse di star singhiozzando e piagnucolando.
Infantili lamenti le uscivano dalla bocca, pronunciando ogni tanto il nome della sua vecchia compagna.
Era una scena patetica, piangere senza lacrime. Dopotutto, neppure respirava. Si sentiva ridicola.
Chissà cosa avrebbe detto, se qualcuno l'avrebbe vista in quel momento.
Ma dal momento che non c'era nessuno, continuò la sua sceneggiata.
Poi un brivido interruppe l'esecuzione, percorrendola per tutto il corpo.
Abbassò le mani e se portò sulle braccia, stringendosi in un abbraccio solitario.
Stava cominciando a far davvero freddo.
Quanto era calata la temperatura?
Si rannicchiò, avvicinando le ginocchia al corpo.
Un nuovo brivido la pervase, il corpo si mosse involontario.
Aprì le braccia per accogliere le ginocchia al petto e richiuse la stretta.
Non avendo neppure del sangue caldo in corpo, la sensazione di freddo era ancora più pungente.
Forti tremori cominciarono a pervaderla, la mandibola cominciò a fremere per conto suo.
Cercò di farsi piccola piccola. Provò a concentrarsi su quel piccolo calore interno che avvertiva.
Era il calore che gli aveva trasmesso la sua amica, nelle innumerevoli volte che l'aveva stretta tra le braccia.
Era forse il calore dal quale era nata la sua coscienza, le percezioni, la vita che sentiva nel suo corpo di plastica.
I ricordi del passato cominciarono ad arrivare, e con essi un candido tepore, una gradevole sensazione di affetto.
Stette così per non si sa quanto tempo, cullandosi.
Poi, un piccolo sibilo la destò.
Alzò la testa come una tartaruga dal guscio, guardandosi attorno.
La solita soffitta. Il familiare fischio del vento.
Forse aveva sognato, per quanto lei potesse sognare.
Rimise la testa vicino alle ginocchia, in cerca di calore.
Questa volta le orecchie sentirono distintamente il sibilo artificiale, ben diverso da quello del vento.
L'insolito rumore era cominciato e stava continuando, alzandosi di tonalità, fino ad affievolirsi.
Beth si mantenne immobile. Lo sguardo, intanto, indagava, da sopra le ginocchia.
Quindi non era sola?
Il sibilo si ripetette, poi un lieve rumore meccanico ripetuto cominciò una bizzarra sinfonia. Si udirono dei passi, lenti, ma costanti.
I colpi sul pavimento era duri e pesanti: i tonfi sembravano quasi voler sfondare il cemento. Si ripetettero con ciclicità regolare ed inesorabile, divenendo ad ogni colpo sempre più forti.
Un ronzio si accompagnava ad essi, insieme ad alcuni rumori meccanici.
Poi Beth lo vide, e trasalì: era l'essere più bizzarro che avesse mai visto.

L'aspetto era indubbiamente umanoide, con due braccia e due gambe.
Ma il corpo sembrava uno scatolone di metallo a cui erano stati attaccati degli arti di plastica.
I movimenti erano a scatti, senza un minimo di fluidità. Ogni singolo movimento era sottolineato da un rumore elettronico ed intervallato da una pausa di silenzio, rotta solo dal tonfo del piede poggiato a terra.
Non aveva i lineamenti armoniosi e graziosi di lei o della sua migliore amica.
Certo, lei non poteva sorridere, piangere, cantare, saltare o correre come riusciva a fare la sua amica, e con  la gamba rotta non poteva neppure alzarsi e danzare.
Danzare. Quanto avrebbe voluto farlo.

Un 'beep' attirò la sua attenzione.
Si accorse che l'essere era lì, davanti a lei, si era fermato ed ora la stava osservando.
Rabbrividì notando la fredda telecamera che aveva al posto del volto, un oblò nero e lucido che rifletteva la sua immagine, distorcendola come un occhio di pesce.
L'occhio solitario la stava fissando, squadrando l'obiettivo.
La luce della spia era di un verde intenso, e appena la mise a fuoco cominciò a lampeggiare.

- S...Salve? - Mormorò.

L'essere non disse nulla, ma allungò un arto verso di lei, e una tenaglia sfiorò il suo braccio sinistro.
Istintivamente lei si ritrasse, spaventata. L'umanoide abbassò l'estremità e continuò a squadrarla.

- Chi sei? - Domandò lei. - Che cosa vuoi?

- Bambola.

Una voce metallica, atona, con un timbro che ricordava vagamente il brusio di un insetto, le aveva appena risposto.

- Tu parli? - Chiese, incuriosita.

- 'Parli.', 'Parlare': articolare tramite suoni la capacità di comunicare tramite linguaggio vocale.

Il fiume di parole disorientò la poverina, che non aveva capito una parola.

- Prego?

Bob parla. - Spiegò il bizzarro essere.

- Come fai a parlare senza una bocca?

- 'Bocca': cavità rivestita di mucosa, che nell'uomo e negli animali...

Beth lo fermò con un gesto della mano.

- Insomma, hai una bocca o no?

- Bob non ha bocca. - Rispose l'umanoide. - Bob articola suoni con altoparlante, microfono e microchip.

- Microchip? - Esclamò Beth, qualsiasi timore si era ormai dissipato per tramutarsi in meraviglia. - Sei un robot?

- Automa androide modello B.O.B. versione due punto zero, matricola tre, sette, uno...

- Va bene, va bene. - Lo fermò di nuovo lei con un cenno della mano. - Quindi ti chiami Bob?

- Così il padroncino chiama Bob.

- Un padroncino? - Probabilmente, concluse Beth, lo strano essere si stava riferendo al fratello maggiore della sua migliore amica. Un ragazzaccio senza grazia a cui lei non aveva mai prestato particolare attenzione. Dopotutto, non avrebbe mai potuto essere altrimenti: lei era sempre stata confinata nella cameretta della sua migliore amica.

- E tu perché sei qui?

- Bob modello obsoleto. Sostituito.

- Oh! - Gemette Beth, sconvolta. Si pentì di aver fatto una domanda tanto ovvia e inopportuna.
Era un compagno di sventure, a quanto pareva. Un po' bizzarro. Ma si stavano trovando nella stessa situazione.

- Bambola. - Ripeté Bob.

- Che rozzo. - Reagì lei. - Sono parole da dire ad una signorina? Oh! - Gemette di nuovo, di imbarazzo. Stava predicando di educazione, ma si era accorta di non essersi presentata.

- Il mio nome è Beth. Piacere di conoscerti. - Tentò di alzarsi per improvvisare un inchino, come si sarebbe convenuto ad una gentil dama, ma il problema alla gamba la fece desistere.

- Bambola modello 'Henrietta', anni di produzione millenovecentottantasette...

- Ma insomma! - Lo interruppe Beth, risentita dalla cruda definizione enciclopedica di quel libro stampato. - Ti ho detto che mi chiamo Beth! E' il nome che mi ha dato la mia migliore amica! E poi non è carino dire l'anno di nascita di una signorina.

Beth accigliò l'espressione per cercare di sembrare offesa, ottenendo solo un curioso silenzio da parte di Bob.

- Bob non comprende. Beth è una bambola. Perché non è carino dire la verità?

- Quanto si vede che sei un robot. Non sai proprio parlare alle donne.

Un nuovo brivido di freddo indicò a Beth che la temperatura stava calando ancora.
Il vento aveva preso a fischiare più forte, i vetri avevano cominciato a tremare.
Solo il ronzio di fondo di Bob contrastava il rumore.

- Tu non hai freddo? - Le chiese Beth.

Bob stette per qualche secondo ad osservarla.
La bambola che affermava di chiamarsi Beth se ne stava in un angolo, rannicchiata e tremante.
Le giunture di braccia e gambe quasi scricchiolavano per la vibrazione, mentre le mani stropicciavano il leggero vestito di seta azzurra stretta in vita da un nastro a strisce bianche.
La gonna terminava con dei merletti fino al ginocchio, e le spalline a sbuffo lasciavano scoperta la nuda plastica delle braccia.
Vista la temperatura, per un essere vivente sarebbe stato definito un abito troppo leggero, estivo.
Ma Bob non comprendeva il significato della parola 'freddo', men che meno come questa si potesse applicare ad un pupazzo. Conosceva il significato del termine, certo, ma determinate percezioni sarebbero state possibili solo tramite un sensore ed un indicatore di temperatura, cose che lui non possedeva.

- Cos'è...'freddo'? - Le chiese, cercando di capire.

Lei lo guardò, strabuzzando gli occhi. I riccioli biondi le cascavano sulle spalle, irrequieti.

- Come faccio a spiegartelo? - Sbottò. - E'... una brutta sensazione. Ti punge, anzi, ti trafigge. E ti attanaglia. Tutto si blocca.

- Beth ha freddo?

- Molto!

La voce cominciò a tremarle.

- Beth è fredda?

L'automa allungò un braccio, incuriosito. Le tenaglie sfiorarono la pelle di plastica del braccio, poi, non soddisfatte, si chiusero sull'arto.

- Ehy! - Protestò lei.

Bob si arrestò, cercando di non far ulteriore pressione. Poteva avvertire la fragilità della plastica, rispetto alla sua forza motrice. C'era una buona possibilità di stritolarglielo, se avesse esagerato.
Il tocco non trasmetteva alcun dato all'automa. Solo duro materiale sintetico.
Si avvicinò, allungando l'altro arto, facendo lo stesso.
Adesso entrambe le tenaglie erano strette sugli avambracci
Con un piccolo rumore i servomotori si misero in funzione, e le braccia si alzarono con un movimento lento e meccanico, e Beth venne sollevata senza fatica.
L'automa si rimise in posizione eretta, tra le proteste di Beth.
Quel rozzo ammasso di ferro non sapeva davvero cosa fosse la delicatezza.
La bambola avvertì quello strano tocco con un brivido. L'aveva non solo sfiorata, ma afferrata rudemente.
Si sentiva a disagio, tenuta forzatamente in piedi da una macchina.
Gli occhi di lei sfiorarono l'obiettivo della telecamera.
Quella luce color smeraldo stava lampeggiando.
Beth distolse lo sguardo, non sapeva dir per certo se fosse per timore od imbarazzo.

- Per quanto hai ancora intenzione di tenermi così? - Protestò infine.

Come a rispondere alla lamentela, Bob aprì le tenaglie, e Beth si ritrovò libera, in equilibrio su un piede solo.
Subito oscillò, e si ritrovò costretta ad agitare le braccia in cerca di un appiglio.
Con un urlo soffocato, si avvinghiò al collo del robot.

- Che modi! - Si lamentò. - Volevi farmi cadere?

- Beth ha chiesto di essere lasciata andare.

- Ma non così! -Sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

Poi si sentì avvampare: stava abbracciando qualcuno. Certo, non somigliava affatto ad un principe azzurro, meno che mai ad un umano. Ma in fondo era il suo primo abbraccio.
Il primo che non fosse della sua migliore amica, inteso.
Si sentiva accaldata: forse era diventata rossa. No, impossibile, si disse. Era pur sempre una bambola.
Scoprì che il calore non era solo un'impressione. Si accorse che il metallo del torso di Bob era tutt'altro che freddo, come si sarebbe aspettata.
Emanava anzi un gradevole tepore, amplificato dalla conducibilità del materiale.
Le sembrò quasi di essere stretta ad un termosifone. L'aria gelida della soffitta le sferzava la schiena, ma davanti si sentiva bollire.

- Sei caldo. - Mormorò. - Ma non sei umano. Come fai?

- Dentro Bob c'è un motore, batterie e circuiti elettrici. Elettricità rende metallo caldo. - Rispose l'automa, con la voce più monotona del mondo.

- Quindi è così che riesci a muoverti. - Commentò lei, serrando le palpebre.

- Beth come si muove?

La bambola riaprì gli occhi e girò la testa verso Bob, dando un'occhiata alla telecamera.
In risposta l'obiettivo la puntò, e fece un giro di novanta gradi per metterla meglio a fuoco.
Beth sentì di nuovo una vampata, e ridistolse lo sguardo.

- Beth calda.

- Che? - Beth tornò a guardarlo sulla telecamera. Si sentì avvampare ancora di più. - Io... calda?

- Percepito calore. Flebile. Ma sembra aumentare. - Tutto questo stupiva  Bob, perché ne metteva in discussione la ferrea logica. Lui non aveva sensori di calore, come riusciva ad avvertirlo? E ancora, come poteva una bambola essere calda? - Beth ha motore?

- No, assolutamente. - Mormorò lei, appoggiandosi una mano sul petto. Non sentiva alcun battito, perché non aveva un cuore.
- Io ho solo rotelle e ingranaggi, non ho fonti di calore.

- Come riesce Beth a muoversi?

Beth premette la mano con insistenza. Con gran sorpresa avvertì un lieve tepore venire dall'interno.
Lo avvertì tenue, delicato. E realizzò.

- Credo che sia il calore che mi ha trasmesso la mia migliore amica.

- Bob non comprende.

- Vita. Il calore è vita. - Provò a spiegare la bambola.

Non riuscì a trovare altre parole per spiegare quell'insieme di emozioni che aleggiavano dentro di lei, che ne acuivano i sensi, che le faceva sentire dei battiti che non poteva produrre.
Era tutto ciò che le aveva trasmesso la sua migliore amica. Forse era ciò che la faceva muovere, emozionarsi, soffrire.

La telecamera del robot continuò a studiarla, curioso.

- Bob, mi faresti un favore, come un gentiluomo?

- Gentiluomo: Uomo di nobile origine. Bob non è uomo.

Beth sbuffò. Eppure lo sembrava, a giudicare dalla pedanteria e dal materialismo che dimostrava. Tipico di tutti i maschietti.

-
Insomma, eseguiresti una mia richiesta?

- Bob esegue.

La voce meccanica aveva dato il suo sintetico consenso. Ma ormai Beth ci stava facendo l'abitudine. Tornò a stringere con entrambe le braccia il collo di Bob.

- Gira su te stesso. Lentamente.

- Bob esegue.

Senza muovere le gambe, l'automa ruotò di netto il busto, compiendo un giro completo, e si fermò con un movimento altrettanto brusco.
La forza centrifuga fu tale che la bambola sarebbe volata via, se non si fosse preventivamente tenuta ben salda.

- Che modi! - Protestò accigliata, mentre il mondo ancora le girava attorno. Poi, con tono più dolce, sussurrò. - Più lentamente. E non ti fermare.

Bob obbedì, assecondando la richiesta scrupolosamente.
Questa volta il movimento soddisfò le intenzioni della damigella.  Che aggiunse solo una richiesta.

- Potresti portare le braccia in modo da cingermi la schiena?

Bob assolutamente non comprendeva le strane richiesta di Beth, ma come da programma, assecondò anche questa richiesta.

- Beth teme di cadere? - Chiese, adducendo all'unica spiegazione logica. Perlomeno sulle braccia. La rotazione gli appariva ancora del tutto priva di significato.

- Chi lo sa? - Cinguettò Beth. In realtà aveva voluto semplicemente soddisfare una richiesta un po' egoista: quella di danzare.
Quale femmina non sognerebbe mai di farlo?
Certo, un Bob galantuomo che le baciasse la mano e l'accompagnasse in un romantico valzer con più grazia sarebbe stato molto più gradito, ma non si poteva avere tutto.
In fondo, era un po' come stare su una giostra, con i cavalli di plastica che andavano su e giù a ritmo di musica.
Una musica che in quel momento era solo il sibilo del vento fuori, ma a Beth non importò molto.
Cullata dal movimento ripetuto, Beth si strinse al calore artificiale trasmesso dalle metalliche paratie del compagno di sventure.

- Sei davvero caldo... - Sussurrò, inebriata dalle sensazioni e dai ricordi che si risvegliavano in lei.
La ninna nanna cantata a lei e alla sua migliore amica, quando era ancora piccola.

Poi, uno schianto interruppe tutto, la danza, la musica immaginaria, i sogni.
Il malefico soffio dell'inverno aveva voluto ricordarle la sua condizione di bambola, sfondando uno dei lucernari.

Una cascata di aria gelida invase la soffitta, travolgendo le cose.
I ricci cominciarono a batterle prepotentemente sulle spalle, mentre Beth si costrinse a socchiudere gli occhi per via della tramontana.

Bob si fermò, avvertendo il pericolo.

- Ripariamoci laggiù! - Urlò Beth, sovrastata dall'ululato del Wendigo incarnato nel vento.
Bob si allontano a grandi e regolari passi trasportando con sé la damigella.

Si erano accucciati in un angolo, tenendosi stretti.
Il generale inverno aveva sferrato un attacco in piena regola a quella soffitta malandata e dimenticata.
Brividi e spasmi stavano cominciando a pervadere il corpo della bambola, che si attaccò come non mai alla scatola che formava il corpo di Bob.
L'automa, invece, subiva passivamente il gelo, come un oggetto inanimato.
Solo nel suo sistema interno l'elettricità vagava incessante all'interno dei circuiti.
Beth cercò di stare il più vicino possibile a quel piccolo calorifero, mentre i denti gelati della tormenta cominciavano ad assiderarla senza pietà.
Cominciò a vedere un velo di brina formarsi alle estremità delle gambe.
Avvertiva a poco a poco un senso di intorpidimento che era cominciato dal moncherino, al quale si aggiunse il piede dall'altra parte, ancora dentro ancora la scarpetta.
E come un cancro, avanzava inesorabilmente.
Il buio stava ingoiando le sue sensazioni. Un nulla di zero assoluto masticava come una tagliola quelle piccole percezioni chiamate vita, quel piccolo pezzetto di anima che le era stata donata dalla sua migliore amica.
Mormorò il suo nome come una preghiera, una, due volte.
Ma sapeva che non sarebbe mai venuta. Ormai era rassegnata. Lei era una cianfrusaglia e un rottame. Forse quello era il suo destino, quindi era inutile cercare di resistere.
Se avesse avuto davvero delle lacrime, le avrebbe piante in quel momento.
Poi, un piccolo sibilo, e un rumore meccanico.
Un arto di Bob l'aveva cinta in modo sgraziato, e l'aveva tirata a sé.

- Bob? - Lo chiamò, incredula. Lui la osservava attraverso quella luce intermittente, indecifrabile.

- Beth ha freddo. - Fu la risposta atona.

Un rumore di ingranaggi si mise in moto nel suo corpo.
Una serie di colpi tuonò nell'incavo, rimbombando attraverso il metallo.
A Beth parve quasi il battito di un cuore che si era risvegliato.
Poi il metallo cominciò a scaldarsi, dalle piccole fessure laterali si levò un filo di fumo.
Il calore interno di Bob prese ad aumentare, come  una piccola stufa.

- Bob riscalda.

I morsi del gelo si allontanarono come per magia, come se un drago avesse sputato fuoco ai mostri di ghiaccio circostanti, come se una supernova avesse scacciato dai dintorni il gelo siderale.

E come un incantesimo, Beth avvertì un accogliente tepore che spazzò via ogni brivido e ogni paura.
Si scoprì sorridere. Non sapeva se fosse solo una sensazione o cosa, ma quei piccoli lembi ai lati della bocca li sentiva tirare.
Guardò con occhi intensi la telecamera, che per la prima volta, non la stava guardando.

- Bob, tu...?

Un orribile dubbio la assalì, e la fece tremare più di qualsiasi morsa glaciale.

- Stai usando le tue batterie...? - Chiese atterrita, sperando di sbagliarsi.

- Bob riscalda. - Ripeté l'automa, con il solito tono atono.

- Ma così morirai!

La frase le era uscita di getto, senza rifletterci su. E la cruda realtà venne ancora una volta rimarcata dal razionale automa.

- Bob non è vivo. Bob non muore.

- Ma comunque ti spegnerai! - Sbottò lei, seccata. Vivo o non vivo, che importanza aveva? Perché lui era così stupido da attaccarsi a certi inutili dettagli? Doveva impedire quella pazzia.
Fece per staccarsi da lui, quando si accorse di un'altra, orribile cosa.

Neppure lei era viva. Era una stupida, inutile bambola. Se ne accorse quando vive parte del suo corpo sciogliersi e fondersi col metallo.
Lei era di plastica. E il calore è nemico della plastica.
Si diede della sciocca.
Se lo ripeté, severa.
Sciocca, sciocca, sciocca!
Aveva temuto così tanto il freddo, aveva ricercato così tanto il calore di qualcuno, da non tenere in considerazione la realtà delle cose.
Ma in fondo, cosa importava ormai?
Si strinse ancora di più a Bob.
Sentì qualcosa di bagnato pizzicargli gli occhi. Forse era solo condensa.

- Beth ha caldo?

Il tono dell'altoparlante si stava affievolendo. Le energie stavano scomparendo.

- Sì, ha tanto caldo. Bob è caldo.

- Anche Beth è calda. - Mormorò l'automa, la voce sempre più sottile.

Beth non disse nulla, ma si strinse ancora di più a quella trappola che stava consumando il corpo.
Lo stava fondendo a quello di Bob.

- Stringimi di più, Bob. - Sussurrò lei, gli occhi serrati e umidi.

L'automa eseguì, facendo attenzione a non stritolarla. Non ebbe troppe difficoltà, dal momento che i servomotori stavano cominciando a faticare per fare qualsivoglia movimento.

E stettero così, entrambi, un groviglio di metallo e plastica, mentre il gelo azzannavva la soffitta ed ogni forma di vita, artificiale e non, la abitasse.




-Bob non capisce - Esclamò lui.

E in effetti non riusciva a capire. La voce distinta, senza quel ronzio. Senza il tono monotono. Riusciva ad avvertire lo stupore dietro quelle parole.
Si guardò, mentre agitava braccia e gambe. Impacciate, ma i movimenti fondamentalmente fluidi.
E una concreta, reale sensazione di caldo.
Bussò al suo petto. I colpi rindondarono nel metallo, affievolendosi alle orecchie.
Ma qualcosa proveniva dall'interno. Lo poteva avvertire distintamente.
Il battito, regolare, di una pompa. Cosa stava scorrendo dentro il suo corpo? Era liquido per batterie?
Si mise una mano sulla faccia, l'obiettivo inquadrò la mano.
Una mano? Dov'era finita la tenaglia?
Guardò anche l'altra. Una mano, cinque estremità che si agitavano coordinate, come quelle di Beth.
Provò a toccare la telecamera.
Appena un dito finì sull'obiettivo, sentì una fitta acuta.

Era questo il dolore?
Scoprì di avere un temporaneo malfunzionamento a una delle telecamere.

Un momento, telecamere?  Ne aveva un'altra?
Si tastò, i sensori sui polpastrelli registravano avidamente sensazioni mai provate prima.
Il contatto morbido con la sua superficie, quello strano colore rosa.
Che cosa era diventato?
Poi vide lei, galleggiare per aria.
Beth, il corpo fluido di un essere che danzava sulle ali del vento. Entrambi i piedi erano intatti. Anche lei era fluida nei movimenti.
Si sentì avvampare.
Uno strano calore mai provato prima.
Un surriscaldamento di sistema? Mentre si premeva con una mano l'obiettivo offeso, l'altro era calamitato dalla danza di lei.
I riccioli volavano con i movimenti rotatori della testa, il corpo snello piroettava in un rituale a cui Bob per la prima volta poté considerare di  aver dato un giudizio.

- Bella.

Gli sfuggì di bocca, il commento spontaneo e non mediato.

Quando Beth si accorse di lui, Bob registrò un cambiamento di colore sul volto della bambola: concluse che probabilmente era lo stesso tipo di surriscaldamento che avvertiva lui.
Ma poteva chiamarla ancora bambola? E lui, poteva ancora chiamarsi robot?

- Bob, sei tu? - Gli domandò lei. La voce era carica di emozioni.
Incredulità e qualcos'altro, che non poté meglio definire. Forse gioia.


- Bob è... - Si sentì ridicolo. - Io sono Bob. - Corresse.

- Niente male. - Commentò lei, provocando un nuovo surriscaldamento a Bob. Sentì la pompa interna aumentare ad un ritmo frenetico. Sì sentì sovraccaricare.

Poi entrambi si guardarono attorno.
La luna era un lume limpido nella notte, nel quale entrambi stavano galleggiando come due spiriti fatati.
Guardarono in lontananza una casa, e la riconobbero come familiare.

- Perché noi siamo qui? - Domandò Bob, il tono ancora impacciato.

- Non saprei risponderti. - Beth, guardò ancora la casa. Poi l'immagine della sua migliore amica le apparve, per svanire immediatamente.
Ebbe un doloroso groppo in gola. Sentì gli occhi umidi.
Appoggiò un dito e raccolse una goccia. Stavolta non era un'impressione.
Alzò la mano, come per salutare. Ebbe la netta sensazione, infatti, che quello fosse un addio.

Anche Bob alzò una mano, un po' dubbioso. Poi la indirizzò verso di Beth.

- Beth vuole ancora girare intorno?

Lei lo guardò, stupita. Poi un sorriso, uno vero, stirò il suo volto.

- Perché no?

Iniziarono un bizzarro walzer alla luce della luna, allontanandosi sempre di più dalla casa, sollevati in un piccolo girotondo con il satellite luminoso come unico testimone.
Il vento gelido dell'inverno, che continuava a soffiare feroce e implacabile, parve non sfiorarli nemmeno.



Quando la botola si aprì, con un rumore sordo, la prima presenza umana entrò nella soffitta, rabbrividendo per la folata gelida che la accolse.
- Che freddo! - Si lamentò la ragazza. - E' da qui che arrivavano gli spifferi!
Poi notò il vetro frantumato del lucernario. - Eccolo.

Dopo aver messo piede nella soffitta, si avvicinò al buco dal quale stava entrando tutta l'aria invernale. Venne fermata da una voce sopraggiunta dalla soglia.

- Sorellina, lascia fare a me. Ti taglieresti.

- Come preferisci. - Soffiò lei in risposta, ben lieta di allontanarsi da quell'emissione raggelante.
Nonostante il sole primaverile che batteva sui vetri, rimaneva decisamente un ambiente inospitale.
Il fratello intanto era sceso per prendere gli attrezzi necessari alla riparazione.
Ne approfittò per camminare, esplorandosi un po' attorno.
Incuriosita, notò una cosa strana nell'angolo opposto.
Si chinò e la studiò. Una forma annerita, sembravano due cose appicciate l'una all'altra. Le afferrò e le sollevò.
Che diavolo era? Poi con un lampo di consapevolezza riconobbe...

- Beth! - Esclamò.

- Chi? - Una voce alle sue spalle.

Si girò: era suo fratello con la cassetta degli attrezzi da una mano, e scopa e paletta dall'altra.

- Questa cosa. - Disse lei, mostrando la grottesca scultura. - Sembra che qualcuno si sia divertito a fondere la mia vecchia bambola insieme a questo coso. Hai giocato con i fiammiferi, ultimamente? - Gli chiese, con un tono vagamente accusatorio.

- Vuoi scherzare? - Obiettò lui. - Sai da quanto tempo non venivo più quaggiù? Almeno sei mesi.

- Dici? - Rimbeccò lei, incerta. - Certamente quando l'avevo portata qui, il mese scorso, non era così.

- Ma guarda. - Ribatté lui, lo sguardo incuriosito, poi sorpreso, verso le figure annerite. - La tua bambola si è fusa con il mio vecchio robottino.

- Quindi tu c'entri qualcosa!

- Te l'ho già detto! - Si difese il fratello, indignato. - Non vengo qui dall'estate scorsa. Lui, poi, sarà un anno che è qui. Non ricordavo neppure d'averlo più.

- E allora chi potrebbe...?

- Ma chi se ne importa! - Sbottò l'altro. - Senti, io riparo la finestra e poi me ne ritorno nel salotto.

La ragazza scosse la testa. Maschi, tutti uguali. Nessuna delicatezza.

- Beth? - Sussurrò, come chiamata da una voce infantile. - Osservò la sua vecchia compagna di giochi, il corpo fuso assieme alle lamiere dell'altro. Vederla in quello stato le fece scendere una lacrima involontaria dall'occhio sinistro. Si asciugò con il braccio.
Che le stava succedendo?
La osservò ancora. Metà del volto consumato in una disgustosa poltiglia, che si fondeva alla telecamera montata sul corpo dell'altro. Sembrava un mostro tecnologico.
L'altra metà, invece, era perfettamente intatta.
Poi notò una strana tiratura sul lembo intatto della bocca di Beth. Era tesa verso l'alto, come un sorriso abbozzato.
Quali stranezze poteva disegnare il calore.

- Sembrano stare bene assieme. - Commentò il fratello, divertito dal morboso interesse che la sorella mostrava.

- Che ne faccio? - Gli domandò, incerta sul da farsi.

- Che ne so? Abbandonalo qui o buttalo.

- D'accordo.

La ragazza avanzò oltrepassando il parente, che stava smontando il vetro dal lucernario.

- Dove lo porti?

- In camera mia.

- Quel coso?

Il tono ilare e nel contempo incredulo del fratello sfiorarono appena l'attenzione della ragazza, che stava già scendendo le scale.


Lo aveva rimesso sullo scaffale, da un mese tenuto vuoto.
L'aveva tolta da lì per la prima volta, ma non era mai riuscita a trovare qualcosa che la soddisfasse per prendere il suo posto.
Aveva tentato con dei libri, ma sembrava pacchiano. Qualche soprammobile, ma niente che la soddisfasse. Anche un peluche di panda, ma stonava decisamente.
Eppure adesso, quella forma grottesca che la spiava da lassù, nonostante avrebbe dato i brividi a chiunque entrasse in camera, le appariva il tassello che da tanto mancava nel mosaico.

Quella sera, nella penombra dell'abat jour a forma di tazza da latte, da sotto le coperte, un ultimo sguardo fu rivolto alla scultura.
Metà Beth, metà robottino di suo fratello. E dire che non ne ricordava neppure l'esistenza.

- E' il tuo ragazzo? - Domandò alla figura inanimata. Poi arrossì. Si sarebbe dovuta aspettare una risposta, a una domanda tanto imbarazzante?

Allungò la mano per raggiungere l'interruttore. Poco prima del click finale, solamente un sussurro.

- Bentornata.

  
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