Buonasera fandom mio
adoratissimo!
Eccomi di ritorno con due personaggi per me
‘inusuali’ ma che adoro
insieme, che spero con tutto il cuore di aver trattato in un modo
quantomeno
accettabile. A voi il giudizio!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura.
S.
Brother of
mine
*
Da grande, Sherlock non
avrebbe desiderato altro che diventare come lui, un giorno.
Glielo aveva detto. Ripetuto,
più di
una volta.
Mycroft non era riuscito a rispondere. Non era riuscito a trovare
niente di valido con cui replicare
alla cosa più
bella che qualcuno gli avesse mai detto.
Non aveva altro sogno, Sherlock, che lo appagasse di più,
nonostante fosse
colmo, il suo cuore, di desideri da realizzare, o ancora da scoprire.
Era diverso, da quello per mamma e
papà. Non era un amore imposto, quello nei confronti di suo
fratello, forse
perché libero da qualunque legame strettamente fisico, come
nei confronti di
chi ti ha dato la vita. Non si era mai sentito obbligato, leggendo
l’amore in
quella bizzarra chiave di lettura, a voler bene a Mycroft
così come gliene
voleva. Semplicemente, si era ritrovato a farlo, senza nemmeno
rendersene
conto.
Gli aveva preso la mano, un giorno. Era cominciata così.
Era Marzo ed era un giorno caldo, luminoso, il primo dopo
l’inverno più rigido
che l’Inghilterra avesse mai visto. Era successo qualcosa in
città, il giorno
prima, perché sua madre e suo padre ne avevano discusso al
mattino, dopo il notiziario
della BBC1. Non ricordava cosa fosse, ma non aveva importanza.
Mycroft aveva storto appena il naso, al contatto. Aveva sussultato,
guardandolo
truce, memore di quella regola non scritta che impone di sfuggire ai
giochi da
bambini, e ai bambini stessi in egual misura, appena varcata la soglia
dell’adolescenza.
Sherlock, dalla sua parte, non lo aveva trovato scoraggiante. Aveva
continuato
a guardare il volto di Mycroft con ammirazione, spostando poi lo
sguardo verso
la strada trafficata dinnanzi a loro, occupata da file di automobili
che
sbuffavano fumo dalle marmitte come il tabacco ardente dalla pipa di
suo padre.
“Mamma mi ha detto che posso passare con te”
Sherlock aveva detto, esitante,
come se comunque non ne fosse del tutto sicuro ma non potesse, come
preda di
uno strano incantesimo, contraddire le istruzioni di sua madre.
“Dice che ormai
sei grande.”
Mycroft aveva sorriso, scuotendo la testa, senza che Sherlock potesse
in alcun
modo scorgere indizio su cosa stesse rimuginando. Era rimasto
così a lungo,
come se nella sua testa stesse avendo luogo una diatriba senza un
vincitore.
Infine, aveva osservato la mano di Sherlock nella sua, come stesse
assistendo
ad una scena bislacca, curiosa, mai vista,
e aveva alzato lo sguardo fino ad incontrare quello di suo fratello,
che ancora
lo fissava, in attesa. Speranzoso.
“Dove vuole andare, allora, mio Signore?” aveva poi
chiesto, stringendo la
manina liscia, delicata, nella propria più adulta.
“Per scortarti dove, dunque,
nostra madre mi ha gentilmente decretato tuo vassallo?”
Sherlock aveva sorriso, emozionato come forse non lo era mai stato.
Aveva
stretto a sua volta la mano di suo fratello per poi immediatamente
volgere lo
sguardo alla strada, di nuovo. Le auto s’erano tramutate,
tutto d’un tratto, in
soldati in elmo ed armatura, con le spade sguainate e gli scudi al
braccio, e
il fumo in nient’altro che l’ombra di terra arida
sollevata dagli speroni di
ferro ai piedi del piccolo esercito. Sarebbe riuscito a infilarci anche
un paio
di pirati, bucanieri impavidi e spietati, se fosse stato meno eccitato,
meno preso, meno impegnato ad
osservare suo
fratello, cucendogli addosso i panni dell’eroe, senza macchia
né paura, in
procinto di portarlo in salvo al di là del campo di
battaglia.
“In libreria, mio Cavaliere” Sherlock aveva
risposto, il sole riflesso negli
occhi azzurri, uguali a quelli di suo fratello, e Mycroft non aveva
potuto far
altro che sorridere di nuovo, in barba alle convenzioni, al diavolo il
disprezzo per certe smancerie imposto ai giovani uomini.
“Molto bene, mio piccolo esigente principe” aveva
sussurrato, con dolcezza non
voluta, semplicemente venuta fuori a zuccherare il suo tono di voce,
poco
avvezzo all’affetto, plasmato per una futura professione che
poco spazio
avrebbe lasciato, ai sentimenti.
“All’avventura!”
Sherlock lo aveva seguito, tenendolo stretto stretto, osservando i musi
lucidi
delle auto –schiacciati, allungati, ammaccati- fermarsi al
passaggio della
figura imponente –seppur perfettamente comune,
agli occhi degli altri- del suo unico fratello maggiore, sterminatore
di
soldati cattivi e soccorritore di anime benevole. Il ticchettio
dell’ombrello -compagno
inseparabile del polso di Mycroft- sulla strada, si era tramutato in un
clangore di lance contro lance, sguainate in sua difesa, per
permettergli di
raggiungere la sua magione sano e salvo; il fruscio del cappotto contro
i suoi
pantaloni, invece, era divenuto all’occorrenza
l’imperversare di una violenta
tempesta di sabbia lungo il loro travagliato cammino.
Posato il primo piede sul marciapiede opposto, Sherlock aveva
strattonato la
mano di Mycroft con forza, come a volerlo strappare il prima possibile
dalla
battaglia ancora in corso, volendo anche lui distinguersi, seppur in
diversa
misura, per un piccolo gesto eroico nei confronti del suo giovane
salvatore.
“Ce l’hai fatta!” aveva gridato, quel
bambino tanto gracile da mostrare appena
i suoi cinque anni. “Mi hai portato dall’altra
parte!”
Non aveva lasciato andare la mano di Mycroft, nemmeno per un minuto. Il
maggiore si era guardato intorno, rosso in viso, e aveva esitato di
nuovo,
cercando in qualche modo di limitare l’entusiasmo del suo
fratellino ma in cuor
suo lieto, quasi orgoglioso in una eco d’infantile
eccitazione, della nuova
identità conferitagli da Sherlock.
Un po’ gli sarebbe mancato, una volta tornato ad Eton, non
averlo più intorno,
nonostante avesse letteralmente ringraziato il Cielo per i momenti di
pace
trascorsi lontano da casa e da quella piccola, ingestibile
calamità su gambe.
“Bene, piccolo scienziato pazzo” aveva replicato,
“Andiamo, prima che il
negozio chiuda.”
Sherlock lo aveva seguito, senza aggiungere niente, come se avesse
compreso
–ingenuo, bambino, ma
sveglio- la
ritrosia di suo fratello nel far mostra dei suoi pregi. Nel
riconoscere,
perfino, la loro esistenza.
Le loro mani erano rimaste legate insieme per tutta la sera, comunque.
A
quello, Mycroft non aveva rinunciato, nonostante tutto, e Sherlock non
glielo
aveva fatto notare, ben felice di non metter fine a quella strana connessione. Si sentiva sicuro,
Sherlock, insieme a lui.
Fin quando sarebbe rimasto con Mycroft, nulla sarebbe mai potuto
succedergli.
Mycroft aveva di meglio da fare, quella sera, che portare Sherlock dal
dottore,
per un raffreddore che sarebbe passato nel giro di qualche giorno con
qualche
tazza di tè caldo e un paio di compresse.
Aveva scarrozzato suo fratello fino al bus, di ritorno dalla visita,
tirandoselo dietro come fosse zavorra, mentre quello cercava di tenere
il
passo, così infagottato che a malapena Mycroft riusciva a
scorgere i suoi
occhi, nell’ingorgo di lana e cotone.
Lo aveva fatto sedere accanto a sé senza spiccicare parola,
tenendo un broncio
inspiegabile che Sherlock non aveva potuto fare a meno di percepire,
conscio di
esserne la causa ma troppo addolorato –anche se mai lo
avrebbe ammesso ad alta
voce, ormai più grande e più forte
del bambino che era stato- per poter difendere la propria innocenza di
fronte
ad un’imposizione di cui era colpevole solo in parte.
Mycroft, il naso schiacciato contro il finestrino e la mano sulla
coscia, aveva
osservato la città scorrere dal finestrino, la mente rivolta
altrove, qualche
strada più avanti, sempre più distante man mano
che il bus s’allontanava.
“Magari potremmo fare in tempo” Sherlock aveva
trovato il coraggio di parlare,
“sono sicuro che non è troppo tardi.”
Mycroft ne aveva dubitato sin dall’inizio.
“Sta zitto, per favore” gli aveva intimato,
stizzito, “tu e lo stupido tempismo
dei tuoi stupidi malanni.”
Sherlock sapeva che avrebbe dovuto trovare la forza di ribattere, da
qualche
parte dentro di sé. Era pienamente consapevole che fosse
abbastanza grande,
intelligente e senza peli sulla lingua per rimettere in riga un
qualsiasi
ragazzo più grande. Peccato che, con suo fratello, le sue
difese alzassero
bandiera bianca, quasi non potesse in alcun modo opporsi a qualsivoglia
sua
decisione o controbattere a ogni suo rimprovero, seppur ingiusto.
“Vedrai che al Club chiuderanno un
occhio,
Mycroft” Sherlock esclamò, facendo sfoggio del suo
lessico migliore, desideroso
di smorzare la tensione tra loro, “non faranno storie, se
dirai di aver avuto
un impegno.”
Lo sguardo che suo fratello gli aveva rivolto appena dopo,
stringendogli la
mano fino a fargli quasi dolere le dita, Sherlock non
l’avrebbe dimenticato
mai, per tutta la vita.
Non avrebbe saputo definirlo, lo Sherlock di allora. Arrabbiato, aveva
pensato
al tempo. Colmo d’odio,
avrebbe
pensato in seguito, crescendo.
“Oh, sicuramente, piccolo sciocco” aveva replicato,
un tono di scherno che
aveva ferito Sherlock più di quanto potesse umanamente
sopportare, “perché
tutto è ancora come nel tuo
mondo,
quando hai sedici anni, Sherlock. Perché basta allungare un
muffin
all’amichetto per dimenticare una scaramuccia, come non fosse
mai accaduta.”
Sherlock era rimasto in silenzio, lasciandosi trasportare fuori dal bus
come
una valigia troppo ingombrante.
“Oh ma dimenticavo, piccolo caro” aggiunse poi
Mycroft, “tu non hai amichetti.”
Sherlock non aveva idea su come avrebbe dovuto sentirsi, al riguardo.
Sinceramente, aveva percepito quell’affermazione come
qualcosa di negativo
soltanto a causa del tono sprezzante e livido di Mycroft. Aveva
abbassato lo
sguardo e continuato nel suo ostinato silenzio, incapace di replicare
ancora,
spaventato dalla possibilità che Mycroft potesse
interpretare la sua premura
come una mancanza completa di senno.
Quando aveva parlato di nuovo, lo aveva fatto con uno scopo ben preciso.
“Lasciami andare” il bambino aveva detto, guardando
suo fratello con aria
decisa, quasi volendo convincerlo con lo sguardo più che con
le parole, “sono
grande abbastanza per un paio di semafori.”
Sherlock non sapeva cosa pensare esattamente, della proposta appena
fatta a suo
fratello. Una parte di sé avrebbe solo voluto liberarlo
dall’evidente peso che
rappresentava, un’altra sperava –più di
quanto volesse ammettere- che
rifiutasse. Quella parte di sé che si rifiutava di vedere
suo fratello per
quello che era diventato, a poco a poco, col passare degli anni.
Mycroft aveva morso appena un labbro, pensieroso. Con ogni
probabilità, anche
nella sua, di testa, era in corso una battaglia all’ultimo
sangue.
Aveva allentato appena la presa, senza però lasciarla.
Sembrava quasi che
avesse bisogno di un segno, per abbandonarla completamente. Un cenno da
Sherlock, o dalla propria coscienza, che gli dicesse che quel che stava
per
fare era la cosa più giusta.
Sherlock non glielo aveva concesso, e probabilmente nemmeno la sua
coscienza,
fatto sta, che lo aveva fatto, infine, quello di cui Sherlock aveva
più paura.
L’aveva lasciato. Sherlock aveva sentito le dita
intirizzirsi, congelarsi pian
piano sotto i fiocchi della prima neve del giorno, ma il piccolo era
stato
consapevole sin dall’inzio che non fosse colpa del gelo.
“Ciao” aveva detto Mycroft, sorridendo a se stesso
ma non a Sherlock, “ci
vediamo più tardi.”
Aveva parlato senza nemmeno guardarlo. Si era allontanato a passo
svelto, senza
nemmeno chiedergli scusa con un cenno del capo. Senza la minima ombra
di colpa sul viso.
Sherlock aveva replicato con un cenno, ma niente più.
Qualcosa sembrò rompersi,
dentro di lui, con lo stesso sonoro crac di un vaso che cade, spargendo
i suoi
cocci in lungo e in largo. Come se non bastasse, gli sembrò
di camminarci
sopra, appena un secondo dopo, avvicinandosi al marciapiede ad un passo
dalla
strada.
Era strano, da sentire. Era un
sentimento sconosciuto che a pelle detestava, che lo faceva star male
più di
ogni altra sensazione sgradevole avesse provato nella sua giovane vita.
Non aveva un nome. Aveva avuto paura anche soltanto a dargliene uno,
perché
tutto sarebbe diventato più reale, ed era l’ultima
cosa di cui sentiva il
bisogno.
Alla fine, però, lo aveva fatto.
L’aveva oltrepassata da solo, quella strada che non era mai
stata, in fondo,
granché pericolosa. Un passo dopo l’altro, era
arrivato dall’altra parte, senza
troppa difficoltà. Senza nemmeno accorgersene, parlando a se
stesso con
sincerità per la prima volta.
Le auto avevano smesso di essere cavalieri in armatura quella sera di
Ottobre.
Il fumo delle marmitte era tornato ad essere fumo e basta, la sera in
cui
Sherlock aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più
desiderato, in vita
sua, di diventare un uomo come Mycroft Holmes.
Da quella sera d’ottobre,
le loro mani non si sfiorarono mai più.
L’uomo nel letto è sveglio, ma non del tutto
vigile.
Mycroft sa benissimo che lo odia, il dormiveglia, perché lo
fa sentire
impotente, indifeso. Vorrebbe aprire gli occhi, al mattino, e saltar su
vigile,
attento, i sensi già all’erta, pronti. Vorrebbe
non dormire affatto, ma ogni
tanto è costretto a cedere, inevitabilmente, alle lusinghe
di un lungo sonno.
“Che ci fai, qui?” Sherlock domanda, con quel tono
di voce secco che riserva
soltanto all’uomo che ha di fronte. “Come sei
entrato?”
Mycroft stringe la presa sul manico del suo ombrello, aprendo e
chiudendo le
dita intorno al bastone arcuato. Sorride appena.
“Oh, fratellino, tu e la tua avversione per le convenzioni
sociali” Mycroft
esclamò con espressione compassionevole, “un
giorno dovrai pur renderti conto
dei vantaggi che comporta suonare
un campanello.”
Sherlock non risponde, limitandosi a distogliere lo sguardo da Mycroft
per
sollevarsi un po’ di più sul letto, le lenzuola
avvolte intorno alle gambe.
“Credevo non esistesse nulla di più irritante che
venir svegliato dall’odioso
fischiettare del proprietario della caffetteria qui sotto”
sussurra, fissando
un punto indefinito della stanza, “mi sbagliavo.”
Mycroft scuote appena la
testa, contrariato.
“Sono stato via per mesi, Sherlock” il fratello
maggiore dice, puntando lo
sguardo nello stesso nulla che sembra affascinare Sherlock
così tanto, “non ho
ricevuto tue notizie, almeno non di tua iniziativa, per tutta la durata
della
mia trasferta. E quando finalmente mi degni di un segno di vita, mi
sento dire
che sei quasi morto. Di nuovo.”
Sherlock sorride, chiudendo gli occhi. Appena un secondo dopo,
finalmente,
fissa lo sguardo in quello di Mycroft.
“Sai bene quanto odi le chiacchiere futili”
risponde, sarcastico, “ho solo
pensato di riprendere i contatti con il mio adorato
fratello riferendogli una notizia che avrebbe gradito di certo. Come
vedi ho
qualche nozione riguardo le convenzioni sociali.”
Mycroft non sorride più. L’occhiata che rivolge a
Sherlock è fredda, dura.
“Hai creduto che avrei trovato gradevole la notizia della tua
quasi dipartita,
Sherlock?” domanda, pur
non avendo davvero bisogno di una risposta. “Quando per tutta
la vita non ho
fatto altro che impedirti di ucciderti?”
Sherlock sbuffa appena,
chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.
“Non certo il più riuscito dei tuoi
compiti” il più giovane sbotta, senza
perdere un grammo della propria ironia.
“Sei ancora qui” Mycroft gli ricorda, stizzito ma
impegnato nel mostrarsi più
calmo possibile, “direi invece che sei il più
riuscito di tutti i miei buoni propositi.”
Sherlock si solleva ancora di più sui gomiti, con sforzo ben
visibile, deciso
però –alla stregua di Mycroft- nel nasconderlo
agli occhi del fratello
maggiore. Mycroft, dal canto suo, non ha bisogno alcuno di vedere il dolore, negli occhi e nelle
membra di Sherlock.
Lo sente, e non riesce a spiegarsi come.
“Non capisco ancora perché tu lo faccia”
Sherlock dice poi, mentre si appoggia
alla testiera del letto con fatica enorme, “non ho nessun
bisogno della tua
costante presenza né della tua commiserazione. Non hai alcun
bisogno di convenzioni sociali, con
me, perché non
potrai mai trarne alcun vantaggio. Nessuna porta aperta, nessun favore,
nessun
tornaconto.”
Mycroft lo guarda senza parlare. Qualcosa lo scuote, dal profondo del
petto, ma
non saprebbe dire esattamente cosa sia, né darle una
sommaria definizione. E’
solo qualcosa.
Invisibile, incorporeo, evanescente.
Scorre via così come è arrivata, ma lascia
qualcosa: una pressione appena
percettibile, sullo sterno.
“Un tornaconto c’è” Mycroft
prova ancora, e non riesce a spiegarsi perché sia
ancora lì a parlarne, dopo essersi accertato che stia bene,
che sia curato,
“posso ancora dire di avere un fratello.”
Sherlock vorrebbe scoppiare a ridere, ma tutto quel che vien fuori
dalla sua
gola è un rantolo rauco, sommesso. Si accontenta.
“Ora comprendo” esordisce nuovamente, il volto in
ombra, “lo fai per il bene
della conversazione. Sono contento
di
essere un argomento in voga nelle chiacchiere da salotto.”
“Smettila.”
“Dammene motivo.”
“Smettila e basta, Sherlock.”
Il silenzio che segue non è voluto, da nessuno dei due.
Semplicemente avanza, e
avvolge le parole, quelle già dette e quelle che verranno.
Costringe entrambi a
combatterlo, come fosse un nemico di
cui entrambi ignoravano l’esistenza fino a quel momento.
Nessuno aveva mai detto loro di temere il silenzio. Soltanto le parole.
Le parole feriscono, Sherlock.
Le parole uccidono, Mycroft.
“Mi interessa la tua vita, Sherlock” Mycroft dice,
a bassa voce, come un
criminale che stremato ammette le sue colpe, “me ne
è sempre importato. Dal giorno
in cui sei nato.”
Il peso sullo sterno si fa maggiore, e sembra sprofondare da qualche
parte, al
suo interno, in un calore che lo avvolge, che brucia.
L’espressione di Sherlock diventa ostile, dura: i suoi tratti
spigolosi si
affilano ancora, come rasoi. Mycroft non sa che pensare, per quella che
crede
sia la prima volta in tutta la sua vita. Non è preparato ma
si impone di
sembrarlo, in quel gioco di apparenze che di concreto non ha nulla.
“Sai qual è l’enorme svantaggio di
mentire continuamente a se stessi?” Sherlock
domanda, già sicuro che Mycroft conosca la risposta.
“Dopo un po’ di tempo, ci si
convince che le bugie sciorinate da mattina a sera siano la
verità.”
Mycroft appoggia l’ombrello contro il materasso e si
avvicina, fino a sfiorare
le lenzuola con le ginocchia. Una mano è sulla coscia, e
stringe il tessuto dei
pantaloni con veemenza. L’altra è chiusa a pugno,
nel punto esatto in cui le
fiamme stanno facendo strage del suo corpo.
“Eravamo bambini, Sherlock” il maggiore esclama, ma
la sua voce non ha il tono
serio e deciso che lo contraddistingue, “non ha mai avuto
importanza, e di
certo non ne ha più alcuna adesso.”
Sherlock solleva appena una mano, ma non riesce a far di più
che tenerla
sospesa per un attimo, stringendola in un pugno, che non solca oltre
l’aria,
cadendo di peso sulla coperta, pressato dalla fatica del movimento.
L’espressione
di Sherlock è spietata.
Mycroft non
trova altro modo per definirla.
“L’essere umano apprende nell’infanzia
ogni nozione utile per quando diventerà
un adulto” Sherlock dice, senza distogliere gli occhi da
quelli di suo
fratello, “è come una spugna gettata in un secchio
d’acqua. Comincia a
delinearsi il suo carattere, i suoi gusti. E più di tutti,
apprende il concetto
di fiducia.”
Mycroft non capisce, ma per lui comprende la creatura che sta
lacerandogli il
petto, scivolando lungo la gola, arrocandogli la voce, stringendo la
presa sul
suo collo come se volesse soffocarlo. Eppure, non è ancora
abbastanza.
“Guardati” il maggiore lo redarguisce, con tono
commiserevole, quello che
Sherlock odia, “l’uomo che ritiene futile una vita
umana, ma fondamentale una mano che
stringe la
propria.”
Sherlock sorride, ma senza allegria a rendere quel gesto più
di un semplice
movimento di labbra e muscoli. Il pugno si allenta. Sembra arrendersi,
e guarda
altrove.
“Hai avuto occasione di stringerne altre, Sherlock”
poi Mycroft aggiunge,
incerto come non lo è mai stato, “e sei stato uno
sciocco a rinunciarvi.
Almeno, fino a John. Hai dimenticato John, Sherlock?”
Il pugno ritorna. Lo stringe così tanto che Mycroft si
aspetta di vedere
goccioline di sangue affiorargli sulla pelle da un momento
all’altro.
“John è soltanto il traguardo, Mycroft.
La ricompensa”
il più giovane
esclama. “Lui cammina con
me. Non ho
mai avuto bisogno di camminare grazie
a lui.”
Mycroft è costretto a reggersi. Il dolore, si fa via via
più insopportabile.
Lui non prova, né sente, né ama. Ha insegnato lui
a Sherlock a non farlo,
dopotutto: è l’esatto motivo per cui si ritrova ad
essere unico imputato in
quel tribunale improvvisato. E’ sciocco, è
impossibile, che sia lui stesso a
tradire la propria dottrina.
“E allora, Sherlock?” risponde, non convinto, le
spalle al muro e nessuna possibilità.
“Il traguardo lo hai
raggiunto. Hai avuto il tuo premio. Che importa come? Che importa con
chi tu
abbia camminato, nel mentre?”
Il sangue scorre, sulle mani di Sherlock. Piccoli rivoli, sottili.
Rossi, poi
rosa, poi un’ombra pallida, poi nulla.
“Importa che io non
l’abbia fatto con
te” Sherlock grida, e gli
fa male, ed
è come una confessione estorta con la forza, con dolore, e
violenza. “Importa
che tu mi abbia lasciato solo, quel giorno, e che tu mi abbia lasciato
solo per
il resto della mia vita. Sei stato a guardare, Mycroft, come fossi un
penoso
spettacolino con cui trastullarsi nei momenti di noia. Non hai fatto
altro che
ripetermi ‘te l’avevo detto’
per
tutta la vita piuttosto che venire a trascinarmi via con la forza,
mostrando
che t’importasse.”
L’uomo più grande si chiede se stia per morire.
Non ha mai sentito tanto dolore
in vita sua.
Torna indietro, Mycroft, perché non riesce a impedirsi di
farlo. Torna indietro
di giorni, mesi, anni. Tutto scorre davanti a lui come un nastro
riavvolto in
un registratore. Come un film difettoso che procede
all’incontrario. Cerca di
capire, di sbrogliare la matassa, di decifrare il codice con cui
Sherlock gli
sta parlando.
Ha sempre avuto sangue freddo da vendere, Mycroft. Eppure, davanti a
Sherlock
nel suo letto, se ne sente svuotato,
fino all’ultima goccia.
Sherlock è nel vero. Lo è sempre stato.
Riconoscerlo, non lo libera di nulla. Venire a patti con la
verità non gli vale
un biglietto di ritorno alla vita normale,
a quel che era prima di bussare alla porta di suo fratello.
Dicembre è gelido più del normale ed è
strano, strano quanto il freddo artico
dell’Inverno di anni prima, quando Sherlock era un bambino, e
lui una persona migliore. Tutto
è diverso, e bizzarro, e
ne è spaventato.
Per la prima volta nella sua vita, Mycroft prova vergogna. E’
inutile
nascondersi perché per quanto possa mentire a se stesso,
è soltanto pura vergogna
il sentimento che lentamente
gli ha avvolto il cuore, un pericardio di imbarazzo, rimorso e rimpianto.
Tornare a guardare Sherlock è l’impresa
più ardua a cui riesca a pensare. Si
vergogna di quel che è stato, di quel che è, di
quello che sta provando e
dell’impressione di sé che sta dando a suo
fratello, e in qualche modo, al
mondo. Lui non è così. Mycroft è
disciplina, freddezza, intelligenza.
Non è cuore.
E’ soltanto l’involucro
umano di una mente brillante.
Eppure ci riesce, anche se non saprebbe umanamente spiegare come. Lo
fa, lo
guarda. Fissa gli occhi in quelli di Sherlock che da lui non li ha
distolti per
un secondo, analizzando, studiando,
sezionando ogni suo pensiero, ogni
minima reazione leggibile su quel viso impassibile.
“Mi dispiace” così Mycroft dice, ed
è una frase a cui non è abituato, complessa
alla pronuncia, “mi dispiace
tanto, Sherlock.”
Non sa bene se lo senta davvero, in fondo in fondo. Non sa se un
‘mi dispiace’
sia abbastanza per compensare un torto di più
vent’anni, ma non sa come
comportarsi, come agire, come far sì che tutto possa tornare
com’era, prima che
lui arrivasse, prima che parlasse, prima che decidesse di far visita a
Sherlock
a discapito di una telefonata o di un messaggio.
“Certo” Sherlock risponde, ma i suoi occhi sono
attenti, inumiditi soltanto dalla
febbre lieve e per nulla turbati da emozioni estranee alla rabbia.
“Ci credo.”
Non è una favola, quella di Sherlock e Mycroft.
Non è un film, né un romanzo colmo
d’amore, perdono e abbracci fraterni. Non è
la storia a lieto fine di cui si ha voglia quando si è
tristi, né forse lo sarà
mai, né per Sherlock, né per suo fratello,
né per chiunque altro abbia a cuore
le sorti di entrambi.
“Non posso, Sherlock” poi Mycroft aggiunge, la
sedia improvvisamente scomoda,
dura come pietra. “Lo sai che non posso. Non ora. Non più.”
Sherlock ride, e sembra tornato in forze per un attimo
perché non è un rantolo
rauco, quello che vien fuori dalla sua gola. Il suo viso sembra quasi
rischiarato
da una strana e improvvisa tranquillità.
Il pugno si allenta, e la mano destra sfrega sull’altra, come
lavando via la
durezza e l’asprezza del gesto, lenendo il dolore dei muscoli
tesi.
“Sai cosa, Mycroft?” Sherlock finalmente parla di
nuovo, e ha il tono di voce
di chi ha scampato il pericolo per un soffio. “In fondo, mi
basta così. Non
avrei mai lasciato che tu facessi qualcosa.”
Mycroft, d’un tratto, non ha più bisogno di
spiegazioni. Torna, in un secondo
lungo un attimo, ad essere quello che era e quello che sarà
per sempre. Si
sente un prestigiatore, uno di quelli capaci di mutare il proprio
aspetto in
uno svolazzo di mantello. La strana, lacerante, oppressione al petto,
arriva al
suo apice prima di alleviarsi, gradualmente, fino a scomparire.
E’ un gioco. Una gara,
un’eterna
corsa. L’infinito affanno per raggiungere un podio da un
posto solo.
E’ sempre stato un gioco, il rapporto tra loro due. Un
nascondino senza fine,
una campana dal percorso dissestato e sbiadito, senza un traguardo che
valesse
mai la pena.
“Hai vinto, dunque. Ho ammesso la mia colpa”
Mycroft così dice, e un nuovo qualcosa
rimpiazza il precedente, ma stavolta
sa dargli un nome, “Sei migliore di me, adesso. Dovrei
complimentarmi?”
E’ qualcosa di simile all’umiliazione.
Eppure, una nota di sollievo stona, nell’omogeneo rammarico
che dovrebbe
pervaderlo ma lo lascia in sospeso.
“Non c’è bisogno” Sherlock
risponde, mentre scivola nuovamente in posizione
supina, senza smettere di guardare suo fratello, “leggere
sulla tua faccia quello
che stai provando è sufficiente.”
Mycroft annuisce, perché è la risposta con cui
sapeva avrebbe replicato e
perché, in fondo, non avrebbe mai realmente accettato una
tale, palese sottomissione a
Sherlock.
“Dovremmo smetterla di giocare, Sherlock” poi
sussurra, mentre si solleva dalla
sedia, gli arti che pesano come macigni, “siamo entrambi
adulti, adesso.”
Sherlock sorride e scuote la testa.
“Non abbiamo mai iniziato, Mycroft” afferma, e non
potrebbe essere più certo di
quel che dice, “è la nostra vita. Se provassimo a
smettere, ne moriremmo.”
E Mycroft non può
affermare il contrario, senza la certezza di mentire a se stesso.
Il confronto, la continua, spossante,
corsa a quel primo posto, li vedrà protagonisti fino alla
fine dei loro giorni.
Moriranno insieme, Mycroft e Sherlock, senza dubbio alcuno, per non
permettere
l’uno all’altro di vantarsi per quel primato.
“Sai cosa, Sherlock?” Mycroft replica, puntando
l’ombrello sul pavimento e
osservandone l’estremità in ferro, “a
volte mi chiedo se non sarebbe meglio,
morire.”
Il più giovane storce il naso, inumidendosi le labbra secche.
“Immagina quanto noiosa sarebbe stata e sarebbe la mia vita,
senza nessuno a disilludermi e
nessuno da deludere”
dice, e Mycroft sa bene che
potrebbe scherzare come essere mortalmente serio, “meglio che
le cose rimangano
cosi come sono.”
Mycroft non è del tutto d’accordo ma non sa se
dirglielo. Tutto quello di cui
ha bisogno è di tornare a casa, bere due –forse
tre- dita di qualcosa di forte
e fumare quella sigaretta nascosta nel cassetto delle camicie. In
realtà, non
sa nemmeno perché si stia ancora trattenendo dal farlo.
“Lieto di esserti utile in qualcosa, fratellino.”
Suona così strana, quella parola, sulle sue labbra.
E’ più un rimprovero, che
un vezzeggiativo.
“E’ stata una strana mattina, Sherlock”
poi aggiunge, ed entrambi sanno che è solo
l’antifona a una nuova assenza, forse ancor più
lunga di quella conclusa quel
giorno, “ho compreso più aspetti di te in poche
ore che in una vita intera.”
Sherlock sorride.
“E io ho confermato aspetti di te di cui ho sempre conosciuto
l’esistenza.”
Un altro punto. Mycroft non vuole nemmeno più tentare di
primeggiare, di
sottolineare agli occhi di suo fratello il proprio indubbio valore.
“Uno scambio di idee reciprocamente vantaggioso, a quanto
pare.”
“Concordo.”
E’ tutto ancora più strano.
Mycroft è in ritardo, adesso. Un’ora è
trascorsa, in un minuto apparente. Vuole
andare, eppure non ha mai sentito più intenso bisogno di restare. Non gli importa di Sherlock,
della sfida, di essersi umiliato e
di aver ricordato. Ha solo bisogno di
qualcosa che lo aiuti a porre un passo oltre la soglia.
Qualcosa dice a Mycroft, e il viso di Sherlock può mentire
fino a un certo
punto, che suo fratello stia provando la stessa, identica sensazione.
Guarda in basso, alle mani, intrecciate tra loro.
“Grazie per la visita” Sherlock poi dice, come per
spronarlo ad uscire, a
congedarsi, a preferigli qualcosa di meglio, di utile, di
più producente di un
uomo ferito costretto a letto. “Chiedi a John di salire,
quando esci.”
Sembra quasi voler dirgli che l’opera è compiuta,
che è stato soddisfatto, che
non gli serve più, che ha adempiuto al suo compito di
fratello maggiore e che
adesso potrebbero anche non vedersi più per altri due mesi.
“Certo” Mycroft risponde, sentendosi,
inaspettatamente, di nuovo un bambino,
tutto d’un tratto. “Non
mancherò.”
E’ una strana forza a spingerlo a muoversi verso Sherlock, a
cui non riesce a
opporsi, nonostante se ne vergogni, nonostante la sua mente gli stia
urlando di
fare tutt’altro.
“Credo che ci vedremo prima di quanto tu pensi,
Sherlock” è tutto quello che
riesce a dire. “Sai quanto la mamma ci tenga, al pranzo di
Natale.”
Sherlock chiude gli occhi e sospira profondamente, come chiamando a
sé tutta la
pazienza di cui ancora dispone. Pare che anche Sherlock dimentichi
qualcosa, di
tanto in tanto.
“Grazie per avermelo ricordato, Mycroft” dice,
aspro, “credo che per quel
giorno strapperò accidentalmente i punti alla mia
ferita.”
“Credo che nessuno crederebbe davvero alla
casualità dell’evento.”
“Ho tempo per escogitare un piano.”
Mycroft poi lo fa, quel gesto inaspettato che lo costringe a chiedersi
cosa
diamine sia successo all’uomo che ha varcato la soglia di
quell’appartamento
nemmeno due ore prima.
Sorride. Un sorriso vero, sinceramente divertito.
“Non sarò tuo complice nello spezzare il cuore a
nostra madre.”
Sherlock non dice niente. Non proferisce parola su quel nuovo Mycroft
che ha
davanti e che, di certo, scomparirà una volta lasciata
quella stanza.
“Si può sempre contare sul supporto della
famiglia” conclude, ma non è
arrabbiato.
Mycroft smette di sorridere e sente di nuovo, ancora più
forte di prima, quel
qualcosa che manca. Quel qualcosa di sconosciuto che potrebbe
ricordare per sempre così come dimenticare la sera stessa.
Lo diceva sempre, sua
madre, che nessuno porta mai ricordo di qualcosa che non ha nome.
Era accaduto con compagni di scuola incontrati e mai conosciuti.
Era accaduto sfiorando il dorso di un libro senza mai
soffermarsi sul titolo, prima di passare a quello successivo e a quello
dopo
ancora.
Così, Mycroft indulge in un gesto di cui nemmeno sembra
accorgersi, in un primo
momento. Così, Mycroft cede.
Tocca appena la mano di Sherlock con la sua in un tocco fugace, veloce,
impercettibile. Dura meno di un attimo ed entrambi sembrano accorgesene
soltanto quando ormai è finito. Si rendono conto di quel che
è successo quando
il tocco non c’è ormai più, quando
tutto quel che è rimasto è la sensazione di
qualcosa che è accaduto tanto in fretta da far dubitare a
entrambi che sia
stato qualcosa di più di un sogno, o lo scherzo di una mente
stanca e provata.
Non ha sentito calore. Non ha sentito niente di niente, che sia un
guizzo di
affetto fraterno o un incommensurabile moto di protezione. Non
è stato il
languido sfiorarsi di mani di un romanzetto sentimentale, né
qualcosa che
ricorderà in eterno.
E’ stato, e basta.
Si chiede come Sherlock non abbia potuto prevederlo. Lo aveva detto,
poco
prima, che non lo avrebbe lasciato libero di rimediare.
Eppure. Eppure.
Quello che però non riesce a spiegarsi, è come
abbia fatto a non aver
avvisaglia delle proprie intenzioni
prima che queste prendessero il sopravvento. Si chiede se stia
diventando
troppo vecchio, troppo instabile, troppo imprevedibile.
“Bene” Sherlock poi rompe il silenzio, divenuto fin
troppo gravoso. “Ora credo
davvero che tu debba andare.”
E’ spiazzato, confuso. Nervoso.
Si tormenta le mani come faceva da bambino, quando i suoi lo
costringevano a
partecipare alle festicciole dei compagni di scuola o alle gare di
atletica.
Intreccia le dita tra loro fino a farle diventare bianche, come quando
stringeva le sponde del suo letto d’ospedale, anni prima, nel
pieno
dell’astinenza.
Eppure sembra soddisfatto, in un
certo qual modo, nonostante non ci sia dubbio che anche lui sia del
tutto
inconsapevole di quanto chiaramente lo stia mostrando, in viso.
Continua a fissare Mycroft come se fosse un uomo mai visto prima.
Sembra
scoprirlo a poco a poco, leggendogli dentro come fosse fatto di pagine
e pagine
e pagine, e lui le stesse scorrendo a un ritmo folle, desideroso di
carpire di
lui quante più informazioni possibili.
“Lo credo anch’io” Mycroft
così dice, a bassa voce, distogliendo l’attenzione
di suo fratello da sé e dirigendosi verso la porta. Pone una
mano attorno alla
maniglia quando Sherlock, inaspettatamente, parla di nuovo.
“Soltanto un’ultima cosa. Ti ha telefonato il
Detective Lestrade, non è così?”
è
quello che chiede, senza alcun motivo logico.
Mycroft esita un secondo nel sentir pronunciare quel nome, ma rimane
impassibile,
serio. Annuisce.
“In persona” risponde. “In
verità, ha detto che hai insitito tu affinché
fosse
lui a ragguagliarmi sulla situazione.”
Sherlock guarda altrove ma annuisce, e Mycroft può vederlo
sorridere appena,
perso com’è nella contemplazione di un punto
indefinito della parete.
“Ho pensato fosse il più qualificato
nel
rapportarsi con te in maniera adeguata”
continua, ponendo un accento particolare sull’ultima parola,
“in un certo qual
modo, anche più di John.”
Non ha granché idea, Mycroft, di dove Sherlock voglia andare
a parare e,
soprattutto, non capisce perché abbia voluto trattenerlo
ancora dopo averlo
praticamente invitato ad andarsene ben più di una volta.
Così, lo asseconda.
“E’ stato, uhm, esaustivo” accenna,
guardandolo sottecchi. “Rassicurante. E qui
immagino che ancora non abbia ben compreso la natura del nostro
rapporto.”
Sherlock annuisce, compiaciuto. Torna a guardarlo e le mani scivolano
nuovamente ai fianchi: è più calmo, adesso. Non
c’è più nulla sul suo volto, a
parte una piega leggera delle labbra che è solo
l’avvisaglia di un sorriso.
“Beh, sono sicuro che la mamma adorerà
la cosmica vacuità della conversazione di
Lestrade” Sherlock aggiunge,
soddisfatto come se avesse appena raggiunto un agognato traguardo
personale, “si
lamenta sempre dell’eccessivo silenzio, a tavola. La
troverà una novità
stuzzicante.”
Mycroft si blocca sul posto, la mano ancora alla maniglia, un piede
appena
sulla soglia. Non riesce a credere a quello che ha appena udito.
Non gli chiede come faccia a saperlo perché non si pone una
simile domanda, a
Sherlock, senza che lui ti risponda con uno sguardo di sufficienza,
accusandoti
di non essere stato abbastanza sveglio, o di continuare ad essere un
perfetto
idiota, se la cosa proprio ti rende
felice.
E’ la centesima volta, o forse millesima, quella
mattina, che si domanda se
stia realmente vivendo quella situazione o se sia ancora addormentato,
sulla
sua scrivania al club probabilmente, e immerso in uno stranissimo
sogno.
Mycroft non lo sa. Quello di cui è certo, però,
è che si sente bene, adesso.
Non c’è più traccia di nulla, sul suo
petto. Non l’impronta del peso che lo
aveva oppresso fino a poco prima, né altro indizio che porti
a credere che
qualcosa sia accaduto, lì dalle parti del suo cuore. Mycroft
però sa che
qualcosa c’è, che qualcosa esiste.
Che è cambiato, per
quanto non
sembri. Che Sherlock è cambiato, e di conseguenza anche lui,
come costretto a seguire il suo
esempio.
E’ la prima cosa veramente bella che suo fratello ha fatto
per lui, seppur non la
meritasse. Seppure per la gente, là fuori, non fossero altro
che perfetti
estranei capitati chissà come a far parte della stessa
famiglia.
Sente che presto la dimenticherà. Con ogni
probabilità, lo farà.
Nel frattempo, però, sente il bisogno di godere di quel
momento, forse l’unico
nelle loro intere esistenze, a racchiudere una parvenza di affetto. Un affetto di cui nessuno dei
due aveva mai avuto bisogno,
da adulti, ma che entrambi stanno mostrando, loro malgrado, in una
stanza buia,
che puzza di disinfettante e sangue rappreso.
E’ squallido, e freddo. Eppure, va bene così.
“Ne sono certo, Sherlock” così Mycroft
risponde. “Sarà un piacevole
cambiamento.”
Sherlock fa un cenno con il capo, e così Mycroft. Rimangono
a guardarsi ancora
un po’, senza più nessun motivo che li spinga a
farlo, se non la volontà,
contrapposta a quella che li aveva animati fino a un secondo prima, di
godere
della reciproca compagnia ancora un po’.
“Ci vediamo presto, allora” Mycroft alla fine
esclama. “A Natale.”
Sherlock annuisce. Torna a guardare di nuovo il vuoto, oltre Mycroft.
“A Natale.”
“Arrivederci, Sherlock.”
“Ciao, Mycroft.”
Non c’è rammarico, oltre quella porta adesso
chiusa. Non oggi.
Non una mattina fredda di Dicembre, con la neve sui marciapiedi e il
vento che sibila
nelle stradine strette.
Ci sarà domani, o il giorno dopo, o fra una settimana, o a
Natale, come ogni
anno.
Non osa pensare al Natale a casa, anche se quest’anno la
prospettiva è
leggermente migliore rispetto a quelli precedenti. Sente il cellulare
vibrare
appena e non ha bisogno di sbloccare il display per sapere chi sia.
Suo fratello è a letto, John con lui, il Primo Ministro in
viaggio e la Regina
a passare l’Inverno a Norfolk. A quanto pare, Greg Lestrade
è libero anche
stasera, e lui sembra non avere altri impegni.
Si ritrova a sorridere appena, mentre scende le scale. Sembra un
idiota, e
probabilmente se Sherlock potesse vederlo lo apostroferebbe nello
stesso modo,
senza pietà.
Mycroft però, può sopportarlo. Oggi Sherlock ha perdonato, a modo suo, qualcosa che
Mycroft non aveva mai creduto
fosse anche minimamente meritevole di attenzione.
E’ cominciato tutto con una cosa così semplice
come lo sfiorarsi di due mani,
ed è finita con lo scontro tra due cuori, aridi e
disabituati a un tipo d’amore
che nessuno dei due aveva mai sperimentato abbastanza.
Si sono stretti la mano in segno di momentanea resa pur non avendolo
realmente
fatto. Hanno riconosciuto entrambi quel che sono
stati, e che non saranno mai più. E’ un armistizio
che è sicuro gioverà a entrambi, nonostante sia
certo che non durerà per
sempre.
In fondo, però, non ha bisogno realmente che duri. Le cose
stanno bene così
come sono, in un certo qual modo.
Lo strano presente di questa
mattina
di Dicembre è accettabile.
Quel che sarà poi, non
gli importa.