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Autore: SAranel    05/01/2015    2 recensioni
Diventare adulti, è la fine di ogni favola.
Sherlock lo sa bene. Mycroft, invece, non se n'è mai reso conto.
(I protagonisti sono Sherlock e Mycroft, con accenni a Mystrade e Johnlock)
“Sai bene quanto odi le chiacchiere futili” risponde, sarcastico, “ho solo pensato di riprendere i contatti con il mio adorato fratello riferendogli una notizia che avrebbe gradito di certo. Come vedi ho qualche nozione riguardo le convenzioni sociali.”
Mycroft non sorride più. L’occhiata che rivolge a Sherlock è fredda, dura.
“Hai creduto che avrei trovato gradevole la notizia della tua quasi dipartita, Sherlock?” domanda, pur non avendo davvero bisogno di una risposta. “Quando per tutta la vita non ho fatto altro che impedirti di ucciderti?”[...]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera fandom mio adoratissimo!
Eccomi di ritorno con due personaggi per me ‘inusuali’ ma che adoro insieme, che spero con tutto il cuore di aver trattato in un modo quantomeno accettabile. A voi il giudizio!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura.

S.

 

 

 

 

Brother of mine
*

 

 

 

Da grande, Sherlock non avrebbe desiderato altro che diventare come lui, un giorno.
Glielo aveva detto. Ripetuto, più di una volta.
Mycroft non era riuscito a rispondere. Non era riuscito a trovare niente di valido con cui replicare alla cosa più bella che qualcuno gli avesse mai detto.
Non aveva altro sogno, Sherlock, che lo appagasse di più, nonostante fosse colmo, il suo cuore, di desideri da realizzare, o ancora da scoprire.
Era diverso, da quello per mamma e papà. Non era un amore imposto, quello nei confronti di suo fratello, forse perché libero da qualunque legame strettamente fisico, come nei confronti di chi ti ha dato la vita. Non si era mai sentito obbligato, leggendo l’amore in quella bizzarra chiave di lettura, a voler bene a Mycroft così come gliene voleva. Semplicemente, si era ritrovato a farlo, senza nemmeno rendersene conto.


Gli aveva preso la mano, un giorno. Era cominciata così.
Era Marzo ed era un giorno caldo, luminoso, il primo dopo l’inverno più rigido che l’Inghilterra avesse mai visto. Era successo qualcosa in città, il giorno prima, perché sua madre e suo padre ne avevano discusso al mattino, dopo il notiziario della BBC1. Non ricordava cosa fosse, ma non aveva importanza.
Mycroft aveva storto appena il naso, al contatto. Aveva sussultato, guardandolo truce, memore di quella regola non scritta che impone di sfuggire ai giochi da bambini, e ai bambini stessi in egual misura, appena varcata la soglia dell’adolescenza.
Sherlock, dalla sua parte, non lo aveva trovato scoraggiante. Aveva continuato a guardare il volto di Mycroft con ammirazione, spostando poi lo sguardo verso la strada trafficata dinnanzi a loro, occupata da file di automobili che sbuffavano fumo dalle marmitte come il tabacco ardente dalla pipa di suo padre.
“Mamma mi ha detto che posso passare con te” Sherlock aveva detto, esitante, come se comunque non ne fosse del tutto sicuro ma non potesse, come preda di uno strano incantesimo, contraddire le istruzioni di sua madre. “Dice che ormai sei grande.”
Mycroft aveva sorriso, scuotendo la testa, senza che Sherlock potesse in alcun modo scorgere indizio su cosa stesse rimuginando. Era rimasto così a lungo, come se nella sua testa stesse avendo luogo una diatriba senza un vincitore.
Infine, aveva osservato la mano di Sherlock nella sua, come stesse assistendo ad una scena bislacca, curiosa, mai vista, e aveva alzato lo sguardo fino ad incontrare quello di suo fratello, che ancora lo fissava, in attesa. Speranzoso.
“Dove vuole andare, allora, mio Signore?” aveva poi chiesto, stringendo la manina liscia, delicata, nella propria più adulta. “Per scortarti dove, dunque, nostra madre mi ha gentilmente decretato tuo vassallo?”
Sherlock aveva sorriso, emozionato come forse non lo era mai stato. Aveva stretto a sua volta la mano di suo fratello per poi immediatamente volgere lo sguardo alla strada, di nuovo. Le auto s’erano tramutate, tutto d’un tratto, in soldati in elmo ed armatura, con le spade sguainate e gli scudi al braccio, e il fumo in nient’altro che l’ombra di terra arida sollevata dagli speroni di ferro ai piedi del piccolo esercito. Sarebbe riuscito a infilarci anche un paio di pirati, bucanieri impavidi e spietati, se fosse stato meno eccitato, meno preso, meno impegnato ad osservare suo fratello, cucendogli addosso i panni dell’eroe, senza macchia né paura, in procinto di portarlo in salvo al di là del campo di battaglia.
“In libreria, mio Cavaliere” Sherlock aveva risposto, il sole riflesso negli occhi azzurri, uguali a quelli di suo fratello, e Mycroft non aveva potuto far altro che sorridere di nuovo, in barba alle convenzioni, al diavolo il disprezzo per certe smancerie imposto ai giovani uomini.
“Molto bene, mio piccolo esigente principe” aveva sussurrato, con dolcezza non voluta, semplicemente venuta fuori a zuccherare il suo tono di voce, poco avvezzo all’affetto, plasmato per una futura professione che poco spazio avrebbe lasciato, ai sentimenti. “All’avventura!”
Sherlock lo aveva seguito, tenendolo stretto stretto, osservando i musi lucidi delle auto –schiacciati, allungati, ammaccati- fermarsi al passaggio della figura imponente –seppur perfettamente comune, agli occhi degli altri- del suo unico fratello maggiore, sterminatore di soldati cattivi e soccorritore di anime benevole. Il ticchettio dell’ombrello -compagno inseparabile del polso di Mycroft- sulla strada, si era tramutato in un clangore di lance contro lance, sguainate in sua difesa, per permettergli di raggiungere la sua magione sano e salvo; il fruscio del cappotto contro i suoi pantaloni, invece, era divenuto all’occorrenza l’imperversare di una violenta tempesta di sabbia lungo il loro travagliato cammino.
Posato il primo piede sul marciapiede opposto, Sherlock aveva strattonato la mano di Mycroft con forza, come a volerlo strappare il prima possibile dalla battaglia ancora in corso, volendo anche lui distinguersi, seppur in diversa misura, per un piccolo gesto eroico nei confronti del suo giovane salvatore.
“Ce l’hai fatta!” aveva gridato, quel bambino tanto gracile da mostrare appena i suoi cinque anni. “Mi hai portato dall’altra parte!”
Non aveva lasciato andare la mano di Mycroft, nemmeno per un minuto. Il maggiore si era guardato intorno, rosso in viso, e aveva esitato di nuovo, cercando in qualche modo di limitare l’entusiasmo del suo fratellino ma in cuor suo lieto, quasi orgoglioso in una eco d’infantile eccitazione, della nuova identità conferitagli da Sherlock.
Un po’ gli sarebbe mancato, una volta tornato ad Eton, non averlo più intorno, nonostante avesse letteralmente ringraziato il Cielo per i momenti di pace trascorsi lontano da casa e da quella piccola, ingestibile calamità su gambe.
“Bene, piccolo scienziato pazzo” aveva replicato, “Andiamo, prima che il negozio chiuda.”
Sherlock lo aveva seguito, senza aggiungere niente, come se avesse compreso –ingenuo, bambino, ma sveglio- la ritrosia di suo fratello nel far mostra dei suoi pregi. Nel riconoscere, perfino, la loro esistenza.
Le loro mani erano rimaste legate insieme per tutta la sera, comunque. A quello, Mycroft non aveva rinunciato, nonostante tutto, e Sherlock non glielo aveva fatto notare, ben felice di non metter fine a quella strana connessione. Si sentiva sicuro, Sherlock, insieme a lui.
Fin quando sarebbe rimasto con Mycroft, nulla sarebbe mai potuto succedergli.


Era stato freddo quanto quell’inverno, l’Ottobre di tre anni dopo.
Mycroft aveva di meglio da fare, quella sera, che portare Sherlock dal dottore, per un raffreddore che sarebbe passato nel giro di qualche giorno con qualche tazza di tè caldo e un paio di compresse.
Aveva scarrozzato suo fratello fino al bus, di ritorno dalla visita, tirandoselo dietro come fosse zavorra, mentre quello cercava di tenere il passo, così infagottato che a malapena Mycroft riusciva a scorgere i suoi occhi, nell’ingorgo di lana e cotone.
Lo aveva fatto sedere accanto a sé senza spiccicare parola, tenendo un broncio inspiegabile che Sherlock non aveva potuto fare a meno di percepire, conscio di esserne la causa ma troppo addolorato –anche se mai lo avrebbe ammesso ad alta voce, ormai più grande e più forte del bambino che era stato- per poter difendere la propria innocenza di fronte ad un’imposizione di cui era colpevole solo in parte.
Mycroft, il naso schiacciato contro il finestrino e la mano sulla coscia, aveva osservato la città scorrere dal finestrino, la mente rivolta altrove, qualche strada più avanti, sempre più distante man mano che il bus s’allontanava.
“Magari potremmo fare in tempo” Sherlock aveva trovato il coraggio di parlare, “sono sicuro che non è troppo tardi.”
Mycroft ne aveva dubitato sin dall’inizio.
“Sta zitto, per favore” gli aveva intimato, stizzito, “tu e lo stupido tempismo dei tuoi stupidi malanni.”
Sherlock sapeva che avrebbe dovuto trovare la forza di ribattere, da qualche parte dentro di sé. Era pienamente consapevole che fosse abbastanza grande, intelligente e senza peli sulla lingua per rimettere in riga un qualsiasi ragazzo più grande. Peccato che, con suo fratello, le sue difese alzassero bandiera bianca, quasi non potesse in alcun modo opporsi a qualsivoglia sua decisione o controbattere a ogni suo rimprovero, seppur ingiusto.
“Vedrai che al Club chiuderanno un occhio, Mycroft” Sherlock esclamò, facendo sfoggio del suo lessico migliore, desideroso di smorzare la tensione tra loro, “non faranno storie, se dirai di aver avuto un impegno.”
Lo sguardo che suo fratello gli aveva rivolto appena dopo, stringendogli la mano fino a fargli quasi dolere le dita, Sherlock non l’avrebbe dimenticato mai, per tutta la vita.
Non avrebbe saputo definirlo, lo Sherlock di allora. Arrabbiato, aveva pensato al tempo. Colmo d’odio, avrebbe pensato in seguito, crescendo.
“Oh, sicuramente, piccolo sciocco” aveva replicato, un tono di scherno che aveva ferito Sherlock più di quanto potesse umanamente sopportare, “perché tutto è ancora come nel tuo mondo, quando hai sedici anni, Sherlock. Perché basta allungare un muffin all’amichetto per dimenticare una scaramuccia, come non fosse mai accaduta.”
Sherlock era rimasto in silenzio, lasciandosi trasportare fuori dal bus come una valigia troppo ingombrante.
“Oh ma dimenticavo, piccolo caro” aggiunse poi Mycroft, “tu non hai amichetti.”
Sherlock non aveva idea su come avrebbe dovuto sentirsi, al riguardo. Sinceramente, aveva percepito quell’affermazione come qualcosa di negativo soltanto a causa del tono sprezzante e livido di Mycroft. Aveva abbassato lo sguardo e continuato nel suo ostinato silenzio, incapace di replicare ancora, spaventato dalla possibilità che Mycroft potesse interpretare la sua premura come una mancanza completa di senno.
Quando aveva parlato di nuovo, lo aveva fatto con uno scopo ben preciso.
“Lasciami andare” il bambino aveva detto, guardando suo fratello con aria decisa, quasi volendo convincerlo con lo sguardo più che con le parole, “sono grande abbastanza per un paio di semafori.”
Sherlock non sapeva cosa pensare esattamente, della proposta appena fatta a suo fratello. Una parte di sé avrebbe solo voluto liberarlo dall’evidente peso che rappresentava, un’altra sperava –più di quanto volesse ammettere- che rifiutasse. Quella parte di sé che si rifiutava di vedere suo fratello per quello che era diventato, a poco a poco, col passare degli anni.
Mycroft aveva morso appena un labbro, pensieroso. Con ogni probabilità, anche nella sua, di testa, era in corso una battaglia all’ultimo sangue.
Aveva allentato appena la presa, senza però lasciarla. Sembrava quasi che avesse bisogno di un segno, per abbandonarla completamente. Un cenno da Sherlock, o dalla propria coscienza, che gli dicesse che quel che stava per fare era la cosa più giusta.
Sherlock non glielo aveva concesso, e probabilmente nemmeno la sua coscienza, fatto sta, che lo aveva fatto, infine, quello di cui Sherlock aveva più paura.
L’aveva lasciato. Sherlock aveva sentito le dita intirizzirsi, congelarsi pian piano sotto i fiocchi della prima neve del giorno, ma il piccolo era stato consapevole sin dall’inzio che non fosse colpa del gelo.
“Ciao” aveva detto Mycroft, sorridendo a se stesso ma non a Sherlock, “ci vediamo più tardi.”
Aveva parlato senza nemmeno guardarlo. Si era allontanato a passo svelto, senza nemmeno chiedergli scusa con un cenno del capo. Senza la minima ombra di colpa sul viso.
Sherlock aveva replicato con un cenno, ma niente più. Qualcosa sembrò rompersi, dentro di lui, con lo stesso sonoro crac di un vaso che cade, spargendo i suoi cocci in lungo e in largo. Come se non bastasse, gli sembrò di camminarci sopra, appena un secondo dopo, avvicinandosi al marciapiede ad un passo dalla strada.
Era strano, da sentire. Era un sentimento sconosciuto che a pelle detestava, che lo faceva star male più di ogni altra sensazione sgradevole avesse provato nella sua giovane vita.
Non aveva un nome. Aveva avuto paura anche soltanto a dargliene uno, perché tutto sarebbe diventato più reale, ed era l’ultima cosa di cui sentiva il bisogno.
Alla fine, però, lo aveva fatto.
L’aveva oltrepassata da solo, quella strada che non era mai stata, in fondo, granché pericolosa. Un passo dopo l’altro, era arrivato dall’altra parte, senza troppa difficoltà. Senza nemmeno accorgersene, parlando a se stesso con sincerità per la prima volta.
Le auto avevano smesso di essere cavalieri in armatura quella sera di Ottobre.
Il fumo delle marmitte era tornato ad essere fumo e basta, la sera in cui Sherlock aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più desiderato, in vita sua, di diventare un uomo come Mycroft Holmes.
Da quella sera d’ottobre, le loro mani non si sfiorarono mai più.

E’ Dicembre.
L’uomo nel letto è sveglio, ma non del tutto vigile.
Mycroft sa benissimo che lo odia, il dormiveglia, perché lo fa sentire impotente, indifeso. Vorrebbe aprire gli occhi, al mattino, e saltar su vigile, attento, i sensi già all’erta, pronti. Vorrebbe non dormire affatto, ma ogni tanto è costretto a cedere, inevitabilmente, alle lusinghe di un lungo sonno.
“Che ci fai, qui?” Sherlock domanda, con quel tono di voce secco che riserva soltanto all’uomo che ha di fronte. “Come sei entrato?”
Mycroft stringe la presa sul manico del suo ombrello, aprendo e chiudendo le dita intorno al bastone arcuato. Sorride appena.
“Oh, fratellino, tu e la tua avversione per le convenzioni sociali” Mycroft esclamò con espressione compassionevole, “un giorno dovrai pur renderti conto dei vantaggi che comporta suonare un campanello.”
Sherlock non risponde, limitandosi a distogliere lo sguardo da Mycroft per sollevarsi un po’ di più sul letto, le lenzuola avvolte intorno alle gambe.
“Credevo non esistesse nulla di più irritante che venir svegliato dall’odioso fischiettare del proprietario della caffetteria qui sotto” sussurra, fissando un punto indefinito della stanza, “mi sbagliavo.”
Mycroft scuote appena la testa, contrariato.
“Sono stato via per mesi, Sherlock” il fratello maggiore dice, puntando lo sguardo nello stesso nulla che sembra affascinare Sherlock così tanto, “non ho ricevuto tue notizie, almeno non di tua iniziativa, per tutta la durata della mia trasferta. E quando finalmente mi degni di un segno di vita, mi sento dire che sei quasi morto. Di nuovo.”
Sherlock sorride, chiudendo gli occhi. Appena un secondo dopo, finalmente, fissa lo sguardo in quello di Mycroft.
“Sai bene quanto odi le chiacchiere futili” risponde, sarcastico, “ho solo pensato di riprendere i contatti con il mio adorato fratello riferendogli una notizia che avrebbe gradito di certo. Come vedi ho qualche nozione riguardo le convenzioni sociali.”
Mycroft non sorride più. L’occhiata che rivolge a Sherlock è fredda, dura.
“Hai creduto che avrei trovato gradevole la notizia della tua quasi dipartita, Sherlock?” domanda, pur non avendo davvero bisogno di una risposta. “Quando per tutta la vita non ho fatto altro che impedirti di ucciderti?”
Sherlock sbuffa appena, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.
“Non certo il più riuscito dei tuoi compiti” il più giovane sbotta, senza perdere un grammo della propria ironia.
“Sei ancora qui” Mycroft gli ricorda, stizzito ma impegnato nel mostrarsi più calmo possibile, “direi invece che sei il più riuscito di tutti i miei buoni propositi.”
Sherlock si solleva ancora di più sui gomiti, con sforzo ben visibile, deciso però –alla stregua di Mycroft- nel nasconderlo agli occhi del fratello maggiore. Mycroft, dal canto suo, non ha bisogno alcuno di vedere il dolore, negli occhi e nelle membra di Sherlock.
Lo sente, e non riesce a spiegarsi come.
“Non capisco ancora perché tu lo faccia” Sherlock dice poi, mentre si appoggia alla testiera del letto con fatica enorme, “non ho nessun bisogno della tua costante presenza né della tua commiserazione. Non hai alcun bisogno di convenzioni sociali, con me, perché non potrai mai trarne alcun vantaggio. Nessuna porta aperta, nessun favore, nessun tornaconto.”
Mycroft lo guarda senza parlare. Qualcosa lo scuote, dal profondo del petto, ma non saprebbe dire esattamente cosa sia, né darle una sommaria definizione. E’ solo qualcosa.
Invisibile, incorporeo, evanescente.
Scorre via così come è arrivata, ma lascia qualcosa: una pressione appena percettibile, sullo sterno.
“Un tornaconto c’è” Mycroft prova ancora, e non riesce a spiegarsi perché sia ancora lì a parlarne, dopo essersi accertato che stia bene, che sia curato, “posso ancora dire di avere un fratello.”
Sherlock vorrebbe scoppiare a ridere, ma tutto quel che vien fuori dalla sua gola è un rantolo rauco, sommesso. Si accontenta.
“Ora comprendo” esordisce nuovamente, il volto in ombra, “lo fai per il bene della conversazione. Sono contento di essere un argomento in voga nelle chiacchiere da salotto.”
“Smettila.”
“Dammene motivo.”
“Smettila e basta, Sherlock.”
Il silenzio che segue non è voluto, da nessuno dei due. Semplicemente avanza, e avvolge le parole, quelle già dette e quelle che verranno. Costringe entrambi a combatterlo, come fosse un nemico di cui entrambi ignoravano l’esistenza fino a quel momento.
Nessuno aveva mai detto loro di temere il silenzio. Soltanto le parole.
Le parole feriscono, Sherlock.
Le parole uccidono, Mycroft.
“Mi interessa la tua vita, Sherlock” Mycroft dice, a bassa voce, come un criminale che stremato ammette le sue colpe, “me ne è sempre importato. Dal giorno in cui sei nato.”
Il peso sullo sterno si fa maggiore, e sembra sprofondare da qualche parte, al suo interno, in un calore che lo avvolge, che brucia.
L’espressione di Sherlock diventa ostile, dura: i suoi tratti spigolosi si affilano ancora, come rasoi. Mycroft non sa che pensare, per quella che crede sia la prima volta in tutta la sua vita. Non è preparato ma si impone di sembrarlo, in quel gioco di apparenze che di concreto non ha nulla.
“Sai qual è l’enorme svantaggio di mentire continuamente a se stessi?” Sherlock domanda, già sicuro che Mycroft conosca la risposta. “Dopo un po’ di tempo, ci si convince che le bugie sciorinate da mattina a sera siano la verità.”
Mycroft appoggia l’ombrello contro il materasso e si avvicina, fino a sfiorare le lenzuola con le ginocchia. Una mano è sulla coscia, e stringe il tessuto dei pantaloni con veemenza. L’altra è chiusa a pugno, nel punto esatto in cui le fiamme stanno facendo strage del suo corpo.
“Eravamo bambini, Sherlock” il maggiore esclama, ma la sua voce non ha il tono serio e deciso che lo contraddistingue, “non ha mai avuto importanza, e di certo non ne ha più alcuna adesso.”
Sherlock solleva appena una mano, ma non riesce a far di più che tenerla sospesa per un attimo, stringendola in un pugno, che non solca oltre l’aria, cadendo di peso sulla coperta, pressato dalla fatica del movimento. L’espressione di Sherlock è spietata. Mycroft non trova altro modo per definirla.
“L’essere umano apprende nell’infanzia ogni nozione utile per quando diventerà un adulto” Sherlock dice, senza distogliere gli occhi da quelli di suo fratello, “è come una spugna gettata in un secchio d’acqua. Comincia a delinearsi il suo carattere, i suoi gusti. E più di tutti, apprende il concetto di fiducia.”
Mycroft non capisce, ma per lui comprende la creatura che sta lacerandogli il petto, scivolando lungo la gola, arrocandogli la voce, stringendo la presa sul suo collo come se volesse soffocarlo. Eppure, non è ancora abbastanza.
“Guardati” il maggiore lo redarguisce, con tono commiserevole, quello che Sherlock odia, “l’uomo che ritiene futile una vita umana, ma fondamentale una mano che stringe la propria.”
Sherlock sorride, ma senza allegria a rendere quel gesto più di un semplice movimento di labbra e muscoli. Il pugno si allenta. Sembra arrendersi, e guarda altrove.
“Hai avuto occasione di stringerne altre, Sherlock” poi Mycroft aggiunge, incerto come non lo è mai stato, “e sei stato uno sciocco a rinunciarvi. Almeno, fino a John. Hai dimenticato John, Sherlock?”
Il pugno ritorna. Lo stringe così tanto che Mycroft si aspetta di vedere goccioline di sangue affiorargli sulla pelle da un momento all’altro.
“John è soltanto il traguardo, Mycroft.  La ricompensa” il più giovane esclama. “Lui cammina con me. Non ho mai avuto bisogno di camminare grazie a lui.”
Mycroft è costretto a reggersi. Il dolore, si fa via via più insopportabile. Lui non prova, né sente, né ama. Ha insegnato lui a Sherlock a non farlo, dopotutto: è l’esatto motivo per cui si ritrova ad essere unico imputato in quel tribunale improvvisato. E’ sciocco, è impossibile, che sia lui stesso a tradire la propria dottrina.
“E allora, Sherlock?” risponde, non convinto, le spalle al muro e nessuna possibilità. “Il traguardo lo hai raggiunto. Hai avuto il tuo premio. Che importa come? Che importa con chi tu abbia camminato, nel mentre?”
Il sangue scorre, sulle mani di Sherlock. Piccoli rivoli, sottili. Rossi, poi rosa, poi un’ombra pallida, poi nulla.
“Importa che io non l’abbia fatto con te” Sherlock grida, e gli fa male, ed è come una confessione estorta con la forza, con dolore, e violenza. “Importa che tu mi abbia lasciato solo, quel giorno, e che tu mi abbia lasciato solo per il resto della mia vita. Sei stato a guardare, Mycroft, come fossi un penoso spettacolino con cui trastullarsi nei momenti di noia. Non hai fatto altro che ripetermi ‘te l’avevo detto’ per tutta la vita piuttosto che venire a trascinarmi via con la forza, mostrando che t’importasse.”
L’uomo più grande si chiede se stia per morire. Non ha mai sentito tanto dolore in vita sua.
Torna indietro, Mycroft, perché non riesce a impedirsi di farlo. Torna indietro di giorni, mesi, anni. Tutto scorre davanti a lui come un nastro riavvolto in un registratore. Come un film difettoso che procede all’incontrario. Cerca di capire, di sbrogliare la matassa, di decifrare il codice con cui Sherlock gli sta parlando.
Ha sempre avuto sangue freddo da vendere, Mycroft. Eppure, davanti a Sherlock nel suo letto, se ne sente svuotato, fino all’ultima goccia.
Sherlock è nel vero. Lo è sempre stato.
Riconoscerlo, non lo libera di nulla. Venire a patti con la verità non gli vale un biglietto di ritorno alla vita normale, a quel che era prima di bussare alla porta di suo fratello.
Dicembre è gelido più del normale ed è strano, strano quanto il freddo artico dell’Inverno di anni prima, quando Sherlock era un bambino, e lui una persona migliore. Tutto è diverso, e bizzarro, e ne è spaventato.
Per la prima volta nella sua vita, Mycroft prova vergogna. E’ inutile nascondersi perché per quanto possa mentire a se stesso, è soltanto pura vergogna il sentimento che lentamente gli ha avvolto il cuore, un pericardio di imbarazzo, rimorso e rimpianto.
Tornare a guardare Sherlock è l’impresa più ardua a cui riesca a pensare. Si vergogna di quel che è stato, di quel che è, di quello che sta provando e dell’impressione di sé che sta dando a suo fratello, e in qualche modo, al mondo. Lui non è così. Mycroft è disciplina, freddezza, intelligenza.
Non è cuore. E’ soltanto l’involucro umano di una mente brillante.
Eppure ci riesce, anche se non saprebbe umanamente spiegare come. Lo fa, lo guarda. Fissa gli occhi in quelli di Sherlock che da lui non li ha distolti per un secondo, analizzando, studiando, sezionando ogni suo pensiero, ogni minima reazione leggibile su quel viso impassibile.
“Mi dispiace” così Mycroft dice, ed è una frase a cui non è abituato, complessa alla pronuncia, “mi dispiace tanto, Sherlock.”
Non sa bene se lo senta davvero, in fondo in fondo. Non sa se un ‘mi dispiace’ sia abbastanza per compensare un torto di più vent’anni, ma non sa come comportarsi, come agire, come far sì che tutto possa tornare com’era, prima che lui arrivasse, prima che parlasse, prima che decidesse di far visita a Sherlock a discapito di una telefonata o di un messaggio.
“Certo” Sherlock risponde, ma i suoi occhi sono attenti, inumiditi soltanto dalla febbre lieve e per nulla turbati da emozioni estranee alla rabbia. “Ci credo.”
Non è una favola, quella di Sherlock e Mycroft.
Non è un film, né un romanzo colmo d’amore, perdono e abbracci fraterni. Non è la storia a lieto fine di cui si ha voglia quando si è tristi, né forse lo sarà mai, né per Sherlock, né per suo fratello, né per chiunque altro abbia a cuore le sorti di entrambi.
“Non posso, Sherlock” poi Mycroft aggiunge, la sedia improvvisamente scomoda, dura come pietra. “Lo sai che non posso. Non ora. Non più.”
Sherlock ride, e sembra tornato in forze per un attimo perché non è un rantolo rauco, quello che vien fuori dalla sua gola. Il suo viso sembra quasi rischiarato da una strana e improvvisa tranquillità. Il pugno si allenta, e la mano destra sfrega sull’altra, come lavando via la durezza e l’asprezza del gesto, lenendo il dolore dei muscoli tesi.
“Sai cosa, Mycroft?” Sherlock finalmente parla di nuovo, e ha il tono di voce di chi ha scampato il pericolo per un soffio. “In fondo, mi basta così. Non avrei mai lasciato che tu facessi qualcosa.”
Mycroft, d’un tratto, non ha più bisogno di spiegazioni. Torna, in un secondo lungo un attimo, ad essere quello che era e quello che sarà per sempre. Si sente un prestigiatore, uno di quelli capaci di mutare il proprio aspetto in uno svolazzo di mantello. La strana, lacerante, oppressione al petto, arriva al suo apice prima di alleviarsi, gradualmente, fino a scomparire.
E’ un gioco. Una gara, un’eterna corsa. L’infinito affanno per raggiungere un podio da un posto solo.
E’ sempre stato un gioco, il rapporto tra loro due. Un nascondino senza fine, una campana dal percorso dissestato e sbiadito, senza un traguardo che valesse mai la pena.
“Hai vinto, dunque. Ho ammesso la mia colpa” Mycroft così dice, e un nuovo qualcosa rimpiazza il precedente, ma stavolta sa dargli un nome, “Sei migliore di me, adesso. Dovrei complimentarmi?”
E’ qualcosa di simile all’umiliazione. Eppure, una nota di sollievo stona, nell’omogeneo rammarico che dovrebbe pervaderlo ma lo lascia in sospeso.
“Non c’è bisogno” Sherlock risponde, mentre scivola nuovamente in posizione supina, senza smettere di guardare suo fratello, “leggere sulla tua faccia quello che stai provando è sufficiente.”
Mycroft annuisce, perché è la risposta con cui sapeva avrebbe replicato e perché, in fondo, non avrebbe mai realmente accettato una tale, palese sottomissione a Sherlock.
“Dovremmo smetterla di giocare, Sherlock” poi sussurra, mentre si solleva dalla sedia, gli arti che pesano come macigni, “siamo entrambi adulti, adesso.”
Sherlock sorride e scuote la testa.
“Non abbiamo mai iniziato, Mycroft” afferma, e non potrebbe essere più certo di quel che dice, “è la nostra vita. Se provassimo a smettere, ne moriremmo.”
E Mycroft non può affermare il contrario, senza la certezza di mentire a se stesso.
Il confronto, la continua, spossante, corsa a quel primo posto, li vedrà protagonisti fino alla fine dei loro giorni. Moriranno insieme, Mycroft e Sherlock, senza dubbio alcuno, per non permettere l’uno all’altro di vantarsi per quel primato.
“Sai cosa, Sherlock?” Mycroft replica, puntando l’ombrello sul pavimento e osservandone l’estremità in ferro, “a volte mi chiedo se non sarebbe meglio, morire.”
Il più giovane storce il naso, inumidendosi le labbra secche.
“Immagina quanto noiosa sarebbe stata e sarebbe la mia vita, senza nessuno a disilludermi e nessuno da deludere” dice, e Mycroft sa bene che potrebbe scherzare come essere mortalmente serio, “meglio che le cose rimangano cosi come sono.”
Mycroft non è del tutto d’accordo ma non sa se dirglielo. Tutto quello di cui ha bisogno è di tornare a casa, bere due –forse tre- dita di qualcosa di forte e fumare quella sigaretta nascosta nel cassetto delle camicie. In realtà, non sa nemmeno perché si stia ancora trattenendo dal farlo.
“Lieto di esserti utile in qualcosa, fratellino.”
Suona così strana, quella parola, sulle sue labbra. E’ più un rimprovero, che un vezzeggiativo.
“E’ stata una strana mattina, Sherlock” poi aggiunge, ed entrambi sanno che è solo l’antifona a una nuova assenza, forse ancor più lunga di quella conclusa quel giorno, “ho compreso più aspetti di te in poche ore che in una vita intera.”
Sherlock sorride.
“E io ho confermato aspetti di te di cui ho sempre conosciuto l’esistenza.”
Un altro punto. Mycroft non vuole nemmeno più tentare di primeggiare, di sottolineare agli occhi di suo fratello il proprio indubbio valore.
“Uno scambio di idee reciprocamente vantaggioso, a quanto pare.”
“Concordo.”
E’ tutto ancora più strano.
Mycroft è in ritardo, adesso. Un’ora è trascorsa, in un minuto apparente. Vuole andare, eppure non ha mai sentito più intenso bisogno di restare. Non gli importa di Sherlock, della sfida, di essersi umiliato e di aver ricordato. Ha solo bisogno di qualcosa che lo aiuti a porre un passo oltre la soglia.
Qualcosa dice a Mycroft, e il viso di Sherlock può mentire fino a un certo punto, che suo fratello stia provando la stessa, identica sensazione.
Guarda in basso, alle mani, intrecciate tra loro.
“Grazie per la visita” Sherlock poi dice, come per spronarlo ad uscire, a congedarsi, a preferigli qualcosa di meglio, di utile, di più producente di un uomo ferito costretto a letto. “Chiedi a John di salire, quando esci.”
Sembra quasi voler dirgli che l’opera è compiuta, che è stato soddisfatto, che non gli serve più, che ha adempiuto al suo compito di fratello maggiore e che adesso potrebbero anche non vedersi più per altri due mesi.
“Certo” Mycroft risponde, sentendosi, inaspettatamente, di nuovo un bambino, tutto d’un tratto. “Non mancherò.”
E’ una strana forza a spingerlo a muoversi verso Sherlock, a cui non riesce a opporsi, nonostante se ne vergogni, nonostante la sua mente gli stia urlando di fare tutt’altro.
“Credo che ci vedremo prima di quanto tu pensi, Sherlock” è tutto quello che riesce a dire. “Sai quanto la mamma ci tenga, al pranzo di Natale.”
Sherlock chiude gli occhi e sospira profondamente, come chiamando a sé tutta la pazienza di cui ancora dispone. Pare che anche Sherlock dimentichi qualcosa, di tanto in tanto.
“Grazie per avermelo ricordato, Mycroft” dice, aspro, “credo che per quel giorno strapperò accidentalmente i punti alla mia ferita.”
“Credo che nessuno crederebbe davvero alla casualità dell’evento.”
“Ho tempo per escogitare un piano.”
Mycroft poi lo fa, quel gesto inaspettato che lo costringe a chiedersi cosa diamine sia successo all’uomo che ha varcato la soglia di quell’appartamento nemmeno due ore prima.
Sorride. Un sorriso vero, sinceramente divertito.
“Non sarò tuo complice nello spezzare il cuore a nostra madre.”
Sherlock non dice niente. Non proferisce parola su quel nuovo Mycroft che ha davanti e che, di certo, scomparirà una volta lasciata quella stanza.
“Si può sempre contare sul supporto della famiglia” conclude, ma non è arrabbiato.
Mycroft smette di sorridere e sente di nuovo, ancora più forte di prima, quel qualcosa che manca. Quel qualcosa di sconosciuto che potrebbe ricordare per sempre così come dimenticare la sera stessa.
Lo diceva sempre, sua madre, che nessuno porta mai ricordo di qualcosa che non ha nome.
Era accaduto con compagni di scuola incontrati e mai conosciuti. Era accaduto sfiorando il dorso di un libro senza mai soffermarsi sul titolo, prima di passare a quello successivo e a quello dopo ancora.
Così, Mycroft indulge in un gesto di cui nemmeno sembra accorgersi, in un primo momento. Così, Mycroft cede.
Tocca appena la mano di Sherlock con la sua in un tocco fugace, veloce, impercettibile. Dura meno di un attimo ed entrambi sembrano accorgesene soltanto quando ormai è finito. Si rendono conto di quel che è successo quando il tocco non c’è ormai più, quando tutto quel che è rimasto è la sensazione di qualcosa che è accaduto tanto in fretta da far dubitare a entrambi che sia stato qualcosa di più di un sogno, o lo scherzo di una mente stanca e provata.
Non ha sentito calore. Non ha sentito niente di niente, che sia un guizzo di affetto fraterno o un incommensurabile moto di protezione. Non è stato il languido sfiorarsi di mani di un romanzetto sentimentale, né qualcosa che ricorderà in eterno.
E’ stato, e basta.
Si chiede come Sherlock non abbia potuto prevederlo. Lo aveva detto, poco prima, che non lo avrebbe lasciato libero di rimediare.
Eppure. Eppure.
Quello che però non riesce a spiegarsi, è come abbia fatto a non aver avvisaglia delle proprie intenzioni prima che queste prendessero il sopravvento. Si chiede se stia diventando troppo vecchio, troppo instabile, troppo imprevedibile.
“Bene” Sherlock poi rompe il silenzio, divenuto fin troppo gravoso. “Ora credo davvero che tu debba andare.”
E’ spiazzato, confuso. Nervoso.
Si tormenta le mani come faceva da bambino, quando i suoi lo costringevano a partecipare alle festicciole dei compagni di scuola o alle gare di atletica.
Intreccia le dita tra loro fino a farle diventare bianche, come quando stringeva le sponde del suo letto d’ospedale, anni prima, nel pieno dell’astinenza.
Eppure sembra soddisfatto, in un certo qual modo, nonostante non ci sia dubbio che anche lui sia del tutto inconsapevole di quanto chiaramente lo stia mostrando, in viso.
Continua a fissare Mycroft come se fosse un uomo mai visto prima. Sembra scoprirlo a poco a poco, leggendogli dentro come fosse fatto di pagine e pagine e pagine, e lui le stesse scorrendo a un ritmo folle, desideroso di carpire di lui quante più informazioni possibili.
“Lo credo anch’io” Mycroft così dice, a bassa voce, distogliendo l’attenzione di suo fratello da sé e dirigendosi verso la porta. Pone una mano attorno alla maniglia quando Sherlock, inaspettatamente, parla di nuovo.
“Soltanto un’ultima cosa. Ti ha telefonato il Detective Lestrade, non è così?” è quello che chiede, senza alcun motivo logico.
Mycroft esita un secondo nel sentir pronunciare quel nome, ma rimane impassibile, serio. Annuisce.
“In persona” risponde. “In verità, ha detto che hai insitito tu affinché fosse lui a ragguagliarmi sulla situazione.”
Sherlock guarda altrove ma annuisce, e Mycroft può vederlo sorridere appena, perso com’è nella contemplazione di un punto indefinito della parete.
“Ho pensato fosse il più qualificato nel rapportarsi con te in maniera adeguata” continua, ponendo un accento particolare sull’ultima parola, “in un certo qual modo, anche più di John.”
Non ha granché idea, Mycroft, di dove Sherlock voglia andare a parare e, soprattutto, non capisce perché abbia voluto trattenerlo ancora dopo averlo praticamente invitato ad andarsene ben più di una volta. Così, lo asseconda.
“E’ stato, uhm, esaustivo” accenna, guardandolo sottecchi. “Rassicurante. E qui immagino che ancora non abbia ben compreso la natura del nostro rapporto.”
Sherlock annuisce, compiaciuto. Torna a guardarlo e le mani scivolano nuovamente ai fianchi: è più calmo, adesso. Non c’è più nulla sul suo volto, a parte una piega leggera delle labbra che è solo l’avvisaglia di un sorriso.
“Beh, sono sicuro che la mamma adorerà la cosmica vacuità della conversazione di Lestrade” Sherlock aggiunge, soddisfatto come se avesse appena raggiunto un agognato traguardo personale, “si lamenta sempre dell’eccessivo silenzio, a tavola. La troverà una novità stuzzicante.”
Mycroft si blocca sul posto, la mano ancora alla maniglia, un piede appena sulla soglia. Non riesce a credere a quello che ha appena udito.
Non gli chiede come faccia a saperlo perché non si pone una simile domanda, a Sherlock, senza che lui ti risponda con uno sguardo di sufficienza, accusandoti di non essere stato abbastanza sveglio, o di continuare ad essere un perfetto idiota, se la cosa proprio ti rende felice.
E’ la centesima volta, o forse millesima, quella mattina, che si domanda se stia realmente vivendo quella situazione o se sia ancora addormentato, sulla sua scrivania al club probabilmente, e immerso in uno stranissimo sogno.
Mycroft non lo sa. Quello di cui è certo, però, è che si sente bene, adesso.
Non c’è più traccia di nulla, sul suo petto. Non l’impronta del peso che lo aveva oppresso fino a poco prima, né altro indizio che porti a credere che qualcosa sia accaduto, lì dalle parti del suo cuore. Mycroft però sa che qualcosa c’è, che qualcosa esiste. Che è cambiato, per quanto non sembri. Che Sherlock è cambiato, e di conseguenza anche lui, come costretto a seguire il suo esempio.
E’ la prima cosa veramente bella che suo fratello ha fatto per lui, seppur non la meritasse. Seppure per la gente, là fuori, non fossero altro che perfetti estranei capitati chissà come a far parte della stessa famiglia.
Sente che presto la dimenticherà. Con ogni probabilità, lo farà.
Nel frattempo, però, sente il bisogno di godere di quel momento, forse l’unico nelle loro intere esistenze, a racchiudere una parvenza di affetto. Un affetto di cui nessuno dei due aveva mai avuto bisogno, da adulti, ma che entrambi stanno mostrando, loro malgrado, in una stanza buia, che puzza di disinfettante e sangue rappreso.
E’ squallido, e freddo. Eppure, va bene così.
“Ne sono certo, Sherlock” così Mycroft risponde. “Sarà un piacevole cambiamento.”
Sherlock fa un cenno con il capo, e così Mycroft. Rimangono a guardarsi ancora un po’, senza più nessun motivo che li spinga a farlo, se non la volontà, contrapposta a quella che li aveva animati fino a un secondo prima, di godere della reciproca compagnia ancora un po’.
“Ci vediamo presto, allora” Mycroft alla fine esclama. “A Natale.”
Sherlock annuisce. Torna a guardare di nuovo il vuoto, oltre Mycroft.
“A Natale.”
“Arrivederci, Sherlock.”
“Ciao, Mycroft.”

Non c’è rammarico, oltre quella porta adesso chiusa. Non oggi.
Non una mattina fredda di Dicembre, con la neve sui marciapiedi e il vento che sibila nelle stradine strette.
Ci sarà domani, o il giorno dopo, o fra una settimana, o a Natale, come ogni anno.
Non osa pensare al Natale a casa, anche se quest’anno la prospettiva è leggermente migliore rispetto a quelli precedenti. Sente il cellulare vibrare appena e non ha bisogno di sbloccare il display per sapere chi sia.
Suo fratello è a letto, John con lui, il Primo Ministro in viaggio e la Regina a passare l’Inverno a Norfolk. A quanto pare, Greg Lestrade è libero anche stasera, e lui sembra non avere altri impegni.
Si ritrova a sorridere appena, mentre scende le scale. Sembra un idiota, e probabilmente se Sherlock potesse vederlo lo apostroferebbe nello stesso modo, senza pietà.
Mycroft però, può sopportarlo. Oggi Sherlock ha perdonato, a modo suo, qualcosa che Mycroft non aveva mai creduto fosse anche minimamente meritevole di attenzione. E’ cominciato tutto con una cosa così semplice come lo sfiorarsi di due mani, ed è finita con lo scontro tra due cuori, aridi e disabituati a un tipo d’amore che nessuno dei due aveva mai sperimentato abbastanza.
Si sono stretti la mano in segno di momentanea resa pur non avendolo realmente fatto. Hanno riconosciuto entrambi quel che sono stati, e che non saranno mai più. E’ un armistizio che è sicuro gioverà a entrambi, nonostante sia certo che non durerà per sempre.
In fondo, però, non ha bisogno realmente che duri. Le cose stanno bene così come sono, in un certo qual modo.
Lo strano presente di questa mattina di Dicembre è accettabile.
Quel che sarà poi, non gli importa.

 

 

 

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