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Autore: Ghen    06/01/2015    7 recensioni
Irina e Marlena si sono conosciute a dodici anni e non sono più riuscite a separarsi; innamorate, credevano che mai niente avrebbe potuto separarle. Purtroppo la Russia si stava preparando per un grande cambiamento che avrebbe ostacolato le vite delle persone lgbt, in prima linea San Pietroburgo.
«Cosa facciamo se ci scoprono?».
«Non ci scoprono».
«Ma se succede… Cosa-».
«Fa’ finta che siamo grandi amiche».
«Io non bacio le mie amiche».
«Non mi baciare».
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Benvenuti se nel rispetto
della legge russa.
Non devono imporre
le proprie abitudini
agli altri.
Diciamo solamente che è
affare vostro,
è la vostra vita privata,
ma qui nel Caucaso dove viviamo
la cosa non è accettata.
Non ci sono gay nella nostra città.
(Anatoly Pakhomov, sindaco di Sochi.
Sochi 2014, Olimpiadi)







Vincitrice del premio Miglior San Pietroburgo Drammatica al contest
"Le notti bianche di San Pietroburgo" indetto da Primavere Rouge; banner di Yuko Chan.






»~***~«



Quando Irina le parlava di voler diventare giornalista, da grande, Marlena rideva. Era un mestiere diverso dai soliti sogni adolescenziali, che vedevano protagoniste cantanti, attrici, stiliste o modelle. Lei rideva ma non la prendeva in giro; Marlena la trovava diversa dalle altre ragazze, quella diversità piacevole che l’aveva da subito attratta a lei. Le raccontava ciò che sarebbe diventata con quello stesso sguardo sicuro di sé che l’aveva colpita la prima volta, alla mensa della scuola, quando avevano dodici anni. Era una ragazzina nuova e doveva sentirsi spaesata, insicura, forse impaurita, invece Irina camminava a testa alta fra gli studenti e si faceva spazio per arrivare ai tavoli, incurante che non conoscesse nessuno, che era sola. Marlena l’aveva intravista e si era incantata; quello sguardo l’aveva rapita e ancora prima di dare un nome a quella sensazione, già sapeva che quella ragazzina dai boccoli biondi sarebbe stata la sua lei per sempre.
«Perché proprio giornalista?», le domandò in un sorriso, nascondendo poco dopo l’apparecchio ai denti.
«Non ridere», la punzecchiò ad un braccio. «Perché vorrei dare voce alle storie di tutti».
Marlena si allungò verso le labbra di Irina e le portò via un bacio, per poi riprendere a ridere, e lei la spintonò per l’imbarazzo, prima di afferrarla e attirarla a sé, in un abbraccio. Amava la sua innocenza e spensieratezza; non le dava fastidio quel suo modo di ridere di lei poiché era rassicurante, era ciò che le infondeva speranza, quando si accorgeva di aver lasciato i piedi ancorati a terra troppo a lungo.


против мира Contro il mondo


Il venticinque gennaio duemilatredici, San Pietroburgo approvò in prima lettura la legge contro la propaganda gay: non si potrà più parlare di omosessualità per tutelare i minori che non devono venire a conoscenza della sua esistenza. Furono messi al bando eventi e manifestazioni, vietati i pride e multe salatissime aspettavano chiunque si permetteva di esprimere un’opinione al riguardo. Pochi la chiamarono una nuova caccia alle streghe, gli attivisti sconfitti e trascinati via dalla polizia con calci e pugni da un raduno, mentre la maggioranza dei cittadini applaudiva soddisfatta della nuova legge che, secondo loro, avrebbe permesso alla Russia di crescere e rafforzarsi, seppellendo i cittadini lgbt nella paura.
Marlena fissò il telegiornale con terrore; gli occhi le tremavano e riusciva a stento a respirare, con il cuore in gola che le proibiva di ingoiare il pranzo. Sua madre rise fiera, incurante di ciò che provava la sua figlia sedicenne, a poco da lei. Si lasciò scappare qualche commento di approvazione e la ragazza trattenne il fiato, sperando di non essere notata, di non essere interpellata, di poter diventare invisibile. Scappò appena riuscì.

Irina la tenne fra le sue braccia minuti interminabili, talmente tanti da sembrare giorni. Si nascosero dentro uno dei locali di un museo chiuso da mesi e si accostarono a una finestra, sedendo davanti ad essa, sul davanzale. Marlena tremava ma non per il freddo. L’altra sapeva di dover fare qualcosa.
«Ehi, che ti prende? Ti stai ammalando?», le domandò, tentando un sorriso. Marlena non rispose e Irina pensò bene di strattonarla un po’, sperando di farla rinsavire. «Devo riportati a casa?».
«No, ti prego! A casa no», mugugnò, alzando poco dopo il viso rosso e umidiccio. «Hai visto la tv? Il tg? Cosa facciamo?».
«Andiamo a correre», la fissò dritta negli occhi vitrei.
Marlena s’imbronciò e ritornò a tuffarsi contro al suo petto, irritata. «Dicevo sul serio, Ira».
«Anch’io», rispose, passandole le mani sulla schiena, tentando di scaldarla e rassicurarla. «La legge è passata, e allora? Vuoi rannicchiarti in un angolo ad aspettare che tutto finisca? Oppure vuoi passare tanto bel tempo in compagnia della tua ragazza?».
«Ma…», trattenne la bocca a mezz’aria, allontanandosi un poco dall’altra. «Se lo scoprono…».
«Non lo scoprono. Nessuno», le sorrise, scuotendo lentamente la testa. «Questa è la nostra città, Marla; non è solo degli omofobi. E mia e tua quanto loro. E io voglio viverla. Non ci succederà niente, te lo prometto».
La sua sicurezza catturò ancora una volta Marlena. Non poteva non crederle quando la fissava in quel modo. Irina aveva il potere di calmarla e farla sentire al sicuro.

»~***~«

Nevicava da giorni ormai e San Pietroburgo era diventata una grossa e unica palla di neve. Piazza del Palazzo si era trasformata in una lunga distesa bianca e molti erano i bambini che si lanciavano in dure e sonore battaglie. L’aria che si respirava era fredda non solo per via della neve e Marlena si manteneva le mani con nervosismo, assicurandosi di tenerle a sicura distanza da Irina, al suo fianco. Restarono lì immobili a fissare quell’assenza di colore assoluta, fra il candore che cadeva dal cielo e lo stesso cielo, bianco e chiuso. Sembrava di essere in un mondo a parte, catapultate laggiù per errore, quasi da far sentire ad Irina odore di libertà. Avevano già visto tantissime volte quel paesaggio, ma questa era la prima volta che sembravano viverlo e respirarlo davvero.
Irina scrutò con la coda dell’occhio l’altra ragazza e il suo sguardo cupo quanto il cielo che le mozzò il fiato, infastidendola.
«Attenta!». Rapida, lanciò una mano sotto il folto strato di neve e raccolse quanto bastava per scagliarglielo contro, cogliendola del tutto di sorpresa.
Marlena cadde a terra con stupore, lamentandosi del freddo. Tuttavia, non ci volle molto per farla ripartire all’attacco: raccattò una grossa palla di neve in fretta e Irina cominciò a correre, prima di vedersela gettata addosso, imbrattandole il giubbotto.

«Cosa facciamo se ci scoprono?».
«Non ci scoprono».
«Ma se succede… Cosa-».
«Fa’ finta che siamo grandi amiche».
«Io non bacio le mie amiche».
«Non mi baciare».

Quella palla di neve la centrò in testa e Irina cadde a terra fingendosi morta, inseguita da una Marlena pregna di risate. Si fermò a poco da lei, in piedi. Gli occhi chiusi, i capelli fuori posto che si stavano ribellando alla cuffia, le labbra carnose e rosse, immobili, che aspettavano solo lei. Il cuore di Marlena accelerò i battiti e si accostò alla ragazza, inginocchiandosi. Le guance di Irina avevano l’aspetto delle mele rosse appena colte e Marlena allungò una mano per toccarne una, passando il dito indice, flebile. Vide la ragazza sussultare ma restare perfettamente immobile. Cosa si aspettava, da lei? Un bacio? Sotto il cielo chiaro? Sarebbe stato perfetto.
Marlena si accostò a lei lentamente ma uno schiamazzo la fece sussultare e si guardò attorno come una ladra, vergognandosi. Recuperò poca neve con una mano sola e rialzandosi la gettò addosso ad Irina, sul giubbotto già bianco, destandola. Le sorrise, facendo finta di niente e iniziando a correre. «Adesso prendimi».
Le aveva detto di non baciarla.

A dodici anni, era stata sopraffatta da qualcosa di nuovo e soprattutto inaspettato: l’amore. A dire il vero, molte ragazzine della sua età si vantavano di aver già avuto parecchi ragazzi e chissà quali esperienze, ma Marlena era troppo bambina per pensarci e per prendersi sul serio. Non aveva ancora ben chiara la definizione di amore: i suoi genitori si erano separati prima che lei nascesse e non aveva mai visto un loro abbraccio o un loro bacio. Suo padre se ne andò e sua madre preferì restare single. Alcuni degli uomini che portava a casa abitualmente erano già sposati, ad ogni modo.
Riconobbe l’amore dai genitori dei suoi compagni di scuola e si chiese com’era, di tanto in tanto, sfiorare e toccare qualcuno in quel modo così intimo. Irina cambiò ogni sua visione delle cose. Era una ragazza. S’innamorò di lei senza sapere cosa fosse l’amore e la baciò senza sapere cosa fare, scoprendo a quel punto, come se fosse una grande novità arrivata in leggero ritardo, che non si trattava di un ragazzo. Non c’erano dubbi: aveva i capelli alle spalle, si metteva il mascara, aveva un viso dolce e angelico. Nessuno poteva scambiarla per un ragazzo ma finché non toccò quelle labbra e si accorse che non c’era nulla di sbagliato, non pensò di essersi cotta di una ragazzina. Scoprì che era diverso ma straordinariamente uguale.
Faceva un po’ strano, forse, pensarci. Tutte le sue amiche avevano un ragazzino che faceva loro regali e ciarlavano di grande amore, mentre lei aspettava l’uscita di scuola per vedere Irina e parlarle. Facevano il ritorno a casa insieme e si salutavano con un bacio sulle labbra, fresco, a stampo, quando nessuno le vedeva.
Si sentivano padrone del mondo e ridevano, poiché erano felici nella loro innocenza, sicure che mai nulla avrebbe cambiato ciò che provavano l’una per l’altra e la loro vita. San Pietroburgo poteva apparire fredda ma era speciale e ricca di colori, che le faceva sentire protette, a casa, parte di tutto. Loro si sentivano vive e parte di qualcosa.

»~***~«

«Vuoi avere dei figli?».
Quella domanda spiazzò Irina, che spalancò i suoi occhi. Marlena appariva incredibilmente seria e non distolse lo sguardo da quello dell’altra che, al contrario, si costrinse a guardare in basso, sporgendosi un poco sul ponte, tentando di vedere il suo riflesso nello specchio d’acqua.
«Non-Non lo so», brontolò, colta alla sprovvista, «Non ci ho mai pensato».
Come poteva pensarci? Irina aveva sempre saputo che le piacevano le ragazze e non i ragazzi. Aveva accettato da così tanto tempo l’idea di non poterne avere, da non essersi mai seriamente posta quella domanda. Sarebbe stata una buona madre? Cosa avrebbe potuto insegnare ai suoi figli? Loro le avrebbero voluto bene?
«Dovresti», rimbeccò Marlena.
«Vuoi lasciarmi?», si rivoltò a lei, sentendo la breve brezza del primo pomeriggio sulla pelle.
«No», rise lei, battendole una pacca su una spalla. «Sei seria? Su internet ho visto che all’estero è possibile per le coppie di donne avere dei bambini. In tanti paesi ne fanno a centinaia, anzi migliaia», raccontava con una luce negli occhi, «Crescono con due mamme, vanno a scuola, hanno degli amici, stanno bene! Sarebbe bello, no?».
Nonostante il vento freddo sulla pelle, Irina sentì improvvisamente caldo. La sua faccia andava in fiamme.
Si chiedeva come avesse fatto ad estrapolare da internet quelle informazioni, ora che il governo stava pensando di censurare tutte le notizie positive riguardanti l’omosessualità, ma non riuscì a fargliene parola, deviando l’argomento. «Non lo so. Tu vorresti dei bambini?». Sapeva già la risposta a quella domanda e sorrise ancora prima di risentirla parlare: il fervore con cui trattava l’argomento era sufficiente. Marlena voleva dei bambini.

«Ti sei mai innamorata di un maschio? Sì… di un ragazzo, insomma», le chiese Irina quel giorno, mentre camminavano rapidamente verso casa. Il cielo di San Pietroburgo si era fatto scuro all’improvviso e nessuna delle due famiglie voleva che le loro figlie restassero fuori da sole, d’inverno. Anche se erano appena le diciassette e un quarto, avevano solo tredici anni.
«No», Marlena scoppiò in una fragorosa risata, sistemandosi i guanti alle dita per non far trapelare l’imbarazzo, arrossendo appena.
«Quindi non sai com’è baciarli», concluse l’altra, non trattenendo un’aria di superiorità.
«Tu l’hai fatto?».
«Sì, ero curiosa».
«E allora?».
«Troppa bava».
Scoppiarono a ridere all’unisono e si presero per mano, prima di separarsi e prendere due vie l’una l’opposta dell’altra. C’era gente, il saluto doveva essere breve. Si scambiarono un’intensa occhiata e i guanti di Marlena sfilarono via sotto quelli di Irina.

«Se…», Irina alzò un po’ troppo la voce e la ridimensionò a breve, portando un piede sopra un ghirigoro della ringhiera del ponte, inspirando l’aria che trasportava l’acqua del canale. «Se tu dovessi stare con un ragazzo…», prese una breve pausa e Marlena si voltò a lei lentamente, «sarebbe più facile. Se nessuno dei due è sterile, i figli arrivano. E non ci sarebbe bisogno di andare all’estero».
L’altra corrugò lo sguardo. Irina odiava farla arrabbiare ma voleva che pensasse a quella possibilità. Marlena non era come lei: non si era mai dichiarata lesbica allo specchio, non aveva baciato dei ragazzini solo per il gusto di scoprire cosa sentissero le altre ragazzine della sua età, non aveva litigato con suo fratello maggiore che voleva imporre la lapidazione per i gay che, secondo lui, portavano malattie. Marlena si era innamorata di lei per la prima volta ma erano poco più che bambine ed era certa che poteva ancora scoprire di provare qualcosa per dei ragazzi. E ora più che mai, dopo quella legge e come le cose stavano progressivamente cambiando, doveva pensare di poter essere come tutte le altre e sperare di vivere almeno un po’ serenamente.
«Non ci pensare neanche». Marlena strinse i denti e si guardò avanti e indietro, accostandosi un poco all’altra, per parlarle sottovoce. «Io amo te, va bene?».
«Va bene ma…», prese respiro ma le scappò mezza risata, infastidendo la sua ragazza. «Dico in futuro, non ora», rise. «In futuro potresti anche amare un uomo con la lunga barba, che ne so… Ma al momento, non ti condivido con nessuno, tranquilla».
«Sei una scema», le scagliò un piccolo pugno contro a un braccio e Irina rise ancora più forte.

»~***~«

Nei mesi seguenti, un gruppo che si proclamava contro la pedofilia, cominciò a postare su vk video di giovani ragazzi gay torturati e umiliati, adescati con falsi incontri su internet. Picchiati, rasati, li obbligavano a fare coming out con la famiglia mentre li cospargevano di piscio il capo e li spogliavano, fino a farli piangere e farli vergognare di essere stati messi al mondo. Molti di quei ragazzi furono sbattuti fuori casa dalla famiglia e altri si uccisero poiché non reggevano più le umiliazioni. La polizia non fece nulla e i video cominciarono ad aumentare, ad incrementare sempre più e a ricevere consensi, spopolando nel web russo. Il capo del gruppo, Maxim Martsinkevich, era invitato nei talk show a parlare delle sue azioni per ripulire la Russia dai gay. Il tutto mentre, dall’altro lato del globo russo televisivo, l’attore Ivan Okhlobystin, affermava di voler portare tutte le persone gay nei forni crematori.
Marlena aveva smesso di guardare e ascoltare la televisione. Aveva cominciato ad avvertire paura ogni volta che sua madre l’accendeva e sentiva da lontano, nella sua camera, le sigle dei tg. Irina le aveva detto che tutto sarebbe andato bene ma non riusciva a dormire più, né a stare al fianco di sua madre. Avrebbe voluto scappare dall’inferno ma non sapeva come: non aveva un lavoro, stava ancora andando a scuola, non conosceva nessuno fuori dalla Russia. San Pietroburgo era la sua casa ma aveva sempre più paura di lei e di quello che la gente del luogo stava facendo, di quello che pensavano. Usciva e si guardava attorno come se da un momento all’altro qualcuno potesse rapirla e portarla via, ucciderla. Se fuggire dalla sua vecchia casa non fosse stato l’unico modo per vedere Irina, si sarebbe data per malata per non dover più uscire dalla sua stanzetta. Quelle quattro mura erano sporche e fredde, ma le sembravano l’unico posto sicuro al mondo, oltre le braccia di Irina.
Aveva tolto parecchi poster di cantanti donne per paura che sua madre potesse accorgersene, e aveva fatto sparire anche le riviste, sotto al suo letto. Non accedeva più nemmeno quella piccola televisione in bianco e nero nella sua cameretta per il terrore di sentire un altro politico esternare la sua repulsione per le persone omosessuali. Ovunque si voltasse riusciva a percepire l’odio che il suo piccolo mondo provava per quelli come lei.

»~***~«

«Hai saputo di Sergey Petrov?».
Irina spostò la sua schiena più indietro, tenendo meglio Marlena fra le sue braccia, dando appena uno sguardo lontano oltre la finestra, al cielo ancora pallido delle notti d’estate. «Sì», sospirò.
«Si è ucciso», prese una pausa, tentando di deglutire con la forza, nella gola troppo secca. «Aveva solo quattordici anni».
«Già».
L’avevano intravisto parecchie volte a scuola, con quello sguardo ancora troppo fanciullesco, corporatura esile, pallido. Tutti sapevano che era gay, non ne aveva mai fatto un mistero. Aveva pochi amici ma buoni. La sua famiglia non sapeva della sua omosessualità e quando quel video cominciò a circolare in rete, nessuno di quegli amici lo accolse. Fecero finta di non conoscerlo. Era diventato un disadattato. I genitori volevano portarlo in cura e lui scappò di casa. Non lo rividero più per giorni e, poi, il suo corpo senza vita, accanto alla casa dei nonni.
«La chiamano legge a tutela dei minori ma…», Marlena riprese a parlare trattenendo a stento le lacrime, con il cuore in gola che come un macigno sperava di ingoiare e buttarlo giù, «Lui aveva quattordici anni, era un minore. Non era un assassino o un delinquente, era spaventato… E noi? Non avevamo dodici anni quando ci siamo messe insieme? Non eravamo bambine? Non siamo minori anche adesso? Dov’è la tutela dei minori?», chiuse gli occhi e le lacrime scesero involontarie, ricordando il viso di Sergey dall’altro lato del cortile della scuola, che sorrideva, giocando a palle di neve con quelli che avrebbero dovuto aiutarlo, i suoi amici.
Irina doveva averla sentita piangere perché aumentò la stretta e le baciò i capelli, respirandole sopra. «È uno specchio per allodole, Marla», sussurrò. «Se a loro interessava qualcosa dei minori si adoperavano per proteggerli e trovare casa ai milioni di bambini negli orfanotrofi», prese respiro. «Lo sapevi che stanno chiudendo le adozioni internazionali ai paesi che approvano le nozze gay? Da anni le hanno chiuse agli Stati Uniti, anche se per un motivo diverso… Cosa resta se tutti i paesi civili vengono esclusi, la Nigeria?», si lasciò scappare mezza risata, malinconica. «Da poco è successo alla Francia». Marlena si voltò a lei, incuriosita, e Irina sorrise. «Sono stata adottata», spiegò poco dopo, «Non ricordo molto dei miei primi anni lì, per fortuna… Ma ho letto su internet testimonianze terribili e sono felice di essere stata presa».
«Non me lo avevi mai detto…».
«Non lo ritenevo importante. Io sono stata fortunata perché i miei genitori non potevano più avere figli e mia madre voleva una bambina, o… chissà… Sempre meno famiglie adottano, anzi», tirò su con il naso, allontanando nuovamente il suo sguardo oltre ai vetri della finestra, appannati dai loro respiri, verso gli schiamazzi dei ragazzi che facevano baldoria sotto al vecchio museo.
Marlena non se lo sarebbe mai aspettato. Tutti nella famiglia di Irina erano biondissimi e giurava di intravedere una somiglianza fra lei e sua madre.
«I miei non vogliono che si sappia», aggiunse poco dopo. «Me lo hanno fatto giurare. E, comunque, quei pazzi del gruppo contro la pedofilia colpiscono solo maschi. O almeno al momento».
Marlena si accovacciò ancora fra le sua braccia. «Solitamente è così… I maschi vengono picchiati», lasciò la frase in sospeso, lasciandole il tempo di deglutire, «Le femmine stuprate».
Irina spalancò i suoi occhi, mordendosi un labbro. Non era ancora successo a San Pietroburgo, da che sapessero. Sapeva che in molti paesi, come in Africa, si usava rapire le donne lesbiche e stuprarle, per guarirle dalla loro condizione, si giustificavano. Spesso erano gruppi di uomini a fare loro del male e se reagivano venivano picchiate ancora più forte, o anche uccise. Il fatto che anche Marlena sapesse di queste pratiche le raggelava il sangue.
«Andiamo a fare un giro? Voglio vedere la fiera».
Irina la trascinò giù dal davanzale della finestra e Marlena non azzardò più il discorso.
Era notte ma il cielo era ancora bianco e tutto era in moto: la gente andava e veniva, le biciclette venivano lasciate passare dai turisti e i banchetti erano colorati e caldi, festosi. Solo nelle fiere la città pareva risplendere orgogliosa delle sue luci e della sua atmosfera calda nel gelo come non mai. Irina avrebbe voluto prenderla per mano e passeggiare, guardando con curiosità la merce e parlare con i gentili venditori del tempo e delle offerte, ma sapeva bene che non era loro concesso. Non osò neppure provarci per non trasmettere quel pensiero a Marlena, perché le avrebbe fatto male sapere di non poter essere come tutte le altre coppiette che le circondavano.
Iniziarono a correre per la strada alla ricerca di tutto ciò che destava il loro interesse, provandosi cappelli e guanti dalla forma strana, parrucche, esaminando giocattoli e odorando fiori finti profumati. Ridevano e si rincorrevano, felici di essersi distratte, di essere se stesse almeno un po’, di essere ancora ragazzine e di poter ridere senza essere giudicate. Corsero lungo la strada finché non raggiunsero la chiesa del salvatore sul Sangue Versato e si guardarono attorno meravigliate, alzando lo sguardo: l’avevano vista tantissime volte ma era ancora pregna di fascino e sembrava essere lì solo per accoglierle. San Pietroburgo era lì per loro, ancora una volta.
«Ehi», una voce poco distante prese il loro interesse ma si voltarono appena, continuando a camminare. Un gruppo di ragazzi si era messo a seguirle ma non avevano intenzione di fermarsi: li conoscevano, erano nella loro scuola, alcuni forse avevano conosciuto Sergey. Ed erano ubriachi. «Ehi, cazzo», uno di loro allungò un braccio e afferrò quello di Irina, bloccando le due. «Vi stavamo chiamando. Noi», indicò il gruppo e se stesso e poi le due ragazze, «ci conosciamo».
Marlena si guardò attorno e poco dopo rispose per entrambe, mentre il ragazzo lasciava andare il braccio della sua ragazza. «Forse… a scuola». Irina non sembrava approvare l’avergli dato l’informazione.
«Giusto!», rise lui e gli altri fecero altrettanto, alzando le loro bottiglie semivuote di birra. «E vi chiamate…».
«Marl-», lei stava per rispondere ancora, quando Irina la fermò con la voce sulla sua, tirandola un po’ indietro.
«Lasciateci in pace».
«Eh, wow, non vi abbiamo mica toccato», dichiarò un altro, con l’alito che sapeva di alcol.
«Vogliamo solo uscire con voi, possiamo?», chiese il primo, mostrando loro un breve inchino, sbandando e faticando a reggersi in piedi. Le due si scambiarono una breve occhiata e Irina poggiò una mano sulla schiena di Marlena, decidendo di andarsene. Il gruppo cominciò ad innervosirsi, lamentandosi, e il primo di loro le fermò ancora, ponendosi sui loro passi. «Cazzo, vogliamo solo divertirci, che male c’è? Vi abbiamo trattato male, per caso?», alzò le braccia all’aria, ricevendo consensi dagli amici, «Vi abbiamo dato delle troie? No, vogliamo solo fare una passeggiata con voi e conoscerci un po’», scambiò sguardo col gruppo e proseguì, grattandosi il naso, «Non siete mica lesbiche, vero?». Tutti cominciarono a ridere e Marlena si ghiacciò, bloccandosi, iniziando a respirare affannosamente.
«Mi piacciono le lesbiche», affermò uno in fondo al gruppo, alzando la sua bottiglia al cielo.
«Potremmo esserlo anche solo per non essere abbordate da voi ubriaconi». La voce di Irina era fredda, calcolata, scostante.
Il gruppo ripiegò il rifiuto in risate e, quando il primo ragazzo stava per poggiarle una mano addosso, un’altra mano lo fermò, riportandogliela indietro. Irina e Marlena alzarono i loro sguardi impauriti e la prima sbuffò, vedendo suo fratello.
«Desiderate qualcosa da mia sorella e dalla sua amica, per caso?». Il suo volto appariva irato ma controllato. Il gruppo se ne andò poco dopo, insoddisfatto, e Irina trascinò via Marlena a breve, pur di non avere a che fare con il ragazzo.

»~***~«

Aveva paura, non parlava, continuava a tenersi le mani fra le braccia e guardava raramente qualcuno in faccia. Aveva quasi tre anni ma non era una bimba vivace, ci mise davvero molto ad ambientarsi nella sua nuova casa. Si chiamava Inga, ma quella donna, che desiderava tanto essere chiamata mamma, le cambiò nome in Irina come la sua amata nonna, scomparsa pochi mesi prima. La piccola capì presto la sua prima lezione: se non rispondeva al nome di Irina, quella donna la metteva in castigo. La famiglia lasciò San Pietroburgo poco tempo dopo l’adozione, poiché nessuno scoprisse che l’ultima arrivata in famiglia non aveva il loro stesso sangue. I signori Kozlov erano autoritari e cedevano in carezze così raramente che Irina ringraziò di non essere la sola bambina in casa: Denis aveva sette anni, era un bambino allegro e disordinato, ma più di tutto, un bravo fratello maggiore. Aveva imparato in fretta a saperci fare: le dava il bacio della buonanotte, le insegnava a giocare, a non nascondersi il pane nelle tasche perché nessuno glielo avrebbe portato via, la spronava a parlare, a camminare come una signorina beneducata come la voleva la loro mamma e a sapersi difendere. Denis era sempre al suo fianco, come al suo primo giorno di scuola e quando provò a farsi le sue prime amiche. Il tempo cambiò ogni cosa. Denis era più grande, frequentava amicizie troppo diverse e a volte non tornava a casa per giorni, poiché restava fuori con la sua band musicale. Voleva che anche Irina imparasse a suonare la chitarra ma lei non ci sapeva fare e la loro madre rise, all’idea. Secondo i loro genitori, Irina, come anche Denis, erano destinati a diventare avvocati o magari magistrati. La loro era una famiglia di generazione molto ricca e rispettata e speravano che i loro figli potessero riprendere le loro radici. Si trasferirono di nuovo a San Pietroburgo quando Irina aveva ormai già compiuto dodici anni, in modo che entrambi i figli potessero crescere nel pieno dell’arte e della cultura del loro stimato paese.
Irina credeva ancora di avere il fratello al suo fianco e che ci sarebbe stato sempre, e forse lo credeva anche Denis, finché non scoprirono di avere idee diametralmente opposte su vari argomenti, come l’omosessualità. Denis forse pensava che a sua sorella sarebbe passata, che avrebbe aperto gli occhi alla sua visione del mondo e che non era nulla di grave, ma Irina pianse notti intere quando seppe da un amico a scuola che un gruppo di ragazzi picchiò un ragazzino solo perché creduto omosessuale, tra cui c’era anche suo fratello. Sentì la terra tremarle sotto i piedi, tutte quelle sue certezze che se ne andavano, che si sgretolavano come un’unica grande bugia. Era felice di sapere di avere al suo fianco Marlena, perché capì solo in quell’istante di essere nuovamente sola, come quella bimba che aveva vissuto i suoi primi anni di vita chiusa nelle mura di un orfanotrofio.

»~***~«

Il telefono squillò per parecchio tempo prima di sentire quella voce. Irina teneva davanti il suo tablet su una pagina internet che le segnava errore e la televisione spenta. Sbuffava e si lamentava a bassa voce, allungando lo sguardo e assicurandosi di avere la porta della stanza perfettamente chiusa.
«Pronto? Irina Kozlov?». La voce un po’ spenta e stanca dall’altro capo del telefono le parve come una scintilla in un mare di tenebra.
«Slava, sì, sono io, che piacere risentirti», sospirò, tenendo a freno i batti del suo cuore. «Temevo fosse successo qualcosa di brutto, non ha risposto nessuno al numero del locale e... la pagina web è sparita? Non riesco a trovarla».
L’altra voce ci mise un po’ a rispondere. «Il locale non c’è più, Irina», si concesse una pausa, «Non hai letto nel giornale? Dei balordi gli hanno dato fuoco l’altra notte», inspirò, parve mantenere delle lacrime, «Abbiamo perso tutto. Per fortuna era chiuso, non oso immaginare cosa sarebbe successo se…».
Irina trattenne il fiato e spalancò gli occhi. Ultimamente San Pietroburgo non era più sicura per nessuno, ma lo era ancor meno per i locali da sempre aperti alle coppie omosessuali e alle associazioni lgbt. Molte osterie e bar avevano chiuso i battenti poco dopo l’approvazione della legge, per non incorrere a guai, ma alcuni temerari si erano decisi a rischiare e a lottare per i propri diritti, finendo per essere aggrediti, intimoriti, e infine questo. Nonostante tutto, quel locale era una roccaforte di San Pietroburgo e, ingenuamente, aveva sempre pensato che nessuno lo avrebbe toccato.
«Irina?», la chiamò per assicurarsi che stesse bene, non sentendo più la sua voce. «Hanno ucciso il gatto di Vladimir, è stata colpa nostra, dovevamo fermarci e chiuderlo per sempre, non solo per pochi giorni».
«No, no», inspirò, tentando di trattenersi, passandosi una mano fra i capelli sciolti. «No, avete fatto bene! Si deve continuare a lottare, Slava! Non possono proibirci di esistere».
«La pagina web è stata censurata dal governo. È quello che stanno facendo, Irina. E stanno vincendo».
La porta della camera si aprì di soppiatto e presa alla sprovvista cominciò a nascondere il cellulare su una spalla e il tablet sulla pancia, anche se le dava solo una pagina bianca. Denis entrò incurante della sua sorellina sul letto e lasciò la porta aperta, indirizzandosi verso la lunga pila di cd masterizzati su un mobile, sfogliando con interesse. La loro madre stava camminando nell’andito quando si fermò alla porta aperta, schifata dal disordine della stanza e intimando ai due di riordinare immediatamente. Irina sentiva la voce di Slava che la cercava ma non poteva rispondere con suo fratello nella sua stessa stanza. Lui prese un cd e stava per dirigersi alla porta quando si bloccò e si voltò a lei, con fare curioso.
«Un mio amico vuole conoscerti», le disse e Irina deglutì. «Ha detto che sei carina e gli ho detto che sei single. Ci stai? Te lo faccio conoscere uno di questi giorni». Alla faccia impallidita di Irina, decise di non aspettare risposta, «Gli dico che va bene! Non beve… o almeno non entro la settimana. Ora puoi rispondere, eh», sforzò un sorriso e lasciò la stanza, richiudendo la porta.
La voce di Slava continuava a richiamare la sua attenzione ma Irina abbassò il capo, sentendo il suo cuore battere rumorosamente.
«Slava?». Quando riprese il telefono, la ragazza dall’altro capo tirò un sospiro di sollievo e aspettò che continuasse. «Devo chiederti una cosa».

»~***~«

Era notte e lo sarebbe stata per poco. Le notti bianche d’estate creavano una certa dipendenza alle persone di San Pietroburgo, che distinguevano appena il giorno dalla notte: il buio calava per poche ore e poi era già mattino. Marlena aveva provato a chiamare Irina per tutta la notte ma il suo telefono era spento, così decise di uscire dalla finestra, in barba al coprifuoco imposto dalla madre. Sapeva dove poteva trovarla e passò per Piazza del Palazzo come una ladra, sperando di non incrociare i padroni delle voci rumorose che echeggiavano per la piazza scura. Imboccò una via e poi una più piccola e stretta, accostandosi ad una finestra dal vetro rotto. Sollevò una grondaia e facendosi aiutare da una mattonella sporgente saltò per la finestra, rimettendo tutto apposto.
Aprì la porta cigolante di quel salone vuoto con lentezza, osservando Irina sul cornicione, illuminata dai raggi della Luna. Era immobile e con lo sguardo rivolto alla finestra; solo quando udì la porta e si passò una mano sul viso, si voltò, scoprendo gli occhi gonfi di lacrime.
Marlena si sentì pugnalare. Mai come in quel momento capì, per la prima volta, come era Irina ad aver disperatamente bisogno di lei. La ragazza tanto sicura di sé si sentiva persa e sola senza le mani calde di Marlena sulle sue, senza il suo sorriso e quella voglia di divertirsi e giocare, di vivere.
Si accostò piano e vide, in un angolo della camera impolverata, una lunga coperta distesa a terra, a fianco dei plaid e uno zaino colmo.
«Cos’è successo?», le domandò preoccupata, accostandosi ancora. «Ho provato a chiamarti tante volte ma non rispondevi».
Irina balzò dal cornicione e le stampò un bacio sulle labbra, per poi sorriderle. «Vuoi sposarmi?».
«Eh?», spalancò i suoi occhi e l’altra rise.
«Non ora, sciocca! Un giorno! Un giorno non lontano! E potremo avere dei bambini», le prese le mani nelle sue e gliele strinse forte, mentre Marlena allungava ancora una volta lo sguardo allo zaino a terra. «Ho parlato con Slava oggi e ha detto che mi fa sapere».
«Per cosa?».
«Ce ne andiamo», sorrise entusiasta, «Possiamo chiedere lo status di rifugiate a paesi come gli Stati Uniti! O anche all’Italia, per dire, mi starebbe bene al momento, tutto pur di non stare qui».
Marlena rise. «Non credevo che in Italia ci fosse la legge sulle nozze gay».
«No infatti, ma potrebbe arrivare prima lì che qui», rispose, «O magari andare lì e poi spostarci».
«Siamo minorenni… E io ancora devo finire la cura per l’apparecchio ai denti», sorrise con malinconia, «Non ci faranno andare da nessuna parte senza autorizzazione dei nostri genitori».
«Ecco perché ha detto che mi fa sapere».
La baciò ancora e Marlena l’abbracciò. «Mi piace», commentò, «Possiamo andare ovunque, vedere il mondo».
«Sì e poi stabilirci dove ci piace di più».
«Avremo una casa grande».
«E dei cani».
«E bambini», gioì Marlena. «E tu puoi fare la giornalista».
L’altra annuì. «Potrò dare voce a tutti e non rischiare che vengano inascoltate! Tutti hanno bisogno di avere qualcosa in cui credere».
«Adesso ho capito perché vuoi fare la giornalista».
Marlena si fermò, sorridendo, immobile, mentre Irina abbassava lo sguardo e lo posava su quello della ragazza. Parve passare un’eternità con i loro occhi che si incontravano, e si scoprivano ancora, e si amavano un po’ di più. Poi, finalmente, Marlena spezzò il silenzio e si precipitò alle labbra di Irina, circondandole il viso con entrambe le mani sulle guance rosse. L’altra la prese fra le sue braccia e si unirono in un lungo bacio di passione, prendendo respiro, per poi ritrovarsi subito.
San Pietroburgo era la loro casa. Le aveva messe al mondo e accolte; le aveva fatte incontrare, giocare, divertire e, infine, amare. Ma le avrebbe perse. Un’altra città, dall’altra parte del mondo, le avrebbe prese come figlie sue, come avevano stabilito. San Pietroburgo era diventata ostile e la stessa città che le aveva fatte innamorare voleva che si separassero.
Si gettarono piano sulla coperta rossa e continuarono a baciarsi, scendendo per il collo, per il seno, per le gambe nude.

L’amore malato, innaturale e perverso non permetterebbe a due persone la felicità.
Un bambino molestato da una figura adulta e d’autorità non ha colpe, non ha malizia, e finisce per soffrire per il solo gusto dell’adulto che vede in quel piccolo corpo una forma di desiderio. L’animale seviziato dall’uomo non può essere consenziente, né approvare una qualunque forma d’unione con i propri padroni. Un uomo omosessuale che ama un altro uomo omosessuale è cosciente, non ha colpe se non quella di essere se stesso, e di poter essere felice.
Le televisioni, i giornali e le radio locali bombardano tutti i giorni le teste dei cittadini russi, affermando che le tre cose sono comparabili. Perché se due uomini vogliono sposarsi non lo possono fare anche un uomo e un animale domestico? Perché far donare il sangue e i propri organi definiti sani alle persone omosessuali quando sono chiaramente dei malati? Se si vieta la propaganda ai minori a nessuno verrà più in mente di voler essere omosessuale e gli stessi scompariranno! Solo le famiglie tradizionali composte da uomo e donna possono e hanno dei figli che cresceranno con dei principi morali sani! Grazie a Dio, i nazisti sterminavano i gay! Perché non richiudere gli uomini e le donne omosessuali in dei recinti? Se non potranno procreare, si estingueranno!


Marlena gettò i suoi vestiti e quelli di Irina da un lato, spingendoli con i piedi. Le stringeva la pelle senza spingere le unghie, mantenendo la morbidezza con i polpastrelli. Le segnò la pelle lungo una scia di baci delicati e Irina ansimava ad ogni tocco. Le mani viaggiavano lungo la pelle con delicatezza, piano, scendendo lungo le natiche.

Le persone omosessuali come sono nate? Lo sono diventate o lo sono sempre state? Possono essere felici? Ed essere bravi genitori? Perché non riescono ad essere etero? Perché non rinunciano a quella forma sbagliata di amore e provano ad essere come tutti gli altri, così possiamo lasciarli in pace? Allora sono loro che se le cercano! Non vogliono essere eterosessuali? Perché? Il corpo della donna e dell’uomo sono fatti per congiungersi, per stare insieme.

Irina placò un urlo e strinse la coperta rossa, raggomitolandola rapidamente ad ogni impulso. La lasciò, quando decise di raggiungere i capelli castani di Marlena sotto il suo ombelico, attirandola a sé, in segno di piacere.

Milioni di bambini vengono abbandonati a se stessi ogni anno in Russia: nelle strade, nelle strutture, affidati ad altri che poi li danno via come se fossero merce. Le coppie eterosessuali divorziano e si litigano i figli come parte dell’arredamento. La grande maggioranza degli abusi su minori è imputabile agli uomini adulti ed eterosessuali. Le preferite sono le bambine. Molti bambini e moltissime donne finiscono nelle mani di uomini violenti e vengono picchiati, torturati, uccisi. Le crudeltà sono in continua crescita e il nucleo definito sacro da molti pastori, la famiglia, va spesso in mille pezzi.
Tuttavia, per il paese, il problema sono gli omosessuali.


Marlena strinse le cosce con più forza e l’aiutò ad aprirle maggiormente, mentre Irina ansimava e gemeva.
Non era la prima volta ma sentirono che lo era di qualcos’altro, di essersi scoperte così innamorate e così fragili. Così unite in quel cielo con poche stelle che presto si sarebbe colorato d’arancio.

Tempo fa, sulle nostre televisioni è andato in onda un documentario intitolato “Sodom”. Ispirato a Sodoma e Gomorra della Bibbia, racconta con immagini mirate per sensibilizzare il pubblico, come le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali vogliono ottenere l’uguaglianza nei diritti per rendere schiavi gli eterosessuali, destinando il mondo alla sua fine. Come si possa guarire dall’essere peccatori. Cercando di spingerti ad odiare queste persone. E ad odiare te stesso se sei come loro.

«Non vuoi più tornare a casa?».
Irina inspirò, stringendola più forte a sé, coprendola meglio con i plaid e con giacche di tute tirate fuori dallo zaino. «Volevo stare qui per un po’».
«Hai litigato di nuovo con tuo fratello?».
«No, non so… più o meno», si morsicò un labbro. «Vuole farmi conoscere un suo amico».
Marlena si voltò immediatamente, spalancando i suoi occhi. «Cosa gli hai detto? Non ti ha scoperto, vero?».
«Non gli ho detto niente, è questo il punto. Secondo me sospetta qualcosa…», lasciò in sospeso la frase, fissando uno dei muri ingialliti del vecchio museo. «E forse dovrei dirglielo. Come giornalista, dovrei per prima cosa dare voce a me stessa».
«No», quasi le urlò addosso, «No, no, non farlo, non se ne parla». Le portò una mano su una guancia arrossata e corrugò lo sguardo, continuando a ripeterle che non voleva. Suo fratello era come tutti gli altri: non aveva mai fatto mistero della sua omofobia, del suo odio ingiustificato, e temeva non si sarebbe fermato neppure davanti a sua sorella e al suo amore per lei.
«Non mi succederà niente», le sorrise con quello stesso sguardo sicuro di sé che piaceva tanto a Marlena. Tuttavia, ora che aveva rivelato un altro pezzo del puzzle che era la sua ragazza, quello stesso sguardo le incuteva un po’ di timore, perché era un bluff. Un grande bluff.
«Non farlo, ti prego», sussurrò e Irina annuì, accostandosi per baciarla ancora.
«Lo prometto».

»~***~«

Il fondo statale per il cinema rifiutò di contribuire al film sul gran compositore russo Tchaikovsky perché gay. Pretendevano che la pellicola non affrontasse la vita privata del compositore con l’assurda motivazione che, per loro, non c’era alcuna prova della sua omosessualità, contraddicendo gli esperti. Il regista non si diede per sconfitto e decise di rivolgersi altrove, all’estero, per ottenere i fondi necessari e portare alla luce il suo lavoro. Marlena s’imbronciò, leggendo la notizia in un trafiletto del giornale locale, appena poggiato sul tavolo da sua madre, che svuotava le buste della spesa. L’aiutò come sempre e sempre meno volentieri, sentendola come uno sfondo fastidioso parlare dei vicini di casa e del mercato. Ripensava al regista del film e come anche lui se ne sarebbe andato per ottenere ciò che voleva. Lui un buon film, fedele al gran compositore. Loro se ne sarebbero andate per vivere la loro vita al meglio.
Allungava lo sguardo e scrutava l’orologio alla parete della cucina, fremendo per ritornare da Irina. Il giorno prima le era sembrata strana e, se la sua ragazza non avesse avuto una giornata in famiglia, le sarebbe piaciuto raggiungerla subito.
«Sai che i signori Shashkoff temono di avere un figlio frocio?».
Marlena alzò un sopracciglio ma mantenne lo sguardo basso, fingendo di leggere una confezione di biscotti, e non disse una parola. Pensò a quanto fosse bizzarro il continuo parlare di gay adesso che era passata la legge contro la propaganda gay, mentre prima quasi nessuno ne faceva parola.
«Il più grande», proseguì lei, «E in effetti… ha quello sguardo così femminile, quasi una bambola…», azzardò una faccia schifata. «Gli uomini devono avere la barba e devono essere rozzi. O che uomini sarebbero?».
Marlena fissò altrove, senza risponderle. Si nascose fra i suoi pensieri.

«Se… Se a me dovesse succedere qualcosa… Tu ti innamoreresti di un uomo?».
Marlena sbuffò, seccata. «Ancora con questa storia? No», rispose con fermezza, distanziandosi da lei, mentre passeggiavano lungo la strada del Canale Griboedov. Straordinariamente non c’era tanta gente, passava qualche macchina, ma era meglio non attirare l’attenzione. «Non ci siamo messe d’accordo che avremo chiesto asilo politico ad un altro paese ancora da definire?».
«Sì, sì, certo», si fermò, osservandola ad occhi pieni, intensi, quasi colmi di un qualcosa di indefinibile. «È che sai, vorrei essere sicura che tu potrai stare bene anche senza di me, nel caso».
«Nel caso cosa? Quale caso?».
Irina si fermò un attimo, stringendosi un braccio. Stava facendo di nuovo arrabbiare Marlena e le leggeva nello sguardo una disapprovazione che non le piaceva. Ma lei non capiva.
«Marla, ti ho sempre detto che sarebbe andato tutto bene, ricordi? Mentivo», sbottò, abbassando un poco lo sguardo. «Non volevo che tu cambiassi, che ti sentissi male per questa cosa… Vorrei che tu potessi avere la vita che ti meriti».
«Con te», rispose l’altra immediatamente, affrontandola, stringendo i pugni, «Con te è dove voglio stare».
«Va bene».
«Va bene cosa?», sospirò, irrigidendo i denti. «Parlami», le ordinò, fredda.
Irina alzò lo sguardo e si morse le labbra. «Va bene… ti amo», biascicò. «Ti amo. E non voglio che tu soffra… perché San Pietroburgo… perché questo paese ci ha tradito», cominciò a piangere e Marlena la fissò rapita, immobile. «Slava probabilmente non sa come farci andare via di qui. Hanno paura. Hanno picchiato un attivista, qualche giorno fa, e la polizia non è intervenuta. Siamo in trappola, Marla. E l’ultima cosa che volevo era che tu ti sentissi come… come mi sento io ora», abbassò lo sguardo. Marlena si accostò a lei ma Irina tornò due passi indietro, per non farsi toccare. Era giorno. Il sole pallido illuminava i loro visi, attraverso i gran mosaici colorati delle fiere costruzioni di San Pietroburgo, che per tanto tempo le aveva accolte e che ora le aveva ingannate. «Non ci sarà un lieto fine per noi, qui», rialzò a poco lo sguardo e Marlena s’imbronciò, «Sarà sempre questo quello che dobbiamo fare: fingere di essere qualcun altro. Io avrò un ragazzo e tu avrai un ragazzo. Come copertura. E di notte potremmo andarcene dalle nostre case, quando i nostri mariti dormiranno, per stare insieme. Di notte. Come facciamo ora. Prenderemo in giro entrambi: diremo che li amiamo, avremo con loro dei figli e fingeremo una vita normale. Quando ci incontreremo di giorno faremo finta di non conoscerci-», s’interruppe, con la voce di Marlena, scoppiata in lacrime, sulla sua.
«Smettila! Basta! Non voglio sentirti più!», gridò e qualche passante si fermò, incuriosito.
«Andrà così!», strillò anche l’altra, poco prima di calmarsi, guardarsi attorno, e deglutire, fissando un punto lontano.
Era tutto così stretto. San Pietroburgo la stava schiacciando.
«Lo sai anche tu che andrà così… E io non volevo farti soffrire ma questa… questa è la verità, e se tu resterai sempre innamorata di me non avrai una vita normale…», singhiozzò, «Sarà una vita di bugie, come l’avrò io».
San Pietroburgo la stava uccidendo.
Lo schiaffo risuonò nel vento e i passanti ripresero a camminare, ritornando alla loro vita, dimenticandosi di due ragazzine che gridavano accanto al canale. Era la prima volta, quella, che Marlena alzava le mani. Per un attimo sentì l’eco dello schiaffo che sua madre diede a lei da bambina ed ebbe paura delle sue azioni. Voleva andarsene, scappare da quella situazione, da ciò che aveva commesso, quando Irina l’abbracciò di colpo e lei ricambiò. Restarono parecchio tempo abbracciate, interrotte solo dai clacson che ricordarono alle due dove si trovavano e che non potevano permetterselo.
«Sono lesbica», sussurrò Marlena e Irina spalancò gli occhi. «Se anche con te non dovesse funzionare, non mi metterei mai con un uomo dalla lunga barba», accennò una risata, «Avrò la vita che avrai tu. Comunque. E, in ogni caso, amo te e amerò sempre te».
Il desiderio di baciarla era salito fin sulle guance ma Irina si trattenne e si limitò a sfiorarle una mano, calda.
«Ce ne andremo. Prima o poi. E vivremo bene», le sorrise Marlena. «Ne sono sicura».

Sua madre la destò dai suoi pensieri e le ricordò di mettere la pasta nei pensili giusti. Si domandava cosa avrebbe fatto sua madre se avesse scoperto l’orientamento sessuale della figlia. In fondo non le aveva mai portato a casa un ragazzo e l’unica cotta che si ricordava di aver esibito era quella per il suo cugino di secondo grado, quando avevano cinque anni entrambi. Forse si sarebbe comportata come la maggior parte degli abitanti di San Pietroburgo: sperando e pregando che cambiasse, o prendendo un appuntamento con uno specialista. Come si sarebbero probabilmente comportati i genitori di Irina se lo avessero scoperto. Era importante mantenere se stesse chiuse in un cassetto, per quanto potesse fare male.

»~***~«

Si addormentò, quella notte. Sognò di Irina che l’aspettava al vecchio museo e si svegliò di soprassalto, con una brutta sensazione sulla pelle. Si chiuse nel giaccone e uscì dalla finestra della sua camera, per poi correre, inoltrarsi per le strade ancora troppo trafficate. Arrivò al museo quasi volando, sollevando la grondaia, ma quando si affacciò a quella saletta scoprì la porta aperta e che al suo interno non c’era nessuno. Si guardò attorno con preoccupazione e ansimò, notando quanto il suo cuore stesse accelerando il battito, come se sapesse per primo che stava per accadere qualcosa di importante. Il suo zaino era lì ma non lei. Corse via. Voleva solo sapere che stava bene. Che c’era ancora. Che, se non poteva uscire di casa, si sarebbero viste l’indomani come sempre.
Si avvicinò più lentamente alle strade lastricate poiché si scivolava. Osservò le tante luci delle case accese nel buio e sperò di poterla vedere presto, accanto ad una di loro. Si risistemò le cuffie pelose alle orecchie e alzò lo sguardo al cielo, quando vide qualcosa brillare: stava nevicando. Nevicava in una notte d’autunno.
Si accostò a casa di Irina: non si era mai avvicinata tanto e si era limitata a vederla da lontano, per timore di incontrare la sua famiglia e che avessero potuto scoprire tutto solo dai loro sguardi. Ma adesso non le interessava. Le luci erano accese, ma non vedeva la sua ombra attraverso le finestre e pensò di urlare il suo nome, fermandosi, quando vide qualcuno di familiare arrivare dal canale: Denis, il fratello di Irina. Era lui, ne era certa. Si allontanò dalla casa e deglutì. Le mancava il fiato. Denis la fissò per brevi attimi e a Marlena raggelò il sangue. Pensò di restare ferma, di vederlo passare senza fare niente; non riusciva a muoversi. I fiocchi bianchi cadevano lenti e lo sguardo di quel ragazzo la trapassò da parte a parte. Marlena aveva paura. Aveva paura che avrebbe ucciso anche lei.

Riprese a correre, con le lacrime agli occhi ormai già fredde, inciampando e rialzandosi tra i singhiozzi. Era tardi. Era troppo tardi. Si affacciò al ponte nuovo delle scuderie e scacciò un urlo disperato, mantenendosi la bocca con le mani. Si voltò, si inchinò, e si rivoltò ancora, camminando in cerchio prima di riaffacciarsi e gridare con tutte le sue forze.
Irina era lì.
Non era vero. Non era vero niente. Il suo sorriso sicuro di sé, le promesse, la loro casa dei sogni con dei cani e bambini. Erano solo bugie. Erano bugie e lo sapevano; nello stesso esatto momento in cui le loro labbra le avevano pronunciate, già sapevano che erano bugie.
Non le avrebbe più sfiorato le mani calde. Non l’avrebbe più baciata. Non sarebbe più diventata una giornalista. Era lì. L’acqua gelida del canale la stava trascinando via e lei non si muoveva.
Irina era lì.
Marlena si accostò ai ghirigori della ringhiera fredda e bagnata e con la gola secca si guardò ovunque, le mancava il respiro, gli occhi si facevano appannati, non riusciva più a piangere né a gridare. Il vento sulla pelle era diventato improvvisamente superfluo; aveva perso significato. Il mondo intorno a sé non faceva più paura. San Pietroburgo era diventata invisibile. I suoni e i colori erano svaniti. Silenzio. La gola in fiamme e la testa esplodeva. Ma niente era forte come il dolore al petto. Lacerante e cattivo, non esisteva nient’altro.
Stava per saltare quando un uomo le proibì di farlo e la allontanò di peso, mentre un altro chiamava la polizia.
Irina era lì e ci sarebbe stata per sempre. Marlena le aveva promesso che se ne sarebbero andate ma San Pietroburgo l’aveva ingannata, non l’avrebbe lasciata andare. La città l’aveva tradita e, infine, uccisa.

»~***~«

I vicini di casa dissero che si erano sentite parecchie urla e poi, d’improvviso, il silenzio. Marlena trascorse la notte in caserma ma non seppe dire nulla alla polizia: restò a fissare il vuoto per ore e, come sotto ipnosi, non vide né sentì nulla di ciò che le stava intorno. I suoi occhi erano vuoti. Stanchi, pesanti, gonfi, senza espressione. Il vuoto sembrava l’unica cosa che le restava. Aveva appreso ciò che era successo, ma l’immagine della sua lei sotto al ponte non le lasciava respiro e sua madre la trascinò via appena ne ebbe l’occasione. Ma Marlena non tornò a casa quella notte. Scappò dalle braccia di sua madre e s’intrufolò al vecchio museo, per piangere e gridare, da sola, accovacciata accanto allo zaino che lei aveva lasciato.
Com’era potuto accadere? Perché?
Lo stomaco si contorceva, le budella sembravano voler schizzare via, sentiva gli occhi bruciare e i pugni rossi e doloranti, per aver pestato contro al muro. Sentiva che la colpa non era altri che sua. Irina doveva aver fatto coming out quella notte e lei l’aveva lasciata sola. Le aveva fatto promettere che non l’avrebbe fatto invece di restare al suo fianco e incoraggiarla a diventare la futura giornalista che tanto desiderava. Quello era il suo posto. E ora, quel suo futuro con lei era svanito. La magia era finita. Era sola. Sola contro il mondo. Senza una parte di sé.

«Ti amo».
«Va bene».
«Va bene e basta?».
«Ti amo anch’io».

Urlò ancora più forte, reggendosi il petto. Non sopportava più quel dolore: era troppo. Voleva farlo smettere. Voleva solo che smettesse. Svegliarsi e ricominciare daccapo: correre da lei e ritrovarla in quella stanza che fissava la Luna dalla finestra, sopra il cornicione, che con i boccoli biondi che si illuminavano.
Pestò ancora un pugno al muro e cadde dell’intonaco. Poggiò la testa e singhiozzò ancora.
Sapeva che Irina non era una ragazza così sicura di sé e lei l’aveva lasciata sola. Si domandava dove fosse adesso. Se la vedeva piangere e disperarsi e se si rendeva conto di essere sola, anche lei.
Smise di lacrimare poiché gli occhi non glielo permettevano più e li alzò alla finestra, osservando i colori di San Pietroburgo che cominciavano a splendere arricchendo i raggi del sole. Lei continuava ad esistere anche senza Irina. Sembrava fiera del mattino, dimenticandosi tutto.
Sussurrò il suo nome e pestò ancora, e ancora, e ancora, gettandosi a terra.

«Marla?».
«Guarda che è dalla prima volta che ti ho vista che penso che tu sarai la mia lei per sempre, perciò… vedi di fare altrettanto».
«Ci penserò su», rise.

Ritornò a casa il giorno dopo con il vuoto ancora indosso.
Sua madre l’abbracciò disperata, facendole notare che aveva denunciato la sua scomparsa, senza capire che quella non era sua figlia, ma il suo spettro. Come un fantoccio senza anima, le avevano privato tutto.
Si chiuse in camera e cominciò a fissarsi allo specchio. Minuti senza fine per ritrovare se stessa, senza esiti. Slacciò la giacchetta e la lasciò filare a terra. Continuava a fissare i suoi occhi grandi e spaesati, mentre sbottonava una perla color panna dopo l’altra della sua camicetta, lasciando che anche quella le scivolasse addosso. Non era sufficiente. Sganciò il cinto e scese i pantaloni, togliendosi le scarpe, tirando una e poi l’altra con i talloni. Sussultò e con le mani fredde si sganciò il reggiseno, gettando quello e infine gli slip.
Fissò ogni centimetro della sua pelle pallida e nuda, senza toccarsi. Un verme fino e rosa.
Il suo corpo sentiva la mancanza delle sue mani, dei suoi sguardi, delle sue labbra.
Era vuoto e spoglio senza di lei. Non si riconosceva.
Lentamente s’inchinò e s’inginocchiò a terra, con un sussulto e un ultimo sguardo allo specchio; si sdraiò sulle pianelle ghiacciate, deglutendo. Chiuse gli occhi. Ora lo sentiva. Ora sentiva qualcosa.
Lei era viva.

»~***~«

«Vuoi raccontarmi cos’è successo?».
Sua madre la immobilizzò con lo sguardo, quando uscì dalla sua camera per prendere una boccata d’aria.
Spiegarle il suo sentirsi sconfitta, in colpa, la sua vergogna, la sua tachicardia e la sua battaglia interiore tra il lasciarsi morire e il lottare per vivere, senza raccontarle il suo unico grande amore, era impossibile. Tutto era legato come in una ragnatela. Ogni piccolo, esile ma tenace filo collegava ogni frammento del suo mondo. La morte di Irina ne aveva strappato una parte e Marlena era combattuta sul rompere tutto o tentare di reggere e ricostruire ciò che poteva. Quello che ne restava era composto soprattutto da un’insieme di domande.
Chi sono io? C’è un me senza lei? Dov’è lei in questo momento? Avrà paura? Perché non sono stata al suo fianco quando potevo?
Marlena deglutì e si passò la lingua sull’apparecchio scivoloso. Abbassò un poco lo sguardo.
«Non te l’hanno detto?», domandò, con la voce senza vita, «È morta…».
«Certo che mi hanno detto perché eri lì. Hai trovato tu il corpo», rispose. «La conoscevi, vero?».
Non seppe cosa rispondere. Quella ragazza rappresentava la parte più significativa della sua vita: era l’unico pensiero che la faceva alzare al mattino, per cui ridere e arrabbiarsi, per cui provare ancora gioia con quella impietosa guerra in corso a San Pietroburgo. Quel suo sguardo sicuro di sé dava moto ad ogni cosa.
«Era… mia amica», sussurrò, glaciale.
Sentì lo stomaco farle male appena. Il dolore che provava per la sua scomparsa le impediva di sentire il male di quelle parole bugiarde nel loro pieno potere.
«Ho capito», mormorò la donna, alzando un braccio verso la cucina. «Adesso però vieni a mangiare. Devi mangiare».

»~***~«

La figura di Irina sott’acqua la tormentò nei sogni più di ogni altra cosa. Sperava di rivederla sorridere e dirle che l’amava, ma lo sguardo assente sotto uno strato d’acqua le si era improntato addosso. Nemmeno piangere quando si risvegliava dall’incubo aveva più senso.

Marlena testimoniò contro Denis Kozlov ma la corte rimandò a giudizio. Successivamente, fu prosciolto per assenza di prove. La scientifica poté dimostrare come il ventunenne aveva spostato il corpo e lo aveva nel canale, ma non l’omicidio. L’arma del delitto non fu mai trovata.
I processi portarono a galla più del dovuto, scavando nella vita di Irina come neppure Marlena era mai riuscita a fare: l’adozione, i segreti della famiglia e la relazione tra le due furono di dominio pubblico molto presto. Marlena non riuscì a mentire davanti a tutta la corte il suo rapporto con la ragazza e sua madre la cacciò di casa senza pensarci. Slava e gli altri ragazzi del locale la aiutarono a trovare una sistemazione momentanea e Marlena imparò a trascinarsi per le strade di San Pietroburgo senza una guida. Sentì Irina morire due volte quando la legge dichiarò il caso irrisolto senza nessun colpevole, arrivando perfino a formulare l’ipotesi di suicidio. Ma Irina non l’avrebbe mai fatto, urlava Marlena. Non c’era giustizia e rispetto per i vivi come non c’era per i morti.

»~***~«

«Non sono gay».
La donna la fissava con sdegno, rimprovero, quasi odio. Se ne stava sulla porta di casa e la scrutava da capo a piedi come se non riconoscesse la ragazza che aveva davanti, perché lei continuava a sostenere di non aver cresciuto sua figlia con idee facenti parte di stili di vita alternativi.
Marlena la guardava a sua volta senza espressione. Lasciava che il disgusto che provava per quella donna le scivolasse addosso. Lei le serviva per vivere, ed era tutto. Indossò quelle bugie come un maglione fastidioso ma necessario. Irina aveva ragione.
«Era stata lei, vero?», boccheggiò, «Ti ha sedotta e costretta a stare alla sua mercé. Lo sapevo», aggiunse con convinzione, creando una smorfia con le labbra. Marlena strinse forte i suoi pugni ma la madre non ci diede peso. «Puoi tornare a casa. Domani».
Le chiuse la porta in faccia e Marlena se ne andò. Fu così che si trovò un ragazzo e finse di amarlo, anche se non riuscì mai a sorridergli. Il tempo passò e Marlena non ritrovò mai la parte di sé persa quel giorno.









Le persone omosessuali sono sempre esistite e sempre esisteranno. Non esiste cura perché non è una malattia. Non è causata da traumi e non è contagiosa. Non esiste propaganda che possa cambiare l’orientamento sessuale della gente. San Pietroburgo volta le spalle a tanti suoi figli e un giorno li piangerà tutti.
Cos’è una persona senza amore? La legge e l’omofobia dilagante svuota le persone della propria essenza e le svende. Costringe loro a cambiare per paura. Il sindaco di Sochi, Anatoly Pakhomov, ha dichiarato, alle ultime olimpiadi, che da loro non ci sono gay. Posso smentirla, signor sindaco: i gay ci sono ma sono nascosti in vite false costruite su misura per loro, per paura, oscurati dalla vostra ipocrisia, ignoranza e cattiveria.

Io sarò qui a dare voce a tutti voi che non potete parlare, finché non sarete liberi di vivere e farlo senza il mio aiuto. Raccontatemi quello che state passando e parlerò per voi. Vogliono farvi sentire soli, ma non lo siete. Non siete soli contro il mondo.

Tutti hanno bisogno di avere qualcosa in cui credere.

Vostra,
Marla.































Futuro distopico? No, giorni nostri.
Ammetto che, quando ho letto il titolo del contest a cui questa storia partecipa, ho avuto un brivido. Per curiosità ho letto il bando e ho visto che incredibilmente la giudice accettava anche coppie non etero ed ero sorpresa. Con San Pietroburgo mi aspettavo l’omofobia, in un certo senso, era una certezza, perché San Pietroburgo e coppie non etero non sono accostabili, oggi giorno. Poi ho pensato che, semplicemente, lei che aveva indetto il contest poteva non saperlo. E allora mi sono decisa a tentare e parlare di questo! Mi era subito balenata in mente un’immagine specifica e ho colto l’occasione. Sì, tutto quello descritto succede davvero a San Pietroburgo e in Russia in generale. Basta "googlare" i nomi e i fatti, per i curiosi.
Per chi vuol dare un'occhiata, il contest è questo: Le notti bianche di San Pietroburgo ;)

Alcune note:
Ira e Marla: sono abituata ad usare la ypsilon quando devo scrivere soprannomi, così erano inizialmente Iry e Marly, ma mi sembrava errato considerando che i personaggi sono russi, proprio come ho cambiato i vari “ok” nel testo in “va bene”. Spero di non aver scelto male :P
La morte di Irina: sapevo fin da subito della sua morte. Era l’immagine iniziale che mi ha permesso di partecipare al contest, tuttavia “ci sono rimasta davvero male” quando ho dovuto scrivere quella scena. Non se lo meritava, in un’altra occasione forse non l’avrei uccisa, era come se il personaggio non volesse morire.
Nigeria: non l’ho citata a caso. Anche in Nigeria vigono delle durissime leggi omofobe, che prevedono divieti per coppie o anche gruppi per omosessuali, punibili fino a quattordici anni di carcere.
"cominciò a postare su vk": vk è il Facebook russo, per chi non lo conoscesse.

Ammetto che da quando tutta questa storia ha iniziato in Russia ho cominciato ad odiare quel posto e la sua gente (in generale, chiaramente). Leggo troppo spesso notizie relative e tutto ciò mi inorridisce. Ho sempre ammirato la loro architettura, quei colori e le loro chiese mi piacciono molto, ma non riesco più a vederli con la stessa ammirazione di una volta.
Spero di aver scritto questa breve oneshot meglio di come la percepisco io a volte (confusionaria? D:) e di non aver lasciato intuire troppo il mio “disprezzo”.

Grazie a chi ha letto fin qui e magari vorrà lasciarmi una recensione!
A presto :)
   
 
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