Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: whiteblankpage    07/01/2015    14 recensioni
Lo baciò in piedi sotto il cartellone delle partenze. Lui puzzava di polvere e vecchie storie dimenticate, di fumo e dopobarba, e se qualcuno avesse spiato quel bacio avrebbe certamente creduto che fosse un addio. Judith gli si aggrappò alle spalle ed Harry le afferrò i fianchi stretti, fu un bacio lento, stanco ma lungo. Ognuno aspettava che fosse l’altro a tirarsi indietro, perché qualcuno doveva pur farlo ma nessuno voleva.
Una voce di donna annunciò l’arrivo del treno di Harry, il 588.
Judith sospirò contro le sue labbra.
“E’ anche meglio dei libri”, pensò Harry. 
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 
L’odore delle stazioni
(e tu che mi guardi).



 
 

I like the way you talk about all the things you've seen,
you make the world seem small for a time,
though it's still too big for me.

 




 
C’era qualcosa nelle stazioni che l’aveva sempre affascinata. Non erano come gli aeroporti, dove ogni angolo era teatro di un addio commovente o di un bentornato pieno di felicità. Le stazioni erano posti per gente sola. A riempirne l’aria c’era una sorta di nostalgia che le si appiccicava a dosso come l’odore di qualcuno dopo un abbraccio. Judith prendeva il treno ogni giorno per raggiungere la facoltà, trentacinque minuti all’andata e trentacinque al ritorno, per un totale di settanta minuti. La conosceva bene ormai, la nostalgia delle stazioni. Le era entrata fin dentro le ossa.
Ogni mattina Judith si svegliava ad un’ora diversa, ogni mattina faceva una colazione diversa –oggi pane, burro e marmellata, ieri uova, domani un biscotto al volo correndo verso la stazione- ed ogni mattina ascoltava canzoni diverse, abbinandole al suo stato d’animo come scarpe ad un vestito. L’unico comune fattore delle sue mattine era un ragazzo riccio ed alto che la guardava da dietro un libro, e persino il libro del ragazzo riccio cambiava ogni giorno.
Quella mattina si era svegliata alle 7.23, aveva mangiato una fetta della crostata con le pesche di sua madre, ed aveva ascoltato quattro canzoni: Brennistein dei Sigur ròs (e non era mai un buon segno), I will wait dei Mumford and sons, The passenger di Iggy pop e di nuovo i Sigur ròs con Glòsòli; ciò significava che aveva voglia di ammazzare qualcuno, che si sentiva sola, che voleva andarsene da quella città, e che…bho, la birra al bar costava troppo, le mancava suo nonno, stava per finire le sigarette ed il treno era in ritardo.
I jeans nuovi le stavano strettissimi, doveva ripassare e scrivere quel nuovo articolo sul latte scaduto venduto nel supermarket a dieci passi da casa sua, il tirocinio la stressava e lei voleva solo un suo ufficio e scrivere per la cronaca nera, insomma era tutto un casino, come i suoi capelli biondi che quella mattina non era riuscita a tener legati. Ma dopo cinque minuti i freni del treno iniziarono a stridere, le porte si aprirono, ed un paio di lunghe gambe fasciate da jeans scuri le sfilarono affianco. Si sedette, come sempre, dall’altra parte del vagone, vicino al finestrino, in linea perfettamente obliqua rispetto a Judith. Ricci castani che accarezzavano le spalle tenuti in ordine da una fascia verde militare dello stesso colore degli occhi, due pietre chiare incastrate in un viso avvenente, labbra rosee dalla forma morbida, e –ma questo Judith lo aveva notato da poco- due fossette ai lati di un sorriso sempre un po’ obliquo, ma luminoso. Quel giorno dalla logora tracolla nera lo vide estrarre Guida galattica per autostoppisti e sorrise, incredula. C’era una possibilità su un milione di incontrare un altro essere umano che conoscesse quel libro, nato dalla follia di Douglas Adams.
Di nuovo pensò all’odore delle stazioni, odore di malinconia, escrementi di gatto ed un disinfettante da pochi soldi spruzzato a terra per coprire la puzza, e si chiese se l’intenzione originale fosse quella di coprire i bisogni dei gatti o la sensazione di abbandono della gente.
Non provò neanche a ripassare, sapeva che non ci sarebbe riuscita. Se studiare in treno le risultava difficile, gli occhi verdi del ragazzo a pochi passi da lei lo rendevano impossibile. Li sentiva passeggiare sul suo viso, studiare i suoi gesti mentre cercava l’agenda ed una penna dalla borsa per tentare di scrivere un abbozzo di quel maledetto articolo –anche se il latte scaduto era l’ultimo dei suoi pensieri-, assorbire anche i suoi movimenti inosservati. Alzò lo sguardo verso quel ragazzo con le gambe lunghe e i jeans stretti, e lui le regalò un pezzo di quel sorriso obliquo e luminoso, con tanto di fossetta all’angolo destro della bocca. Involontariamente anche le sue labbra si aprirono, in un prototipo di sorriso. Fu allora che il ragazzo chiuse il libro, lo infilò nuovamente nella tracolla, si alzò ed andò a sedersi esattamente davanti a lei.
-Ciao- il sorriso che le regalò questa volta era intero, sempre un po’ storto ma con due fossette intorno. E Judith avrebbe dovuto scrivere qualcosa sul latte scaduto, sull’indignazione di un intero quartiere e sulla protesta di alcune madri, ma quel ragazzo la guardava da tre mesi ed ora se ne stava lì, zitto come sempre, a guardarla senza nascondersi dietro un libro, e del latte scaduto a chi cazzo importava?
-Ciao- iniziò a giocherellare con l’anello che portava al dito indice della mano sinistra.
-Io sono Harry.
-Come Harry Potter- sorrise.
Nessuno avrebbe letto quell’articolo dopo tutto.
 
Il cognome non glie lo aveva chiesto e proprio non le interessava. Le interessavano più i suoi occhi verdi e i suoi gusti musicali, e il fatto che sapesse che Purple haze non era un nuovo profumo lanciato da Lady Gaga ma una canzone di Jimi Hendrix, che il suo film preferito era Bastardi senza gloria e che aveva la risata più sexy che Judith avesse mai sentito.
-Ti avevo notata, da parecchio.
-Davvero?
-Sì, e te ne eri accorta. Ma continuavo a guardarti per non sprecarti. 
Tutto questo se l’erano detti in trenta minuti scarsi, interrotti solo dallo stridere dei freni, e quando Judith era arrivata alla sua fermata sapeva così tante cose di quel ragazzo che la testa le scoppiava.
-Ci vediamo domani- le aveva promesso Harry, e le fossette erano spuntate di nuovo.
Judith si era limitata ad annuire. Aveva voglia di ascoltare The moon is down dei Radical face, e questo no che non era un buon segno.
 
Il giorno dopo Harry si sedette nuovamente davanti a Judith, e il giorno dopo ancora fece lo stesso. Era come se avessero un segreto. Harry collezionava le risate di Judith in silenzio, e le parlava dei libri che un giorno avrebbe letto, di quelli che teneva impilati sul comodino perché erano troppo belli per stare sulle mensole con gli altri e intanto si sentiva annegare dentro i suoi occhi, tanto scuri che era quasi impossibile distinguere l’iride dalla pupilla.
A Judith la voce di Harry piaceva, la faceva sentire al caldo. Era esattamente il timbro di voce che avrebbe voluto avere a sussurrarle durante uno dei suoi attacchi di panico.
Il terzo giorno Harry era stato costretto a sederle vicino, il treno era brulicante di turisti e studenti ed il gomito di Harry era incollato al suo, e le arrivava il suo odore, un odore strano che le faceva venir voglia di chiudere gli occhi. Lei stava ascoltando Delicate di Damien Rice -poco prima aveva ascoltato Daylight di Mat and Kim e prima ancora The final cut dei Pink Floyd, quindi era allegra ma pericolosamente incline alla dolcezza- quando Harry le tolse una cuffietta e se la portò all’orecchio, guardandola di soppiatto. Come se fossero conoscenti da una vita, come se fosse la cosa più normale del mondo, prese l’i-pod di Judith dal bracciolo del suo posto, lo sbloccò ed iniziò a scorrere le canzoni studiando attentamente il contenuto dei suoi 16 gb. Judith dovette aggrapparsi alla borsa dei libri per non strappare l’i-pod dalle mani di Harry. Si sentiva nuda e vulnerabile come poche altre volte in vita sua, perché quell’i-pod rivelava più cose di Judith Stokes della sua carta d’identità, e quello che stava facendo Harry era più intimo del lecito, più intimo dei baci, dei preliminari e forse persino del sesso. Stava studiando le sue aspirazioni e le sue paure più recondite, le sue passioni e ciò che più la ripugnava, stava scavando dentro di lei senza permesso e Judith si sentì così violata da quel gesto che avrebbe voluto coprirsi. Sentì che il cuore scandiva un ritmo ansioso, pieno di angoscia, e quando Harry, con un semplice click, fece partire una canzone il respiro le si bloccò in gola.
It’s unfortunate that when we feel a storm we can roll ourselves over ’cause we’re uncomfortable.
Paradise Circus dei Massive Attack. No, era davvero troppo.
Lo guardò e lui le sorrise.
-Hai i Massive Attack nell’i-pod- rilevò, evidentemente soddisfatto dalla cosa.
Lei riuscì solo ad annuire, perché aveva trovato qualcuno che conosceva uno dei suoi gruppi preferiti e quel qualcuno aveva gli occhi verdi, le mani grandi ed uno sguardo furbo.
Harry sorrise e posò nuovamente l’i-pod sul bracciolo del sedile senza staccarle gli occhi di dosso.
-Cosa fai questa sera?
Judith per poco non si strozzò con il proprio respiro, distratta dalle parole della canzone.
 
Judith stava spettando Harry alla stazione, aveva il mal di pancia, stava fumando la terza sigaretta nel giro di dieci minuti, e guardava le luci del treno ormai vicino come gli occhi fiammeggianti di un mostro venuto per divorarla. Aveva paura, tanta paura da non aver neanche acceso l’i-pod.
Quando il treno si fermò il cuore di Judith lo imitò.
Intanto Harry la guardava dal finestrino e sorrideva, ma lei non lo vedeva. E lui poteva studiarla, le gambe lunghe fasciate dai jeans grigi, converse nere ed un maglione, anch’esso nero, che le ricadeva morbido sul busto e sui fianchi, probabilmente di una taglia più grande. Le labbra morbide erano accese da un rossetto bordeaux ed il suo sangue ribollì letteralmente all’idea di baciare quella ragazza che aveva osservato per quasi due mesi, chiedendosi cosa scrivesse sempre sulla sua agenda rossa e quali fossero le ansie che la portavano a mangiarsi le unghie guardando distrattamente il paesaggio fuori dal finestrino del treno in corsa. Si era deciso a sedersi vicino a lei sono dopo averla vista, appena una settimana prima, leggere Sulla strada di Jack Kerouac, uno dei suoi libri preferiti. Questo era stato il primo segno. Il secondo lo aveva avuto quella mattina, esaminando attentamente il contenuto del suo i-pod e trovandovi alcuni dei gruppi che facevano sentire Harry completo, gruppi sconosciuti o sottovalutati, canzoni che molti avrebbero snobbato fin dalle prime note, e li aveva trovati quasi tutti lì, nell’i-pod della ragazza bionda della seconda classe. E se non avesse avuto una briciola di senno si sarebbe detto follemente innamorato di Judith, perché aveva passato ventiquattro anni a sentirsi un estraneo tra i suoi coetanei, ventiquattro anni durante i quali nessuna presenza umana era riuscita ad eguagliare la compagnia di un libro.
Quando scese dal treno Judith sarebbe potuta rimanere a bocca aperta, ma sarebbe stato poco educato e decisamente indiscreto da parte sua. Harry indossava jeans neri strappati all’altezza delle ginocchia che facevano sembrare le sue gambe ancora più lunghe e magre, un maglione di lana intrecciato color panna e la sua solita fascia per capelli, verde militare. In mano stringeva un’agenda di pelle marrone che sembrava sul punto di esplodere, piena di appunti, fogli, biglietti e chissà cos’altro. La raggiunse con un paio di falcate veloci e prima che lei potesse anche solo immaginare cosa stava per fare, la baciò. Intrappolò il suo mento tra le dita e corteggiò le sue labbra con la punta della lingua affinché si schiudessero per lui. E Judith non trovò la forza di opporsi, o di pensare al rossetto che sarebbe andato a puttane o al fatto che era decisamente anticonvenzionale baciarsi prima ancora che l’appuntamento avesse avuto inizio, poté solo ricambiare quel bacio così tenero e allo stesso tempo deciso, intenso, e constatare che Harry sapeva di sigarette e di qualcosa di dolce, forse una gomma da masticare per cercare di dissimulare il primo sapore. E che baciava bene. Cazzo se baciava bene.
Harry fece un passo indietro, gli occhi erano due fiamme verdi. Si leccò le labbra e le sorrise facendola arrossire come una ragazzina.
-Non avremmo dovuto aspettare la fine della serata?- riuscì a chiedergli Judith, ancora stordita da quel bacio così improvviso.
-Sono stato concepito in una Calle di Venezia di cui i miei genitori non ricordano neanche il nome. Sono figlio di un atto passionale e sconsiderato e, proprio come i miei, non so aspettare.- il sorriso che le rivolse le rivoltò lo stomaco e le tolse il respiro.
-Questa sera non finiremo in nessun vicolo, ti avverto- lo ammonì Judith, che era sempre stata terrorizzata dal sesso precipitoso e dai ragazzi con gli occhi in fiamme, come Harry.
-Tranquilla- fece una pausa e studiò l’espressione della ragazza, poi tirò fuori un nuovo sorrisetto malizioso dal suo repertorio –Non questa sera.
 
Il gruppo preferito di Harry erano i Massive attack, mentre quello di Judith gli Arctic monkeys, ma “un difetto doveva pur averlo” si diceva Harry, mentre la guardava mettere una manciata di tabacco su una cartina, il filtro fermo tra le labbra. Aveva lo smalto nero rovinato, le unghie corte mangiucchiate, eppure le dita erano lunghe, sottili, aveva delle belle mani ed odiava i bambini. Ad Harry piaceva la smorfia che faceva quando parla di ciò che non le piaceva, come storceva il naso ed aggrottava le sopracciglia. Le avrebbe voluto dare un altro bacio ma erano seduti sull’erba di un piccolo prato dimenticato da Dio, in un parco fatto di vecchi giochi arrugginiti e lampioni dalla luce fioca, e non voleva spaventarla.
Harry aveva lo sguardo affamato, ma Judith non avrebbe saputo dire se di parole o di qualcosa di decisamente più carnale. Le piaceva avere i suoi occhi addosso, le piaceva anche in treno quando la spiava dalle pagine del suoi libro. Le piaceva Harry, e questo significava che avrebbe rovinato tutto. Persino da piccola finiva sempre con il rompere i suoi giochi preferiti, o per perdere i libri che più amava. E poi chi li voleva più i peluche-sostituti, uguali a quelli che aveva rotto chissà come? E a chi interessava ricomprare lo stesso libro che aveva appena perso? Non sarebbe stato uguale. Con Judith le sostituzioni non funzionavano, aveva bisogno di pezzi originali per colmare tutti i suoi vuoti.
-Quindi sei…vegetariano?
Harry ridacchiò per il malcelato disgusto dipinto nel volto di Judith.
Lei girò la sigaretta, leccò il lato con la colla, la chiuse e se la portò alle labbra, restituendo ad Harry il suo tabacco –Grazie.
Per un istante le sembrò di conoscerla da anni e di non riuscire a ricordare la prima volta che l’aveva vista.
-Sì, sono vegetariano.
-E…cioè, hai mai assaggiato la carne?
Harry ridacchiò di nuovo, e lei non sapeva se sentirsi una stupida o picchiarlo. Nel dubbio, accese la sigaretta.
-Certo, e l’ho mangiata per anni.
-Quindi…- no, Judith decisamente non capiva. Amava troppo la carne –Non ti piace il sapore della carne?
Le labbra di Harry si schiusero in un sorriso pieno di sottintesi.
-Dipende.
Judith arrossì in modo patetico e fece un tiro nevoso di sigaretta.
Harry si maledisse, perché non stava mai zitto e se avesse continuato a fare battute del cazzo non l’avrebbe più rivista. Glie lo avevano sempre detto i professori, che se non avesse imparato a tenere a freno la lingua avrebbe fatto solo casini nella vita. Avevano ragione, dannatamente ragione. Ma quando Judith si voltò, la sigaretta tra le labbra ed i capelli scompigliati dal vento, stava nuovamente sorridendo.
 
Alle 00.46 erano nuovamente alla stazione, Judith sapeva che il giorno dopo svegliarsi per andare a lezione sarebbe stato un inferno, mentre Harry si era già rassegnato all’idea di non dormire affatto, e si sentivano un po’ a casa e parecchio stanchi.
Avevano un bacio incastrato in gola, entrambi, e gli occhi che a tratti si cercavano e a tratti fuggivano, la bocca secca per aver parlato troppo e i maglioni che ogni tanto si sfioravano.
Harry aveva di nuovo quella tremenda voglia di baciarla.
Judith si sentiva stanca, si erano detti troppo ed era tutto così strano..,
Lo baciò in piedi sotto il cartellone delle partenze. Lui puzzava di polvere e vecchie storie dimenticate, di fumo e dopobarba, e se qualcuno avesse spiato quel bacio avrebbe certamente creduto che fosse un addio. Judith gli si aggrappò alle spalle ed Harry le afferrò i fianchi stretti, fu un bacio lento, stanco ma lungo. Ognuno aspettava che fosse l’altro a tirarsi indietro, perché qualcuno doveva pur farlo ma nessuno voleva.
Una voce di donna annunciò l’arrivo del treno di Harry, il 588.
Judith sospirò contro le sue labbra.
E’ anche meglio dei libri”, pensò Harry.
 
La mattina dopo in treno Judith aveva i capelli spettinati raccolti in una coda bassa e gli occhi socchiusi fissi davanti a sé.
Harry si sedette davanti a lei, non disse nulla. Prese dalla solita tracolla un libro, questa volta era Invisible monsters di Chuck Palahniuk, di cui lei conosceva solo Fight club. Aveva già letto un quarto di libro e lei si chiese se Harry la notte dormisse. Chiuse gli occhi, era stanca, aveva passato gran parte della notte a pensare.
Mancavano cinque minuti alla sua fermata quando Harry si decise a parlare.
-Cosa fai questa sera?
Lei lo guardò e gli occhi erano già un po’ meno assonnati, più luminosi.
-Niente.
Lui chiuse il libro.
-Neanche io.
Le sorrise. Neanche un bacio. Non lì. 
 
Era il posto più bello che Judith avesse mai visto, voleva piangere, urlare e correre al bancomat più vicino a ritirare tutti i suoi risparmi, e baciare Harry fino a far(si)gli male. Una libreria di libri usati a cinque minuti esatti di treno da casa sua! Era euforica come una bambina. Fece scorrere i polpastrelli delle dita sulle copertine sbiadite dal tempo, impolverate o strappate. Era nel reparto Teatro da dieci minuti, ne aveva già dedicati dodici alla Poesia e sei alla Saggistica. Harry paziente la guardava, le metteva dei libri in mano e la vedeva sorridere.
Stava stringendo tra le mani una raccolta di novelle di un autore italiano, Verga, quando la raggiunse. Erano le 19.39, presto la libreria avrebbe chiuso e c’erano solo loro tra gli alti scaffali traboccanti di libri. Non aveva mai portato nessuno lì. Le circondò i fianchi con un braccio e le baciò una tempia. Gli piaceva da morire il suo odore.
-Credo ci stiano per cacciare- le sussurrò divertito.
Judith mugugnò qualcosa contrariata, posò la raccolta di novelle e prese tra le mani una copia di La signora delle Camelie, di Dumas figlio. Non doveva essere stata stampata prima del 1980, e costava solo 3 sterline.
-Ce ne sono troppi- borbottò frustrata.
Harry le baciò il punto dietro l’orecchio, lei chiuse gli occhi. C’era odore di libri ovunque.
 
Di nuovo vennero le 00.45 e con loro il treno 588.
Di nuovo venne un bacio che sembrava un addio. Guardandoli dall’esterno sarebbe stato facile pensare che Harry stesse per partire per chissà quanto tempo, diretto verso chissà quale guerra. Ma l’unica guerra che avrebbe combattuto quella notte sarebbe stata contro l’insonnia ed un enorme peso allo stomaco.
Forse avrebbe passato la notte a leggere. Di nuovo.
 
Le dita di Judith erano lunghe e sottili, perfette per i ricci di Harry. Judith aveva preso il treno delle 17.59 e questa volta c’era qualcuno ad aspettarla alla stazione e qualcuno che l’avrebbe salutata con la mano alla partenza.
Le mani di Harry erano calde contro la pelle dei fianchi di Judith, infilate sotto il maglioncino verde militare. Harry aveva una copia vecchia e stropicciata di Amleto nella tasca posteriore dei jeans e le labbra sul collo di Judith, Judith aveva una copia nuova di Uno studio in rosso nella borsa e le mani sulle spalle di Harry, la schiena contro il muro e gli occhi chiusi.
I ricci le solleticavano il viso mentre Harry le baciava il collo, le sorrideva contro la pelle e la mordeva, e lei cercava di non ridere, sospirare e convincersi che non lo conosceva cazzo, doveva allontanarlo.  
Lui si sentiva in colpa ma poi la sentiva ridacchiare e andava a fuoco, e fanculo l’insonnia.
Erano in un vicolo senza nome, dove Harry l’aveva spinta per poterla baciare con la disperazione che quelle labbra meritavano.
Judith ricambiava i suoi baci, pensava a tutti i libri che doveva aver letto e alle mattine in treno e quegli occhi verdi e a tante altre cose che svanivano prima ancora di averle messe bene a fuoco.
-Non hai dormito stanotte- mormorò quando le labbra di Harry liberarono le sue.
-No- ammise lui. Le sue dita tracciavano disegni immaginari sulla pelle chiara di Judith. –Vuoi venire da me?
Judith gli sorrise a mezza bocca, fece scorrere le dita sui bottoni della sua camicia.
-Per vedere la tua collezione di farfalle?
Harry rise, una risata roca che la fece rabbrividire, e scosse la testa.
 
Judith aveva in mente una canzone ma in quel momento non riusciva a ricordare né il titolo né le parole. Sapeva solo che era una bella canzone, e che se Harry l’avesse stretta ancora più forte contro il proprio petto sarebbero diventati una cosa sola, indistricabile.
Il ragazzo del treno la prese in braccio come se fosse senza peso e l’impatto della sua schiena con la parete dell’ascensore le strappò uno sbuffo contro le labbra schiuse di Harry. La baciò di nuovo stringendo le mani intorno alle cosce della ragazza, a loro volta strette intorno ai suoi fianchi spigolosi, la assaporò come faceva solo con le ultime pagine dei libri. Ed era tutto così sbagliato che dovette baciarla di nuovo per rimanere a galla e non affogare nei pensieri.
Le porte dell’ascensore si aprirono e fu tutto troppo veloce, eppure troppo lento. Harry che ringhiava lottando con la serratura della porta, quella porta che senza due spallate ed una bestemmia non si apriva, mentre Judith gli circondava la vita e lo baciava alla base del collo scostandogli i ricci con la punta del naso. Poi l’odore acre di un appartamento rimasto chiuso per troppo tempo, la mano di Judith che sembrava sparire nella sua, la sua stanza, i libri impilati sul comodino, sulle due mensole e sulla cassettiera, a terra, la tazza di caffè sporca che torreggiava sopra una copia del Signore degli anelli e le molle che cigolarono quando spinse Judith sul letto sfatto e le si stese sopra, la baciò, le infilò le mani sotto il maglione e superò la barriera del reggiseno stringendole il seno nella mano destra. E ancora i gemiti, i baci, le gambe di Judith che scalciavano mentre lui le sfilava i jeans e la sua risata quando Harry inciampò nei suoi stessi piedi cercando di togliersi il maglione. Ed il petto muscoloso di Harry, la vena del suo collo quando le entrò dentro, e tutte quelle parole sconnesse che andarono a posarsi sul soffitto.
Judith di strinse contro il petto nudo di Harry, aveva ancora il respiro pesante e le mani che tremavano.
Harry le baciò i capelli. Erano le due del mattino ed non dormiva ormai da troppo.

Si voltò e le braccia di Harry avvolsero la sua vita, pancia contro schiena. Braccia muscolose così accoglienti. Le piaceva pensare che Harry avrebbe potuto farle del male senza la minima fatica, eppure la stringeva come se potesse scappare o, peggio ancora, frantumarsi.
Harry era ubriaco del suo odore. Ubriaco lercio.
-Mi sento bene…così- mormorò lei.
-Bene come?
-Al sicuro.
Si conoscevano da quattro giorni, ma si guardavano da mesi. Le parole erano difficili ed erano troppe, soprattutto in quell’istante.
Harry riuscì a scherzare, pur sentendo una lama affondargli lentamente nella carne. -Cala la notte, e la mia guardia ha inizio.
-Stai citando il Trono di spade- lo apostrofò Judith, con un sorriso rivolto verso la finestra.
-Mmm…forse.
-Leggi troppo.
Harry sorrise tristemente contro i suoi capelli biondi e pieni di nodi. Glie lo dicevano tutti.
 
Avevano fatto l’amore cinque volte, erano andati in quella libreria di cui Harry puntualmente dimenticava il nome due volte ed avevano visto insieme Il castello errante di Howl sul piccolo televisore di Harry.
Era davvero troppo.
Prese un respiro profondo.
Le lenzuola erano intrecciate alle loro gambe ed Harry sperava che le avrebbero impedito di andarsene.
-Ho una ragazza.
-Cosa?- Judith sorrise, sicura di aver capito male o che fosse uno degli strani scherzi di Harry.
-Si chiama Anise.
-Che nome del cazzo.
-Non te ne andare. Ti prego.
-Tu leggi troppo Harry.
Lo so” pensò rabbiosamente lui, guardando la schiena nuda di Judith con gli occhi lucidi.
C’erano i suoi libri sparpagliati ovunque, eppure non si era mai sentito tanto solo.
 
 
 
Un po’ come l’aria quando stai facendo una gara di apnea con i tuoi amici e no, questa volta non ti farai battere da Jared, questa volta resisterai.
Un po’ come quando litighi con mamma ad otto anni, e urli “voglio un’altra famiglia!” e in realtà la ami ancora tantissimo ma devi essere arrabbiata.
Judith si sentiva in così tanti modi che i pensieri la stordivano. Erano troppi e facevano troppo casino.

Harry da piccolo voleva fare il serial killer, poi aveva capito che non sarebbe riuscito a far male a nessuno e aveva lasciato perdere. Adesso si sentiva come se gli mancasse un pezzo di stomaco, e aveva capito che a fare male in realtà era bravissimo.
 
Il letto di Judith era ogni notte più scomodo, il soffitto più basso.
Quella mattina aveva le occhiaie ed un rossetto spento, occhiali dalle lenti piccole, nere e tonde ed una borsa di tela completamente scucita alla spalla. Aveva ascoltato due canzoni ma neanche sforzandosi avrebbe ricordato quali. Era distratta e stanca da morire, e ferita, e cazzo faceva malissimo avere dei sentimenti.
Si guardò intorno, la stazione era punteggiata da sguardi tristi, apatici, assonnati e qualche raro sorriso. Lei si sentiva a casa in un certo senso, perché le stazioni erano posti per gente sola.
Era passato quasi un mese (ventidue giorni) e aveva visto Harry solo una volta, di sfuggita. Aveva fatto finta di niente pregando silenziosamente che (non) si sedesse vicino a lei ed aveva stretto il suo samsung tra le mani cercando di bloccarne il tremito. Era passato quasi un mese e lei voleva piangere, si mordeva le labbra e ringraziava le lenti scure che proteggevano quella sua orribile debolezza, che doveva essere per forza colpa del ciclo.
Il problema era che certe persone non andrebbero neanche conosciute. Dovrebbero rimanere estranei che si incontrano nei treni, sorrisi che si notano per strada e non si rivedono mai più, dovrebbero rimanere utopie, stelle lontane, cose senza forma. Invece Harry le si era seduto davanti, con quei suoi occhi chiari e quelle mani che a lei piacevano tanto, e tutti quei libri e quelle parole, e adesso le scoppiava la testa perché credeva di averlo conosciuto troppo invece non ci aveva capito proprio un cazzo. Non le aveva più scritto neanche un messaggio, delle scuse, una spiegazione, una bugia per cercare di farla stare meglio, non le si era più avvicinato e aveva cambiato carrozza. Era semplicemente sparito, portandosi via il suo odore di libri e la sua voce roca, e lei era così arrabbiata, triste, delusa e abbandonata e persa.
Il treno era in ritardo, ma non se ne accorse.
 
Harry stringeva tra le mani I fiori del male di Baudelaire, quella mattina aveva fatto colazione con un’aspirina e durante la notte aveva dormito un’ora e venti minuti circa. Anise l’aveva presa bene, dopo tutto. Gli aveva tirato un libro mancandolo e rompendo un bicchiere, gli aveva urlato contro, aveva pianto e con la sua solita risolutezza, una volta sbollita la rabbia, aveva promesso ad Harry una seconda opportunità.
Ed Harry avrebbe voluto chiederle “Una seconda opportunità di fare cosa? Di ferirti? Di mostrarmi nuovamente per lo stronzo apatico e fuori dal mondo che sono? Di essere infelici?”. Ma non aveva avuto il coraggio di farle ancora male. Aveva solo scosso la testa, scompigliandosi la matassa di ricci come faceva sempre quando era sull’orlo di un esaurimento.
Anise aveva urlato ancora, aveva pianto, ed era uscita da casa sua e dalla sua vita sbattendo la porta.
Harry aveva raccolto da terra il libro che le aveva tirato, La ragazza con l’orecchino di perla, e lo aveva posato sul tavolo della cucina. Aveva preso una sigaretta, l’aveva accesa ed era uscito in terrazza spaesato come un bambino. Era confuso e ad Harry Styles non piaceva sentirsi confuso. Ma Judith aveva i Massive attack nell’i-pod e due occhi che sembravano implorare aiuto, e non gli aveva chiesto neanche il suo cognome perché lei sapeva che per conoscerle veramente le persone non era necessario chiedere i dati anagrafici.
 
Stava ascoltando Goodbye degli Archive, era rannicchiata sul letto ed ignorava i libri dell’università, sfogliandone uno di Degas, annegando gli occhi nelle pennellate luminose dell’artista. Aveva pianto un po’ e pensato troppo, si sentiva una bambina stupida ed aveva una voglia lacerante di vederlo, e si sarebbe presa a calci per questo. Nella sua testa c’era spazio solo per la libreria a pochi passi da casa di Harry, per la polvere sul suo comodino, per i pianisti francesi che le aveva fatto ascoltare una mattina rannicchiati nel letto, il pc acceso sulle gambe di lui, perché in pochi giorni credeva di averlo conosciuto e invece non ci aveva capito un cazzo.
Come quando da piccola perdeva i suoi giocattoli preferiti.
Chiuse il libro e si alzò dal letto stordita. Forse, per completare il quadro, le era anche venuta la febbre.
 
Il campanello aveva preso a suonare alle 22.16 circa. Stava leggendo Il fu Mattia Pascal. Gli piacevano gli autori italiani, soprattutto Pirandello. Lo distraevano abbastanza da chiudere fuori i pensieri, e non pensare era lo sport preferito di Harry Styles, soprattutto negli ultimi tempi.
Dopo il suono del campanello vennero i colpi di un pugno contro la porta, pochi e rabbiosi. Dopodiché il silenzio. Si avvicinò alla porta, guardò dall’occhiello e pensò a tutte le canzoni sull’i-pod di Judith, alle sue dita magre e ai due bracciali che le tintinnavano sul polso sinistro quando camminava, pensò ai suoi capelli biondi e alle labbra morbide e quando alle 5.00 del mattino si era svegliato e l’aveva trovata rannicchiata contro il suo petto e aveva sorriso.
Aprì la porta, Judith era immobile davanti a lui, tremava un po’ (ma cercava di non darlo a vedere) e lo guardava come nessuno aveva mai fatto. Disperata, arrabbiata, le guance rosse, gli occhi lucidi, l’aria di chi, come lui, non dorme abbastanza e pensa troppo. Lo guardò come se tutto fosse cambiato eppure nulla fosse diverso.
-Perché?- fu tutto ciò che gli chiese, puntandogli quegli occhi scuri dritti nelle pupille.
Ad Harry non avevano mai rivolto una domanda tanto difficile prima. Perché sono uno stronzo, perché vivo di libri, perché Anise era facile e tu eri tu e perché in treno stavi sempre sola e ti spostavi i capelli dietro l’orecchio in quel modo che mi faceva impazzire. Ma riuscì solo a deglutire, continuando a guardarla come fosse un miraggio.
-E’ finita- sputò infine, senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi.
Judith si bloccò, il respiro incastrato e la testa che le scoppiava. Aveva 38 di febbre, non era riuscita a stargli lontana e forse non aveva neanche capito bene.
-C-cosa?
-Che ci fai qui?- la guardò, pallida, stanca e bella da morire.
-Volevo dirti una cosa- sembrava stesse per piangere. Intrappolò il labbro inferiore tra i denti, lo sguardo ferito.
-Cosa?- Harry aveva un nodo in gola e non sapeva quanto ancora avrebbe resistito.
-Non è più importante- sussurrò, abbandonando la schiena contro il muro alle sue spalle come un soldato esausto della propria guerra.
Ed Harry si sentì improvvisamente abbandonato e solo. Ci fu un istante di silenzio che si protrasse fino a diventare doloroso per entrambi.
-Magari sì- sussurrò lui, spaventato come un bambino.
-Volevo dirti addio, e fottiti- ringhiò Judith guardandolo con rabbia. –E aspettami.
Harry si appoggiò allo stipite della porta, esausto.
-Io non ci capisco un cazzo con le persone- le confessò abbassando lo sguardo sui suoi piedi scalzi. –Mi piacciono i libri, mi piacciono le parole, mi piacciono le pagine ruvide a contatto con i polpastrelli e mi piace il tuo odore quando andiamo in libreria o abbiamo fatto l’amore, ma non so come funzionano le persone. Non lo capisco.
La guardò e Judith lesse nelle sue pupille dilatate l’espressione persa di un bambino posto davanti ad un concetto troppo vasto e complesso. Fece un passo verso di lui e tremo un po’.
-Perché con te non è come nei libri- continuò lui, sempre più confuso, sempre più in balia di quel nodo di parole e sentimenti e cose strane che lo attanagliava ogni notte quando chiudeva le palpebre e cercava di cancellare tutto. –E nella mia testa le parole non sono in ordine, ma sono un caleidoscopio di schifo e fanno male e non riesco a dire un cazzo perché se mi guardi il nodo si stringe e mi soffoca. Vuoi davvero sapere perché?
Judith annuì, inerme, senza parole, senza forza. Inchiodata al pavimento, agli occhi di Harry, con la febbre ed i brividi e tutto quel caos dentro, altro che teoria delle stringhe.
-Perché sei il mio fottuto nodo scorsoio stretto intorno alla gola- e chiuse gli occhi. Sconfitto. Vuoto. Impotente come un cervo ferito. Gli occhi di Judith si riempirono di lacrime e lui pensò che era finito tutto, anche se non era mai iniziato niente, e che forse il serial killer avrebbe dovuto farlo davvero. Pensò anche che Werther non ne sapeva un cazzo di dolori, poi sentì i passi di Judith, lenti e misurati, quasi temesse di spaventarlo. Le dita sottili della ragazza si serrarono attorno ai suoi polsi e lui aprì gli occhi. Solo allora notò le guance rosse e gli occhi gonfi, lucidi e stanchi di Judith, il suo tremito, il viso struccato.
-Tu leggi troppi libri- Judith accennò un sorriso.
-Hai gli occhi stanchi- mormorò lui, cercando di capire. Se voleva tenerle vicine le persone doveva imparare a capirle, almeno un po’.
-Ho la febbre.
-Alta?- le posò una mano sulla fronte spostando una ciocca di capelli e lei chiuse gli occhi.
-Trentotto.
-Vieni dentro.
In casa c’era un disordine incredibile e puzza d’aria viziata. Judith era stanca da morire e forse avrebbe dovuto prendere qualcosa per la febbre. La mano di Harry era nella sua, le dita intrecciate strette. Non voleva lasciarlo. Aveva sempre avuto un tremendo bisogno del contatto fisico, e se Harry avesse lasciato la presa in quel momento probabilmente sarebbe andata in pezzi. La camera da letto era un caos di libri e vestiti gettati a terra. Harry la guardò con un sorriso di scuse e la fossetta destra in mostra, le accarezzò il viso e si chinò per lasciarle un bacio leggero come un soffio sulle labbra. Una lacrima le solcò la guancia e quando lui aggrottò la fronte Judith scosse la testa, cercando nuovamente le sue labbra prima che potesse fare domande. Si aggrappò alle spalle di Harry e lo baciò cercando disperatamente di non scoppiare a piangere.
La mano di Harry le accarezzò una guancia mentre le loro labbra si incontravano sotto il temporale delle palpebre di Judith, sotto quelle lacrime che lo spaventavano.
-Dormi con me…vero?- chiese esitante quando lei fece un passo indietro.
Judith annuì, sorrise e si strinse nelle braccia perché sentiva freddo e non sapeva cosa dire.
 
 
Si era svegliata alle 3.04 dopo un incubo, scombussolata e tremante. Harry le aveva dato uno dei suoi maglioni pesanti intrecciati e si era addormentato con il viso nell’incavo del suo collo, i capelli lunghi di lei che gli solleticavano la guancia.
Judith era sempre stata una di quelle persone di cui gli altri si stancano subito, ma con il tempo si era abituata. Non era stato facile, era successo e basta. Non era stata forte, né coraggiosa, si era semplicemente adattata, tutta questione di sopravvivenza, perché se non ci si abitua a certe cose il dolore prima o poi diventa insopportabile. Probabilmente anche Harry si sarebbe stancato di lei, come avevano fatto pochi ragazzi con cui era uscita, gli amici delle medie e quasi tutti quelli del liceo. Forse Harry si sarebbe stancato persino più velocemente di tutti gli altri, perché lui viveva nei libri, perché le persone in carne ed ossa lo spaventavano e non le capiva, perché il suo mondo era di carta e Judith era troppo reale per lui. E presto ne avrebbe avuto abbastanza del suo disperato bisogno di certezze e di quella fame di dolcezza che la tormentava, e avrebbe detto basta, avrebbe capito di preferire i libri e di odiare l’infantile paura degli insetti di Judith, e lei avrebbe avuto l’ennesimo nome incastrato in gola, a farle male ogni notte.
Si accorse di essere nuovamente scoppiata a piangere solo quando le sfuggì un singhiozzo ed Harry si mosse nel sonno, strofinandole in viso contro il collo. Non avevano neanche fatto l’amore, per paura di rovinare tutto e di farsi male.
-Che ore sono?- mugugnò assonnato.
Judith non riusciva a parlare. Sapeva che non sarebbe riuscita a controllare la voce, e che Harry probabilmente non avrebbe capito.
Lui le baciò il collo e non disse nulla. Ascoltò il respiro pesante di quella ragazza così triste e si raggomitolò ancor più contro il suo corpo, cercando di sciogliere la sua improvvisa rigidezza.
-Hai mal di mondo?- le chiese con la voce roca di chi è stato appena strappato dal sonno.
Lei sorrise tra le lacrime e sussurrò un –Sì- appena udibile.
Per tutta risposta Harry le lasciò un bacio dietro l’orecchio e, sporgendosi sopra di lei nel buio della stanza, nel calore delle coperte, un secondo bacio sulle labbra. Judith rispose d’istinto, schiuse le labbra e gli circondò il collo con le braccia per trattenerlo contro di lei, addosso a lei, nella sua vita del cazzo. Il resto fu automatico, un riflesso involontario come spostarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio o grattarsi un pizzico di zanzara. Harry fece scivolare le sue mani calde sulle cosce nude di Judith, infilò gli indici negli slip di pizzo e li fece scivolare lungo le sue gambe affusolate. Accese l’abat-jour e le asciugò le lacrime con i pollici prima di liberarsi dei boxer e stendersi nuovamente su di lei con un sorriso incerto dipinto sulle labbra. Judith gli accarezzò il petto nudo, le spalle muscolose, lo baciò con disperazione affondando le dita in quella matassa di ricci e strinse la presa quando lui la penetrò, senza neanche sfilarle il maglione, senza dire niente. Il resto furono sospiri, carezze ed un tenersi aggrappati come se il mondo intero fosse improvvisamente concentrato nell’altro.
 
La mattina dopo Judith non trovò Harry nel letto. Si sedette a gambe incrociate, ancora stordita dalla febbre, e si guardò intorno. La stanza era immersa in una pallida luce autunnale ed Harry era seduto sul pavimento, un libro aperto sulle ginocchia nel punto esatto in cui il sole proiettava un debole quadrato di luce.
-Cosa fai?- gli chiese confusa, scendendo dal letto.
Harry le rivolse il sorriso spaesato di chi è appena stato riportato alla realtà.
-Leggo.
-Sul pavimento?- si chinò vicino a lui.
-Volevo rimanere qui ma non volevo svegliarti.- detto ciò, fece qualcosa che stupì Judith più di qualsiasi altro gesto o parola. Posò il libro sul pavimento, con le pagine rivolte verso il basso per non perdere il segno, le circondò la vita con le braccia e la fece sedere tra le sue gambe, sul pavimento freddo. –Perché quando dormi ti agiti?
Lei posò la testa contro il suo petto e si fece stringere da quelle braccia muscolose che avrebbe voluto chiamare casa. –Non lo so. Non mi ricordo mai i sogni.
-Di aver fatto l’amore con me te lo ricordi?- le sussurrò, le labbra che le sfioravano il lobo dell’orecchio sinistro ed un sorriso che Judith non poteva vedere sulle labbra.
Lei arrossì ma annuì, senza dire nulla.
-Scusa- disse Harry, dopo qualche istante di un silenzio stranamente pesante. Prese un respiro profondo e, con il corpo caldo di Judith raggomitolato contro il suo, si lasciò andare ad un fiume di parole di cui mai si sarebbe creduto capace. –Quando ero piccolo la mia maestra confidò a mia madre che credeva potessi essere autistico. Durante la ricreazione infatti, mentre gli altri bambini uscivano a giocare, io rimanevo solo in classe a leggere. Parlavo solo con il mio compagno di banco, e solo se necessario. Leggevo Ventimila leghe sotto i mari, Il giro del mondo in ottanta giorni, i libri Piccoli brividi e mi innamorai di Harry Potter, un po’ perché si chiamava come me e un po’ perché era un mago.- sorrise ed una fossetta spuntò dall’angolo delle due labbra. –Bastarono pochi controlli per convincere i medici ed i miei genitori che non ero affatto autistico, stavo solo meglio da solo. I bambini non erano interessanti come i libri, non erano maghi, non avevano macchine del tempo, non erano pirati né mostri né eroi, quindi credevo non ci fosse motivo di perderci troppo tempo. Crescendo ho iniziato a sentirmi solo, mi sono fatto qualche amico e a sedici anni ho avuto la mia prima ragazza, ma c’è sempre stato qualcosa…un tassello fuori posto, capisci? Come quando ci sono troppe pieghe tra le lenzuola, e non è un problema enorme ma ormai lo hai notato e fatichi ad addormentarti. Ecco, la mia vita è sempre stata così. Le persone mi hanno fatto sempre sentire scomodo. All’inizio mi piaceva semplicemente guardarti, riuscivi a distrarmi da qualsiasi lettura e questo, con il tempo, ha iniziato ad infastidirmi; eppure continuavo a sedermi in posti strategici per poterci guardare ed affacciarmi un po’nella tua solitudine, e questa solitudine mi è diventata sempre più familiare. Non volevo tenere il piede in sue staffe, con te ed Anise. Semplicemente, le cose mi sono sfuggite di mano perché non avevo il coraggio di fare del male ad Anise, ma volevo sentire il tuo odore, e scoprire perché sbuffi sempre e dirti che una notte ho sognato di essere Verlaine e di aver sparato a Rimabud, perché credevo che con te il senso di solitudine forse si sarebbe rimpicciolito. Perché mi piacevi più dei libri.
-P-più dei libri?- balbettò lei, la testa ancora piena di parole e gli occhi lucidi. Cercò il suo sguardo e vide negli occhi di Harry qualcosa che lei conosceva bene. La paura di rimanere solo.
Harry le sorrise. Attraverso la paura, attraverso le barriere e tutte quelle parole che facevano tanta paura, le sorrise e Judith capì che Harry era tutte quelle canzoni che ogni tanto si ritrovava a canticchiare senza ricordarne il nome, tutte le parole che aveva appuntato nella sua agenda semplicemente perché le era piaciuto il suono, il pezzo di ricambio per la parte di lei che non funzionava più o che forse non aveva mai funzionato.
-Più dei libri- le baciò la fronte e pensò che adesso stava molto meno scomodo.  





*Spazio autrice* 

Chi non muore si rivede, proprio vero. Alla fine sto tornando a postare tutte le vecchie os su efp, perché tenerle nel pc mi fa male al cuore. 
Spero che qualcuno apprezzi ancora L'odore delle stazioni, che prima era divisa in due parti ma ho deciso di unire in un'unica os da 11 pagine. 
Per la gioia delle fans di Abbie ed Harry, sto anche ri-correggendo Cause in your eyes I'd like to stay, per postarla nuovamente sia qui che su wattpad. 
Adesso di saluto, c'è un cappuccino da qualche parte in un bar che mi aspetta. 
Un bacione a tutte, sciaaao. 


https://www.facebook.com/profile.php?id=100008508791099




  
Leggi le 14 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: whiteblankpage