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Autore: mikimac    08/01/2015    2 recensioni
Sherlock Holmes si è suicidato. La vita di John Watson si trasforma in un incubo da cui solo la conoscenza di Mary Morstan lo farà uscire.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Mycroft Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fuga dal 221B di Baker Street

Questa è la seconda fanfiction che scrivo su Sherlock. Dato che mi sono molto divertita a scrivere la prima e che nessuno ha avuto il coraggio di dirmi di non ripetere l’esperienza (ringrazio moltissimo chi mi abbia fatto i complimenti e chi abbia letto il racconto), ho pensato di cimentarmi con le conseguenze dell’ultimo episodio della 2^ stagione per John Watson fino ad arrivare all’inizio della 3^.

I personaggi qui descritti non mi appartengono minimamente, dato che sono stati inventati da Sir Arthur Conan Doyle e rivisitati da Steven Moffat e Mark Gatiss nella serie BBC “Sherlock”.

Poiché le fanfiction su Sherlock sono più di 3300 solo in questo sito (io ne ho lette giusto una quarantina e per lo più brevi, però me ne sono segnate una cinquantina per future letture fra quelle lunghe), non leggo quelle in inglese perché la mia conoscenza della lingua non mi permetterebbe di apprezzarle come meriterebbero, non ho proprio idea se qualcuno abbia già affrontato la reazione di Watson alla morte di Sherlock ed il nascere dell’amore fra John e Mary come è venuto in mente a me.

Se dovesse esserci qualcosa che potrebbe sembrare un plagio, chiedo preventivamente scusa, ma sarebbe assolutamente e totalmente involontario.

Buona lettura e ringrazio anticipatamente chi voglia lasciare eventuali recensioni e commenti.

 

 

 

Era seduto nel salotto del 221B di Baker Street. Solo. John Watson si era lasciato cadere sulla sua poltrona. I piedi scalzi.1 Non sapeva come fosse tornato a casa. Non ricordava chi lo avesse accompagnato. La casa era singolarmente silenziosa. No. Non così silenziosa. Un suono lontano. Si raddrizzò cercando di identificare il rumore, improvvisamente attento ... “Sherlock?”  No. Non poteva essere Sherlock. Il suono che giungeva alle sue orecchie era troppo flebile. Sherlock era rumoroso, qualsiasi cosa facesse. Che stesse salendo le scale, sempre di corsa, come se la casa andasse a fuoco. Non stava mai fermo. Suonava il violino, ad ogni ora del giorno o della notte. Faceva esperimenti assurdi, come se la cucina fosse un laboratorio. Ed era meglio che non fosse annoiato! Poteva sparare alla parete o far esplodere qualcosa. Sorrise. No. Non era Sherlock. Lui non sarebbe stato così discreto. La signora Hudson stava piangendo. Perché piangeva?

“Sono un impostore. Dillo a chiunque voglia ascoltarti: dì loro che ho creato io Moriarty, per i miei scopi.”2

 Il sorriso scomparve. L’espressione si fece dura.

“No, Sherlock. Non lo farò mai. Non crederò mai che tu fossi un imbroglione. Anche se me lo hai detto tu, non lo crederò mai. Ci sarà una ragione, se hai fatto quella cosa mostruosa. Ci sarà una ragione, se l’ultima cosa che hai fatto è stato tentare di convincermi che tu fossi un imbroglione. Perdonami, Sherlock, ho sempre creduto in te, nella tua geniale gioia di vivere che mi ha travolto, sconvolto la vita, portato a fare cose che non avrei mai immaginato di poter fare. Perdonami, Sherlock, davvero, ma stavolta non posso crederti. Stavolta so che mi hai mentito. Non so perché tu lo abbia fatto. Noi siamo amici. E gli amici non si mentono. Gli amici credono l’uno all’altro. Gli amici hanno fiducia l’uno nell’altro. Perdonami, Sherlock, ma stavolta non ti credo. Stavolta non ho fiducia in te. Perdonami, Sherlock, ma non crederò mai che tu fossi un imbroglione. E non ti perdonerò mai per aver cercato di farmelo credere. E di esserti ucciso.”

 

 

Fuga dal 221B di  Baker Street

 

 

Era mattina. Un’ennesima mattina. Era trascorsa una settimana dalla morte di Sherlock. Il funerale era stato uno di quelli per pochi intimi. Persino i genitori di Sherlock non si erano presentati. Possibile che si vergognassero così tanto del figlio da non porgergli l’ultimo saluto? Oppure erano così frastornati da ciò che era accaduto da non poterlo affrontare. In fondo, è innaturale seppellire un figlio. Forse così potevano far finta che fosse ancora vivo. Sì. Doveva essere così. Loro non lo avevano visto lanciarsi dal tetto del Saint Bartholomew’s. Loro potevano credere che fosse ancora vivo. John Watson si era preso dei giorni di ferie dall’ambulatorio per mettere a posto l’appartamento di Baker Street. Doveva impacchettare le cose di Sherlock. Cercare di capire a chi dare cosa. Anche se pensava che nessuno avesse mire sulla strana collezione dell’unico consulente investigativo del mondo. Decisamente troppe cose. Ed ad ognuna era legato un ricordo. Il peso che sentiva alla bocca dello stomaco aumentava con il trascorrere lento delle ore. Fu anche troppo facile decidere di alleviarlo con un liquido ambrato che non era certo the.

“Solo un goccio. – si disse la prima sera John – Giusto per non ricordare a quale caso fosse legato quello stupido appunto: da maneggiare mettendosi a testa in giù. Solo un altro goccio, per dimenticare quanto avessimo riso quando un potenziale cliente si era presentato con la prova dell’esistenza degli extraterrestri fra noi e tu lo avevi travolto con la tua inesorabile logica, convincendolo che anche tu fossi un alieno.”

Quanta gente strana era passata per il loro salotto! Sembrava quasi che ci fosse una calamita che attirasse chi avesse problemi assurdi. Sherlock li ascoltava tutti, mostrando la stessa impazienza sia verso quelli che avrebbe aiutato sia verso quelli che avrebbe liquidato con quel suo modo di fare sgarbato ed irritante. Quando John Watson si trascinò a letto, lasciò la bottiglia di whiskey vuota nel mezzo della stanza.

La mattina dopo si svegliò con un enorme mal di testa. La luce lo infastidiva ed ogni suono era amplificato a dismisura dai postumi di una delle peggiori sbornie che ricordasse di aver mai preso. Fino ad allora.

“Io non sono Harry. – si disse – Si è trattato di un singolo episodio che non si ripeterà.”

La mattina seguente, la signora Hudson trovò un’altra bottiglia di whiskey, completamente vuota, riversa sul pavimento e John buttato sul divano.

 

 

Le parve strano entrare alla stazione di polizia. Il suo passato non era proprio privo di macchie, ma doveva parlare con qualcuno e Lestrade le era sembrato la soluzione più logica. La fecero attendere in un corridoio per quasi mezz’ora, quindi, finalmente, le dissero che l’ispettore poteva riceverla.

La signora Hudson si sedette davanti alla scrivania, stringendo nervosamente i manici della borsetta.

“Come sta, signora Hudson?” chiese gentilmente Lestrade.

“Bene, grazie. E lei?” rispose di riflesso la donna.

“Sto bene anch’io.” Ribatté l’ispettore, rimanendo in attesa che lei spiegasse il motivo della visita.

La signora Hudson, invece, rimase in silenzio, mordicchiandosi il labbro inferiore. Lestrade aspettò un momento, poi mise fine a quel silenzio imbarazzato:

“In cosa possa aiutarla?”

“Ecco, mi scusi, non volevo disturbarla. So che ha tanto da fare …”

“Nessun disturbo, signora Hudson. – sorrise il poliziotto – Sono sempre a sua disposizione.”

“Si tratta di John.” Disse velocemente la donna.

 “John? Cosa è successo?”

“Probabilmente mi sto preoccupando per nulla. – tergiversò la signora Hudson – Sicuramente non c’è alcun motivo per allarmarsi, ma … ecco … in due notti John si è scolato altrettante bottiglie di whiskey. Non è da lui. Non con tutti i problemi che ha con sua sorella a causa del bere.”

Finalmente la donna alzò gli occhi e fissò il viso del poliziotto.

“È già tornato a lavorare?” chiese lui.

“Non ancora. Si è preso dei giorni per inscatolare le cose di Sherlock.”

“Signora Hudson, facciamo una cosa. Con quello che è successo non possiamo stare troppo con il fiato sul collo di John. Questo paio di sere potrebbero essergli state necessarie per superare dei momenti difficili, ma, se dovesse esagerare anche stanotte od una qualsiasi delle prossime sere, voglio che mi telefoni subito a questo numero e me lo dica, così bloccheremo questa cosa prima che prenda il verso sbagliato.”

La donna fece un sospiro di sollievo e sorrise riconoscente, stringendo il biglietto che l’uomo le aveva allungato: “Grazie, ispettore, le farò sapere cosa succede.”

 

 

Silenzio. Sempre più silenzio. La casa sembrava immensa e vuota. E troppo silenziosa. Possibile che Sherlock la riempisse così tanto con la sua sola presenza? Possibile che rendesse intensa e piena l’esistenza di John? Perché aveva messo fine alla propria vita? Perché aveva cercato di convincerlo che lo avesse sempre ingannato? Perché non era riuscito a fermarlo? Cosa avrebbe potuto dire per impedirgli di compiere quel gesto assurdo e privo di ogni logica? In cosa aveva sbagliato? Cosa aveva detto o fatto per far pensare a Sherlock che non avesse più fiducia in lui? Che razza di medico incompetente era per non aver capito che il suo più caro amico, la persona con cui condivideva ogni istante della giornata, era entrato in una fase depressiva così acuta da fargli compiere un’azione così estrema? E si era pure dimostrato essere un pessimo amico! Come altro definirsi? Sherlock, l’essere più anafettivo che esistesse al mondo, capiva ogni suo stato d’animo e cosa pensasse solo con una occhiata fugace. E John Watson, invece? Il grande dottore comprensivo ed empatico cosa aveva fatto? Non era riuscito nemmeno a capire che la persona più importante della sua vita era caduta in una spirale autodistruttiva senza uscita. Sherlock lo aveva salvato da un’esistenza vuota e solitaria. John lo aveva ricompensato abbandonandolo a se stesso nel momento più difficile. Cosa aveva fatto per meritare l’amicizia di Sherlock? Perché aveva miseramente fallito come essere umano? Tutte le domande e le considerazioni vennero annegate nell’ennesima bottiglia di liquido whiskey.

 

 

La signora Hudson trovò John raggomitolato sul pavimento del salotto abbracciato alla bottiglia vuota. Con le lacrime agli occhi, sollevò il telefono e compose il numero che Lestrade le aveva dato:

“Ha bevuto anche stanotte.”

“Allora è tempo di intervenire. Ci vediamo stasera.”

 

 

Lestrade si presentò al centro medico e si accomodò pazientemente in attesa di essere ricevuto. La mora dottoressa lo notò in un angolo e gli si avvicinò:

“Salve Greg. Devi fare una visita?”

L’uomo si alzò in piedi:

“No, nessuna visita. Ho bisogno di parlarti di John.”

Sarah sospirò:

“Le cose stanno andando male?”

“Malissimo. – rispose l’ispettore – John ha cominciato a bere.”

La dottoressa lo fissò incredula:

“No, non può essere. – scosse la testa – John non lo farebbe mai.”

“Il John che conoscevamo prima della tragedia, sicuramente no. – disse Lestrade – Quanto tempo è che non lo vedi?”

“Dal funerale. Non ha ancora ripreso il lavoro, ma so che ne avrà bisogno e che tornerà. Cos’altro potrà fare quando capirà che Sherlock se ne è andato per sempre?”

“Bene. Farò in modo che riprenda servizio in pochi giorni. I primi tempi dovrete avere molta pazienza. Sai di qualche appartamento in affitto qui vicino?”

“Sì, diversi. In bacheca ci sono degli annunci. Perché?”

“Baker Street è la malattia che sta distruggendo John. Portarlo via da lì sarà la cura.”

 

 

Era scesa di nuovo la sera. Aveva trascorso la giornata in uno stato di confuso dormiveglia, decisamente utile per dimenticare Sherlock ed alleviare il dolore per la sua perdita. La sera, però, con il suo buio e le sue luci sgargianti, aveva riportato a galla l’angoscia. John si era attaccato all’ennesima bottiglia. Era stato costretto a cercare a lungo, per trovarla. Aveva rovistato in armadi e cassetti rovesciandone a terra il contenuto senza preoccuparsi che qualcosa potesse rovinarsi. Tutto pur di alleviare il dolore. Tutto pur di stordirsi per non ricordare. Mentre setacciava il salotto, si era trovato davanti la pistola. Ora che aveva bevuto metà della bottiglia, se la ritrovò fra le mani senza sapere nemmeno perché. La fissava affascinato, come se la vedesse per la prima volta. Ricordava ancora quando la aveva usata per impedire a Sherlock di prendere la pastiglia che avrebbe potuto ucciderlo.3  

“Idiota. – pensò – L’idiota più intelligente che conoscessi.”

Bevve un lungo sorso. Poi tornò ad ammirare l’arma. L’impugnatura. Il grilletto. La canna. Puntata verso se stesso. Il nero buco da cui poteva uscire il proiettile che lo guardava invitante. Fu così che lo trovò Lestrade entrando nel salotto: seduto sulla poltrona di Sherlock, con le gambe raccolte, le ginocchia a toccare il mento, la bottiglia incastrata fra il bracciolo ed il suo corpo, la pistola puntata verso il volto.

 

 

Lestrade rimase paralizzato sulla porta. Non riusciva a capire cosa stesse pensando John, ma lo vide come ipnotizzato dall’arma che stava impugnando. Il cuore gli martellava nel petto, ma sapeva che doveva agire con molta calma: se John si fosse spaventato, avrebbe potuto far partire un colpo accidentale e ferirsi gravemente, se non addirittura uccidersi. Contando sul fatto che fosse troppo ubriaco per rendersi conto che lui si stava muovendo per la stanza, Lestrade si avvicinò silenziosamente ed, appena fu abbastanza vicino, disarmò John. Il dottore non oppose alcuna resistenza. Anzi, fissò l’ispettore come se non si rendesse conto di cosa ci facesse nel salotto di Baker Street. Lestrade mise al sicuro la pistola:

“Che ne diresti di andare a letto?”

John lo squadrava con uno sguardo spento e distante:

“Sherlock? Sei tu? – strinse gli occhi ed avvicinò il viso a quello di Lestrade – No. Tu sei … Greg!”

Il fiato puzzava di alcool e Lestrade arricciò il naso:

“Sì, John, sono io. Ora ti porto a letto.”

Lo sollevò di peso, visto che Watson non faceva nulla per aiutarlo, cingendolo con un braccio sopra la vita e lo trascinò per le scale fino alla sua stanza. Lo posò delicatamente sul letto, poi gli sollevò le gambe. John si addormentò di colpo. Lestrade sospirò e si sistemò, come meglio poté, sulla poltrona.

 

 

La mattina dopo il sole, che faceva capolino dalla finestra, svegliò John. Non ricordava come fosse arrivato a letto. Sentì qualcuno muoversi in cucina. Pensando che la signora Hudson stesse preparando la colazione, decise di scendere. Con sua grande sorpresa, vi trovò Lestrade, i vestiti spiegazzati e la barba non rasata.

“Buongiorno John e ben svegliato.”

John lo fissò perplesso:

“Greg? Cosa ci fai qui?”

“Qui c’è del caffè. È forte e senza zucchero. Bevilo. Poi ti fai una doccia e la barba. Io, intanto, ti faccio le valigie … “

“Cosa? – lo interruppe John irritato – Le valigie? Io non ho intenzione di andare da nessuna parte!”

“Io faccio le valigie. – continuò imperterrito Lestrade – Ieri ho visto un paio di appartamenti che possono andare bene. Li andremo a vedere insieme e ne prenderai uno in affitto. Ti concedo un paio di giorni per smaltire completamente tutto l’alcool che hai ingerito in questi giorni. Lunedì tornerai a lavorare.”

John era furioso. Stringeva i pugni e sembrava sul punto di saltare addosso a Lestrade:

“Come osi! – sibilò – Con che diritto vieni qui a dirmi cosa debba fare?”

Lestrade non si scompose: appoggiò i pugni al tavolo e ricambiò lo sguardo duro:

“Se non fai quello che ti dico, ti arresto.”

“E con che accusa? Una bevuta di troppo?”

“No: possesso di arma di fuoco e tentato omicidio.”

John era esterrefatto:

“Tentato … tentato omicidio? E chi avrei tentato di uccidere?”

“Te stesso.”

Ad uno sempre più sconvolto Watson, Lestrade raccontò nei minimi dettagli cosa fosse successo la sera prima:

“Capisco che tu stia soffrendo per quello che ha fatto Sherlock, ma non hai il diritto di scaricare addosso a tutti noi anche il tuo suicidio! Come pensi che potremmo superare anche questo?”

“Io … io non ho mai pensato … – balbettò John – Non ho mai voluto suicidarmi.”

“Bene. Lascerai Baker Street oggi stesso e riprenderai a vivere. Sherlock sarà stato speciale, non lo metto in dubbio, ma non merita che tu ti lasci morire per lui. Non lo merita, chiaro? Ci sono persone, là fuori, che hanno bisogno di te. C’è gente che ha bisogno che tu torni ad essere un medico. Devi tornare a vivere! Non puoi seppellirti qui dentro e rinunciare alla tua vita solo perché quello stupido bastardo egoista ha deciso che era troppo difficile affrontare le accuse ed ha preferito farla finita. Tu non sei lui! Non ti permetterò di autodistruggerti, chiaro? Non ne hai il diritto! Non sei solo! Hai capito?”

Lestrade non si era reso conto che, mano a mano che procedeva nel parlare, il tono di voce si era alzato sempre di più. Fissava John, che si mostrava sempre più smarrito e vulnerabile. La signora Hudson aveva fatto capolino sulla porta della cucina ed aveva le lacrime agli occhi. Lestrade fece un respiro profondo per calmarsi, poi riprese a parlare con un tono di voce più basso:

“Mi dispiace, non volevo urlare. Ho già perso un amico, non posso perdere anche te.”

John fece cenno di sì con la testa. Bevve il caffè e salì al piano di sopra a fare la doccia.

 

 

Salutare la signora Hudson fu la cosa più difficile. Lestrade era stato chiaro: John doveva andarsene per il suo bene. La donna era troppo affezionata al dottore per non capire che rimanere a vivere a Baker Street non gli avrebbe mai permesso di andare oltre.

“Mi raccomando, John, – gli disse – prenditi cura di te stesso, ma non ti dimenticare di me. Quando te la sentirai, vienimi a trovare. Ti farò il tuo the preferito, va bene?”

“Lo farò, signora Hudson. – rispose John – Si riguardi. Se dovesse avere bisogno, mi chiami.”

Lestrade aveva finito di caricare i bagagli sull’auto ed era salito in auto al posto di guida. John si fermò sul marciapiedi, studiò la facciata del 221B di Baker Street. Per un attimo, gli sembrò che una figura alta e magra facesse capolino alla finestra del salotto. Il cuore gli mancò un colpo: Sherlock era tornato! Ma la realtà gli precipitò addosso con tutto il dolore che si portava sempre appresso negli ultimi tempi: Sherlock se ne era andato per sempre e non avrebbe più fatto parte della sua vita. Quello che aveva visto era solo un ricordo, un fantasma del passato che una folata di vento si era già portato via. John salì sull’auto e non si voltò mai indietro: non sarebbe più tornato al 221B di Baker Street per molto, molto tempo.

 

 

Alcuni giorni dopo, John si presentò in ospedale. Sarah lo accolse con un sorriso:

“Buongiorno, John. – esordì la donna – Sono felice che tu sia tornato al lavoro.”

John non riuscì a ricambiare il sorriso. Sarah lo prese sotto braccio e lo accompagnò nell’ambulatorio:

“Oggi ho fatto in modo che avessi una giornata abbastanza tranquilla, giusto per non spaventarti troppo al tuo rientro, ma non ti ci abituare, perché ho intenzione di sfruttare le tue straordinarie capacità fino in fondo!”

John continuava a non parlare. Entrati nello studio medico, c’era una donna che stava sistemando la scrivania e che si girò verso di loro. Sarah le sorrise:

“John, vorrei presentarti l’infermiera che ti assisterà: Mary Morstan. Mary, questo è il Dottor John Watson.”

I due si scambiarono una veloce stretta di mano. Sarah li lasciò.

Era l’inizio di una nuova vita, per John. Una vita senza Sherlock. Senza casi. Senza avventure e pericoli. Si guardò intorno, sospirò.

“Faccia entrare il primo paziente.” Sussurrò.

E la vita monotona riprese.

 

 

 

Note

 

1 È l’unica scena di John nel salotto di Baker Street dopo il suicidio di Sherlock nella 2x03 “The Reichnbach Fall”.

2 È una delle tante cose che Sherlock dice a John mentre si trova sul cornicione del Bart nella 2x03 “The Reichnbach Fall” prima di “suicidarsi”.

3 Si riferisce a quando Sherlock sta per prendere la pastiglia offertagli dal taxista-serial killer nella puntata 1x01 “The Study in Pink”.

 

 

   
 
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