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Autore: Lady Lee    10/01/2015    2 recensioni
‹‹Sul mio stesso pullman c’era Jason Myers: era seduto quasi sempre nei sedili dietro, nascosto da tutti e da tutto, in un universo lontano, che osservava il mondo dal finestrino. Lo guardavo senza mai stancarmi.››
Un'amicizia che nasce per caso.
Genere: Fluff, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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L’aria fredda e pungente di inizio gennaio si faceva sentire, il vento soffiava leggero e le foglie degli alberi frusciavano silenziosamente, a momenti sarebbero scivolate via, trasportate dal vento freddo.
Ero seduta al solito posto a quella che, da due settimane, era diventata la mia abituale fermata del bus delle otto, e sapevo che anche quella mattina sarei arrivata in ritardo, visto che ormai avevo perso l’autobus precedente e così, come sempre, aspettavo con le cuffiette nelle orecchie e la musica a volume altissimo.
Da fuori probabilmente apparivo ancora addormentata, avevo gli occhi color miele socchiusi e le labbra serrate; quando dentro di me, nonostante avessi dormito meno del solito, si era già scatenata una tempesta di sensazioni e sentimenti. Era come trovarsi su un’enorme barca, che lentamente oscilla verso l’oceano infinito, portando con sé ricordi e emozioni.
Riuscire a non naufragare era la parte più difficile, senza dubbio.
Sull’autobus delle otto c’eravamo noi avventurieri, (ritardatari, ovviamente), che ogni mattina speravamo di trovare tutti i semafori verdi, per non arrivare ancora più in ritardo, ma che spesso pensavamo che non sarebbe stato brutto fermare per sempre l’autobus e non arrivare mai più a scuola.
Sul mio stesso pullman c’era Jason Myers: era seduto quasi sempre nei sedili dietro, nascosto da tutti e da tutto, in un universo lontano, che osservava il mondo dal finestrino. Lo guardavo senza mai stancarmi.
Ma lui prendava sempre l’autobus delle otto meno un quarto, non quello dei ritardatari. E a volte anche io, per guardarlo da pochi sedili più avanti, arrivavo in anticipo e prendevo il suo stesso autobus.
A scuola entrai appena cinque minuti dopo la campanella, che suonava esattamente alle otto e tredici, senza mai sgarrare di un minuto.
Ero stata fortunata, perché i semafori erano davvero tutti verdi, e l’autista di turno non si faceva problemi ad andare più veloce di quanto avrebbe dovuto.
Le prime ore passavano rapidamente il lunedì, le nostre facce erano sempre assonnate e rassegnate a dover passare un’altra settimana prima di arrivare all’attesissimo week-end. Ho sempre odiato il fatto che il sabato sia lontanissimo dal lunedì e il lunedì così vicino al sabato. In realtà non sapevo nemmeno se i miei pensieri avessero un vero senso, ma così sembrava.
Quelli agli ultimi banchi si nascondevano bene dietro a quelli della terza fila, e potevano permettersi di avere la testa chissà dove, durante le spiegazioni più noiose.
Io, dalla seconda fila, guardavo fuori dalla finestra alla mia sinistra il cortile vuoto circondato dai possenti alberi che da sempre l’avevano domato. Non faceva lo stesso effetto senza sentire le solite urla e gli schiamazzi provenienti da lì.
Strappai un pezzetto di carta dal quaderno e vi disegnai uno smile, scrissi un veloce t.v.b. e lo lanciai ad Annie, ma rotolò a terra. Appena la ragazza lo ricevette si lasciò scappare un sorriso appena accennato. Lo infilò nell’astuccio e mi guardò, io sorrisi a mia volta.
Lanciai un altro bigliettino, che cadde nel sottile spazio tra la sedia di Annie e la sua schiena. “All’uscita Missione J.”, scrissi, in modo che se qualcuno lo avesse intercettato solo lei l’avrebbe saputo decifrare. Lo lesse e alzò il suo sguardo su di me.
Dopo qualche minuto gliene passai un altro. Stavolta finì sul suo quaderno. “Esigo una risposta. ;)”, avevo scritto.
Subito lei prese la penna e velocemente scarabocchiò qualcosa. “Ce l’hai fatta a fare un lancio decente. ”
Quando la campanella segnò la fine delle lezioni mi incontrai con Annie, e, proprio davanti all’enorme portone, intercettai lo sguardo di Jason Myers.
Annie conosceva da tempo la mia ammirazione nei suoi confronti.
Era un ragazzo alto sicuramente più di me, i capelli neri sempre scompligliati e gli occhi color ghiaccio. Era bellissimo: con il fascino di un lupo misterioso, solitario, freddo e schivo.
Camminava guardando verso l’alto, come se nel cielo terso cercasse qualcosa, ma con la consapevolezza che non l’avrebbe trovata. C’era un sottile velo di amara tristezza in lui.
Si guardava intorno, abbassando lo sguardo appena i miei occhi si posavano sui suoi.
Lo raggiunsi a grandi passi, voltandomi verso Annie, che alzava i pollici sorridendo, per dirmi di continuare così. Lo scontrai di proposito, dandogli una leggera spallata per attirare la sua attenzione.
Mi guardò irritato borbottando qualcosa che non riuscii a capire bene.
‹‹Scusa›› dissi, arrossendo.
Continuai a seguirlo, camminando poco distante da lui, e arrivammo a una fermata dell’autobus di quelle che nel tempo, a distanza di anni, vengono dimenticate, e così tutti gli avventurieri che le mattine vi viaggiavano.
‹‹Devi prendere l’autobus?›› mi chiese, la voce distaccata e agghiacciante. Quella era stata la prima volta che mi aveva rivolto la parola. Mi sentivo in Paradiso.
Gli risposi di no, un po’ incerta.
Risprese a camminare. ‹‹Sei della seconda G?›› domandò dopo un po’.
Ero sorpresa del fatto che conoscesse persino la mia sezione. Annuii. E lui era della terza F, e tutte le mattine lo guardavo salire le scale per il terzo piano; la felpa (spesso blu, o rossa) sempre chiusa fino al collo e le mani in tasca. Poi lo osservavo mentre entrava in classe, e tornavo nella mia aula.
Annie diceva che lo spiavo, facendo così. Lui invece non sapeva neanche che esistessi.
La Missione J., che stava per Missione Jason, era stata ideata dalla mia amica, e consisteva nel “conquistare” Jason Myers. A me bastava che lui conoscesse il mio nome, in realtà.
Jason sospirò, poi mi guardò, ghiaccio nel miele, gli occhi semichiusi.
‹‹Mi chiamo Rachel.›› dissi in un soffio, distogliendo lo sguardo e arrossendo.
‹‹Lo so.›› sussurrò, accennando ad un piccolo sorriso.
Esisteva qualcosa che mi avrebbe reso più felice? No, di certo.
Ecco, in teoria adesso la Missione J. era stata compiuta, ma in quel momento non ci pensai nemmeno, e nonostante la direzione in cui Jason si stava dirigendo fosse quella opposta rispetto a casa mia, continuai a camminare, senza fare domande.
Lui non disse niente.
E quel silenzio mi stava uccidendo e facendo rinascere dentro, mi stava rapendo e portando via, lontano, ma con Jason.
Mi parlò della sua passione per la musica, cosa che avevo dedotto tempo fa notando le sue magliette dei Pink Floyd e Deep Purple. Non glielo dissi, rimanendo affascinata dal suo persuasivo e al contempo timido modo di parlare.
Era incredibile. Potevo sentire la pressione alzarsi, il cuore battere più velocemente e la felicità sprizzare fuori e diffondersi nell’aria. Lo guardavo assorta, con espressione sognante, e lui forse neanche se ne accorgeva, camminando lentamente.
Gli dissi qualcosa riguardo alle mie band preferite, con la paura che i nomi che stavo facendo e i titoli delle canzoni che citavo non fossero all’altezza dei suoi. Ci pensò un po’ e disse che li conosceva. In quel momento non mi importò di non essere alla sua altezza, di non essere perfetta e di non amare i suoi stessi gruppi musicali.
Sembrava che a lui andasse bene così, mi accettava così com’ero. Forse cercava solo qualcuno con cui parlare di musica, dei Rolling Stones, delle chitarre elettriche, e l’aveva trovato.
‹‹Rachel›› disse, il tono basso. ‹‹Tu… non abiti dall’altra parte?›› era visibilmente imbarazzato.
‹‹Ehm…sì.›› risposi, sentendo le guance diventare più rosse.
Cominciò a ridere, e io non trovavo cosa più divertente delle risate degli altri,  così cominciai a ridere anch’io. La sua era una risata vivace e cristallina, riecheggiava per la strada armoniosa, come una melodia dolce.
Forse quelle che vidi erano veramente lacrime, ed erano dovute a quelle risata. E io continuavo a non capirne il motivo.
‹‹Anch’io.›› sentenziò, e cominciai a ridere più forte.
Eravamo arrivati fin laggiù per caso. Io pensavo che ci abitasse lui, così avevo continuato a camminare senza indugiare.
Non aggiunsi altro, ci girammo nella direzione opposta e cominciammo a camminare verso casa; avevamo ancora sul volto due sorrisi divertiti stampati, e il tempo passò più in fretta.
Passammo vicino alla fermata del bus, e potevo ancora sentire le voci dei ragazzi che c’erano fino a pochi minuti prima. Gli stessi avventurieri che la mattina arrivavano in ritardo.
Poco distante c’era la casa di Jason. Era un palazzo alto e verde, i muri erano rovinati, mi indicò il terzo piano e disse che lui abitava lì. Mi salutò con un gesto della mano e un flebile ‹‹ciao››, io lo osservai mentre percorreva il vialetto.
Ero triste, perché sapevo bene che a casa mi stava aspettando mamma, e che una sgridata non me la toglieva nessuno: ero in ritardo di oltre mezzora. I trenta minuti più belli tra gli ultimi trascorsi, sicuramente. E non potevo permettere che si concludessero così.
Ormai Jason era quasi arrivato al portone, così corsi più veloce che potevo, arrivando a pochi centimetri di distanza da lui.
Senza nemmeno pensarci lo abbracciai.
Adesso era come se lo conoscessi da una vita, e con mia sorpresa, lui ricambiò stringendomi più forte. Poi lo lasciai andare, sorridendo. Ma lui chinò lo sguardo.
Lo abbracciai di nuovo, stringendolo come se potesse volare via da un momento all’altro. Mi sentivo protetta, e stavo dando protezione a lui. Il mondo attorno a noi scomparve, non c’era più niente. Solo le sue mani attorno alle mie spalle, e le mie attorno al suo collo.
‹‹Sono qui per te, ora e per sempre.›› dissi, la voce molto bassa. ‹‹Come i veri amici.››
‹‹Per sempre.›› riepetè.
Adesso eravamo felici, leggeri come libere farfalle. È questo il segreto dell’amicizia. Condividere la felicità, esserci sempre l’uno per l’altra.
‹‹Amici per sempre.›› mi sussurrò nell’orecchio.
Sorrisi e lo strinsi in un abbraccio più forte.
‹‹Prometti?›› domandai io.
‹‹Prometto.››
 
 
 
  
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