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Autore: The Writer Of The Stars    10/01/2015    9 recensioni
One shot AU dedicata alle vittime dell'attentato avvenuto a Parigi ... Perchè la libertà di pensiero è tutto ... Noi siamo Charlie Hebdo ...
“Papà?” sentendosi richiamare dalla bambina, si voltò per un attimo, guardandola curioso.
“Mi prometti che vieni a prendermi?” chiese con gli occhioni spalancati e in attesa di una risposta. L’uomo sorrise leggermente, annuendo con il capo.
“Certo … te lo prometto, Bulma …”
“Comunque io sono Bulma …” disse la ragazza, continuando a tendere la mano un po’ timorosa. Il ragazzo osservò l’esile arto della graziosa ragazza, sorridendo a metà, ma non le strinse la mano. Rispose soltanto.
“Vegeta …”
“Sai, tra nove mesi saremmo diventati genitori …” sussurra a fior di labbra, reprimendo un singhiozzo. Vede le pupille di Vegeta dilatarsi a dismisura, sconcertato. Lo guarda posare lo sguardo sul suo ventre ancora piatto, incredulo, sfiorandolo con una mano."
"...E Bulma sorride amaramente, pochi secondi prima della fine. Ha provato a combattere, come faceva suo padre. Ma non è bastato. Purtroppo, la pazzia umana non ha limiti..."
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata alle vittime dell’attentato avvenuto a Parigi al giornale “Charlie Hebdo” e a tutti coloro che hanno perso la vita in questi giorni terribili.
 

New York,11 settembre 2001
 
Avvicinò la tazza in ceramica al labbro, senza distogliere gli occhi dal giornale. Poi, dopo aver sfiorato con la punta della lingua il liquido scuro scoprendolo bollente, la allontanò immediatamente, con una smorfia di dolore dipinta in viso, dovuta all’ustione appena procuratosi alla lingua.

“Caro, aspetta prima di prendere il caffè, è ancora boll …” ma la donna si interruppe quando voltatasi, vide il marito prendere aria con la lingua in fuori, quasi ad imitare un cagnolino.

“Me ne ero accorto …” biascicò l’uomo dai capelli color lavanda e i bizzarri baffi.
Sentì uno scalpiccio alquanto rumoroso al di sopra della sua testa, al piano superiore. Passi veloci, attutiti da dei calzini in cotone e dalla moquette del corridoio, accompagnarono la venuta dell’ultima componente di quella normale famigliola.

“Papà! Papà!”  ed infatti, dalle scale una deliziosa bambina dalla chioma azzurra fece la sua comparsa. Correndo a rotta di collo per le scale date a separare i due piani dell’abitazione, la piccola arrivò nella piccola cucina dove i genitori stavano già facendo colazione. Con un balzò, si gettò tra le braccia di suo padre, abbracciandolo sorridendo.

“Ahh, buongiorno tesoro!” riuscì a balbettare l’uomo nella soffocante stretta della figlia. Pochi secondi dopo, i due adulti e la bambina erano seduti intorno ad una tavola riccamente imbandita per il primo pasto della giornata.

“Papà, mi accompagni tu oggi a scuola?”il volto della piccola bambina riemerse dalla ciotola di latte che stava bevendo, con conseguenti baffetti di schiuma e qualche goccia di latte sul nasino. Era davvero buffa.

“Ehm, tesoro oggi credo di non riuscire ad accompagnarti …” fece l’uomo, lanciando un’occhiata veloce all’orologio appeso alla parete e alzandosi con cautela. La piccola guardò il genitore afferrare il cappotto dall’attaccapanni all’ingresso ed infilarselo sopra all’elegante completo blu, quello che indossava sempre per andare in ufficio. Notando il tenero broncio generatosi nel visino della figlia, la madre della piccola sorrise leggermente, accarezzandole i capelli.

“Tesoro, non preoccuparti; ti accompagno io!” esordì con voce squillante la signora dall’aria giuliva e allegra. Non completamente rincuorata, la piccola non poté però fare a meno che annuire distrattamente, affondando il viso nella tazza colma di latte.

“Va bene, mamma …” biascicò delusa. L’uomo si intenerì nel vederla così, perciò le si avvicinò, inginocchiandosi di fronte a lei.

“Ehi, piccola …” la richiamò, cercando di sollevarle il mento.

“Ascolta, ti prometto che appena esco dall’ufficio vengo a prenderti a scuola, va bene?” le propose, cercando l’approvazione della bambina. In tutta risposta, la piccola alzò lo sguardo dal tavolo, puntandolo su genitore e sorridendo entusiasta.

“Si! Che bello, grazie papà!” esultò, abbracciando il padre. Per un attimo, moglie e marito si scambiarono un’occhiata d’intesa, sorridendo teneramente nel vedere la bambina così felice per un gesto tanto semplice.

“Ora devo andare …” sussurrò l’uomo, staccandosi dall’abbraccio con un poco di riluttanza. Si avvicinò alla moglie, salutandola con un leggero bacio a fior di labbra, il tutto sotto gli occhi vigili della bambina. Quando fu ormai vicino all’ingresso, aprì la porta, recuperando la ventiquattro ore posata in terra.

“Papà?” sentendosi richiamare dalla bambina, si voltò per un attimo, guardandola curioso.

“Mi prometti che vieni a prendermi?” chiese con gli occhioni spalancati e in attesa di una risposta. L’uomo sorrise leggermente, annuendo con il capo.

“Certo … te lo prometto, Bulma …”
 

Ma quel giorno, suo padre non andò mai a prenderla. Si ricordava tutto di quella giornata, ma i ricordi erano sfocati, disconnessi, complessi … offuscati dalle tante lacrime versate quel giorno. Alle 9.59 lei era a scuola, con i suoi compagni di classe e la sua maestra. Stavano scrivendo un tema su chi fossero i loro miti, e mentre le sue amiche parlavano di protagoniste di cartoni animati o altro, lei stava scrivendo un tema sul suo papà, perché era lui il suo mito. Non sapeva certo che mentre con la penna faticosamente impugnata tra i ditini e con una calligrafia ancora acerba ed infantile scriveva “Ti voglio bene, papà” un aereo dirottato si andava a schiantare sulla torre meridionale, una delle due torri gemelle. E non sapeva certo, che quella era proprio la torre dove il suo papà stesse lavorando. Quando uscì da scuola aspettò per oltre mezz’ora di fronte al cancello, in attesa di vedere l’amato genitore venirle incontro e prenderla in braccio, scusandosi per il ritardo. Ma quando dopo un’ora a prenderla arrivò sua madre, sentì una rabbia montarle dentro per la promessa infranta da parte del padre. E poi vide le lacrime della mamma. E la rabbia scomparve, perché vennero tante lacrime …


Aveva nove anni quando suo padre morì nell’attentato alle torri gemelle. Nonostante tutto, era voluta andare a tutti i costi nel luogo dove era avvenuta quella tragedia. A debita distanza, era rimasta a fissare da lontano i soccorritori che cercavano disperatamente di recuperare i corpi delle vittime da sotto le macerie di quelle che fino a quella mattina erano state due torri gemelle, il luogo dove suo padre lavorava. Alle sue spalle sua madre, come moltissimi altri famigliari delle vittime, singhiozzavano senza controllo, lacerate dal dolore. Lei piangeva, ma senza singhiozzare. Con sguardo fiero, continuava a fissare i resti degli edifici dove raffiche di polvere inghiottivano coloro che stavano cercando il corpo di suo padre e quello di tante altre persone che avevano solo colpa di lavorare in quel posto. Le lacrime continuavano a scorrere mentre mano a mano vedeva riemergere quei signori dalle tute sgargianti con barelle coperte da un lenzuolo bianco, mentre sentiva tutto il mondo intorno a sé crollare, come un castello di carta. Suo padre era un giornalista, uno di quelli seri, quelli che la gente ammira per il loro coraggio e la loro onestà. Un uomo che lottava contro la censura e predicava la libertà di pensiero e di espressione. Suo padre era il suo mito. E guardando la tomba di suo padre e di tutte quelle persone, prese la sua decisione. Fece un profondo respiro, asciugandosi le lacrime. Aveva deciso; sarebbe diventata una giornalista.
 

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Camminava con passo svelto, guardandosi intorno alla ricerca di ciò che le interessava.

“Aula tre, aula tre …” sussurrava tra sé e sé, cercando con gli occhi la famosa aula. La facoltà di scienze della comunicazione era grande, glielo avevano detto, ma non credeva avesse una struttura così labirintica. Era ormai un quarto d’ora che girava per la facoltà alla ricerca dell’aula che le avevano indicato, quella dove si sarebbe tenuto l’incontro delle matricole come lei con il rettore. Arrivare in ritardo proprio il primo giorno di lezioni all’università non era certo nei suoi programmi, perciò quando fece marcia indietro di corsa, senza sapere dove andare, non si rese minimamente conto di aver investito in pieno qualcuno. Almeno fino a quando non si ritrovò a terra con le gambe all’aria e un brutto livido sul coccige.

“Ahia!” si ritrovò ad imprecare una volta toccato terra.

“Ma sei scema?!” si sentì rimproverare da una voce roca e profonda, quasi graffiante. Alzò allora gli occhi dal terreno scontrandosi con quelli del povero malcapitato che aveva accidentalmente investito. Nel momento in cui incontrò quelle iridi di antracite, ebbe un fremito lungo la schiena e per poco temette di svenire. Gli occhi più belli e profondi dell’intero universo erano a pochi centimetri dai suoi, e ora la stavano fissando alquanto arrabbiati.

“Eh?” riuscì a balbettare, arrossendo. Il ragazzo dinanzi a lei sbuffò scocciato, alzando gli occhi al cielo.

“Ma sei ritardata o cosa? Vuoi almeno alzarti?!” fece lui scorbutico, e solo in quel momento Bulma si rese conto dell’effettiva posizione in cui si trovavano. Lei era praticamente abbandonata sul suo torace, con le mani appoggiate al petto. Arrossendo ancora, si alzò in piedi dalla imbarazzante posa equivoca, balbettando uno “scusa” a testa bassa. Vide il ragazzo davanti a lei alzarsi a sua volta, sbuffando.

“Idiota.” Lo sentì dire e a quelle parole, Bulma sentì la rabbia montarle dentro, spazzando via l’imbarazzo di poco prima.

“Come mi hai chiamato, scusa?” esordì infatti con tono indignato. Per tutta risposta, il ragazzo alzò le spalle con noncuranza.

“Ho detto che sei un’idiota.” Ripeté tranquillo. Bulma appuntò le braccia ai fianchi, assumendo un’aria battagliera ed indignata.

“Non chiamarmi idiota …” sibilò minacciosa. Il ragazzo dagli occhi di pece ghignò leggermente,e Bulma non poté fare a meno di notare che quel ghigno bastardo fosse dannatamente bellissimo. Lo vide voltarsi e cominciare a camminare, quando ad un tratto si fermò.

“Comunque, ho sentito che prima blateravi da sola dell’aula tre …” disse, senza voltarsi a guardarla. Bulma annuì, anche se lui non poté vederla.

“Tu per caso sai dove si trova?” chiese speranzosa. In fondo quel ragazzo sembrava avere la sua stessa età, magari anche lui era una matricola. Ma forse era una matricola ben informata. Lo sentì sbuffare, mentre roteava gli occhi verso il cielo.

“Andiamo , idiota …” disse, continuando a darle le spalle. Bulma sgranò gli occhi per la contentezza, ignorando l’insulto. In fondo l’aveva invitata a seguirlo per raggiungere l’aula … la faccenda si era risolta. Con un agile scatto raggiunse subito il ragazzo, affiancandolo. Questo riprese a camminare a testa alta, senza degnarla di uno sguardo. Ad un tratto, il giovane dagli occhi bui vide una manina bianco latte palesarsi proprio di fronte ai suoi occhi, di scatto.

“Comunque io sono Bulma …” disse la ragazza, continuando a tendere la mano un po’ timorosa. Il ragazzo osservò l’esile arto della graziosa ragazza, sorridendo a metà, ma non le strinse la mano. Rispose soltanto.

“Vegeta …”
 

Il sogno di Bulma era quello di diventare una giornalista. All’inizio era nato solo come un desiderio di rivalsa, un gesto dedicato a suo padre, che del giornalismo aveva fatto la sua vita. Poi però, con il passare del tempo, la scelta di essere giornalista le era apparsa sempre più bella e aveva capito che era quella la sua strada. Lei era nata per combattere contro le ingiustizie, per raccontare al mondo tutto ciò che succedeva davvero sulla terra, e non solo quello che gli altri le imponevano di dire. La lotta contro la censura, la libertà di pensiero e di espressione, la voglia di far sentire la propria voce attraverso articoli magari anche solo di poche righe ma intrisi di verità e alle volte anche crudi e duri. Lei era così, Vegeta era così. Entrambi erano uguali in questo. Ed era forse stato per questo che si erano innamorati, durante quegli anni d’università insieme. Il giornalismo era stata la loro scelta di vita e mai, mai se ne sarebbero pentiti. Neppure adesso, mentre rannicchiati sotto una delle scrivanie della redazione si stringono tra di loro, consapevoli che ormai è finita. Quella mattina nella sede del giornale per il quale entrambi lavorano, sono entrati alcuni uomini armati. Non c’è stato molto da capire, è accaduto tutto così in fretta; hanno udito degli spari,e hanno capito che sarebbe finita. Si sono rifugiati sotto ad una scrivania, ma sentono gli spari farsi sempre più vicini. Probabilmente Chichi e Goku, i loro colleghi e migliori amici, sono già morti. A quel pensiero, Bulma sente il nodo alla gola formatosi in quei momenti stringersi ancora di più, impedendole quasi di respirare. Vegeta la sente tremare al suo fianco, perciò la stringe maggiormente a sé, mentre preoccupato sente i rumori degli spari farsi sempre più vicini al loro ufficio. Forse non si accorgeranno di loro, forse sopravviveranno.  O forse, stanno sognando troppo. In quegli attimi che precedono la sua morte, stretta al suo Vegeta, Bulma pensa, e tanto; pensa che tra solo due settimane lei e Vegeta avrebbero dovuto sposarsi, pensa alla loro casa, quella che avevano appena finito di arredare. Pensa a qualche mese fa, quando una sera Vegeta le aveva chiesto di sposarlo, senza troppi preamboli o inginocchiamenti vari, e pensa alla commozione scaturita da quel si pronunciato con voce emozionata. Pensa alle loro notti insieme, alla sua prima volta che è stata proprio con lui, e che non dimenticherà mai. Pensa a quanto ami Vegeta e pensa anche a quel bambino nel suo grembo, che Vegeta ancora non sa, ma un giorno lo avrebbe chiamato papà. Pensa che avrebbe dovuto dirglielo il giorno prima, subito dopo la scoperta della gravidanza, anziché aspettare quella sera, come aveva programmato. Pensa a quanto sia stata sciocca, a come avrebbe dovuto utilizzare minuto per minuto il tempo al fianco di Vegeta e pensa che forse ora dirgli o meno della gravidanza non ha alcuna importanza ormai. Tanto il bambino morirà nel suo ventre prima ancora di nascere, insieme a loro. Pensa a quanto tutto questo sia ingiusto e pensa che, per ironia della sorte, a momenti morirà uccisa dagli stessi assassini di suo padre. Pensa che diamine, non è affatto pronta a morire, ma pensa anche che nonostante quello, non si pente della sua scelta. Guarda Vegeta, piangendo in silenzio. Vuole dirglielo, è giusto che lo sappia … anche se nessuno dei due vedrà mai il frutto del loro amore.

“Vegeta …” lo richiama debolmente. Vegeta volta lo sguardo verso la ragazza stretta a lui, guardandola negli occhi.

“Cosa c’è?” chiede preoccupato, sobbalzando all’udire l’ennesimo sparo nella stanza affianco.

“I – io …” balbetta, prima di serrare gli occhi, udendo un altro sparo. Apre gli occhi, puntando le iridi cristalline e colme di lacrime in quelle profonde e preoccupate di Vegeta.

“Devo dirti una cosa ….” Vegeta la guarda, incitandola con gli occhi a parlare.

“Sai, tra nove mesi saremmo diventati genitori …” sussurra a fior di labbra, reprimendo un singhiozzo. Vede le pupille di Vegeta dilatarsi a dismisura, sconcertato. Lo guarda posare lo sguardo sul suo ventre ancora piatto, incredulo, sfiorandolo con una mano.

“Ti amo così tanto, Vegeta …” sussurra tra le lacrime, mentre sente la porta spalancarsi. È giunta la fine. Vegeta la guarda negli occhi e per un attimo, a Bulma sembra vedere quelle iridi meravigliosamente scure farsi un po’ più lucide.

“A – anche io …” balbetta sconfitto. E Bulma sorride amaramente, capendo che è davvero finita. È la prima volta che Vegeta ammette apertamente di amarla. Certo, sentirsi dire “ti amo” per la prima volta a due centimetri dalla morte non era nei suoi sogni più fanciulleschi … ma non le importa. Si avvicina a Vegeta, unendo le labbra con le sue in un ultimo, incredibile bacio al sapore salato delle lacrime e del dolore della morte. Fanno appena in tempo a staccarsi dal bacio e a voltare un poco la testa, prima di trovarsi una pistola puntata contro. E Bulma sorride amaramente, pochi secondi prima della fine. Ha provato a combattere, come faceva suo padre. Ma non è bastato. Purtroppo, la pazzia umana non ha limiti …


Nota autrice:
Non ho niente da dire. Questa one shot ambientata in un universo alternativo, parla del mondo di oggi. Questi giorni di terrore a Parigi credo siano stati uno shock un po’ per tutti, e personalmente io ne sono rimasta alquanto segnata … e ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa. Non ho altro da aggiungere, vicende come queste lasciano senza parole. Nel mio piccolo, volevo dedicare qualcosa a coloro morti nell’attentato di mercoledì al giornale “Charlie Hebdo”, a quei giornalisti che hanno combattuto per la libertà di pensiero e di espressione. Perché la libertà è tutto. Credo di aver concluso. Prego per le vittime perché possano riposare in pace e perché tragedie del genere ( come anche l’attentato alle torri gemelle) non si ripetano mai più. Non ho studiato francese, ma non importa. Je suis Charlie Hebdo. I am Charlie Hebdo. Io sono Charlie Hebdo.
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