Questa storiellina è nata nell’anno domini 2003
grazie ad una sfida in un forum. Ora la ri-pubblico. All’epoca
passò quasi inosservata e c’erano anche degli errori narrativi e non, l’ho
rivista e ora, per curiosità ve la propongo. Vediamo che ne pensate. Grazie a
chiunque leggerà e a chi vorrà esprimermi il suo parere in merito :)
TROPPO TARDI…
Osservando l’inesorabile scandire del tempo, mi sentivo impotente,
ma non rassegnato, guardai l’orologio sulla parete. Non mi fu d’aiuto, era
rotto. Ero in preda ad una grande angoscia.
Non riuscivo bene a capire, che cosa stesse accadendo, o forse semplicemente
non volevo capirlo. Mi sembrava di avere la testa vuota e leggermente confusa,
come se fossi stato sospeso in uno strano limbo. Avvertii una sensazione simile
a quella che ti coglie quando ti svegli di soprassalto, nella notte, disturbato
da qualche rumore molesto, ritrvandoti con gli occhi aperti, smarrito, in preda
al panico, incosciente, ma sveglio.
Improvvisamente mi venne in mente mio fratello.
Ora mi era tutto molto più chiaro.
Stava male, molto male. Una malattia incurabile.
Non ce ne siamo accorti subito, perché era una patologia viscida e subdola. E
poi quando si ammalò era abbastanza piccolo, e noi, troppo presi dai nostri
problemi, non facemmo caso a certi particolari, impercettibili, ma rivelatori.
In fondo, forse, non volevamo accettare una simile, cruda realtà.
La dottoressa ci disse che non c’erano precise cause scatenanti. La malattia si
presentava così, di colpo, e in molti casi prima dei diciotto anni.
Gli furono fatte un sacco di cure, anche sperimentali, ma sapevamo in partenza
che erano palliativi, per un po’ stava bene, poi tornava a peggiorare.
Lo abbiamo sempre protetto, coccolato e trattato come se fosse di vetro.
Sbagliato.
La nostra cautela nei suoi confronti, ha innescato un meccanismo di
incomprensione, che ci ha definitivamente allontanato da lui.
Ora ne pagavamo le conseguenze.
Non era vicino a me, in quel momento, ma mi pareva quasi di vederlo. Un po’
imbronciato, con una certa aria di rimprovero, e di sfida, che mi diceva: “Bravo!
Ci sei arrivato finalmente hai capito. Ma è troppo tardi! La situazione è
grave, ti è sfuggita di mano, non puoi più fare nulla! Tra poco, se Dio vuole,
sarà tutto finito!”.
Provai un forte dolore. Io amavo mio fratello. Non avrei mai voluto farlo
soffrire, non intenzionalmente almeno.
Volevo fare qualcosa, chiedergli perdono, fargli capire che non mi vergognavo
di lui, che se non lo portavo fuori con me e miei amici era solo per
proteggerlo, non per umiliarlo.
Lui non sapeva bene che tipo di patologia avesse e si arrabbiava, diceva che
non era malato, che si sentiva bene e quindi viveva i miei rifiuti come
cattiveria, mancanza d’amore ed attenzione verso di lui.
Mi diceva che ero egoista. Avrei dovuto passare più tempo con lui e spiegargli
che non era affatto così.
Il tempo continuava a scorrere e io mi sentivo sempre più impotente. Cosa
potevo fare? Niente. Era troppo tardi. Ero consapevole che alla fine la morte,
quasi sicuramente, ci avrebbe separati, senza pietà. Senza darci l’ultima
occasione di chiarimento, negandocela per sempre.
Non riuscivo ad accettare una simile crudeltà.
Avrei fatto qualsiasi cosa per tornare indietro e per evitare il suo gesto:
disperato e definitivo.
Non lo odiavo, piuttosto odiavo me stesso. Era solo colpa mia. Era come se
questo peso che portavo dentro mi schiacciasse. Ero stanco, svuotato. Poggiai
la testa, distrattamente da qualche parte per assopirmi un po’. Avevo così
tanto bisogno di riposarmi, le palpebre si erano fatte pesanti e la stanchezza
mi vinse.
Improvvisamente fui come abbagliato da una forte luce, mi stropicciai gli occhi
per il fastidio. Fu allora che lo vidi.
Aveva lo sguardo allucinato e mugolava una cantilena dondolando ritmicamente.
“Tommaso sei tu?” gli chiesi stupito di vederlo.
Si girò di colpo, mi guardò con maligna soddisfazione, poi si avvicinò e disse
“È finita! Non sei più moribondo. Sei Morto!”.
Sembrava quasi che ghignasse “Ho provato piacere ad ucciderti, sai? Sei un
ragazzo cattivo, molto cattivo. Loro non lo sanno che sono stato io. Pensano
che ti abbia accoltellato uno scippatore! Il matto è stato furbo!” il suo
sguardo scintillava colmo di soddisfazione.
Poi, riprese a parlare con quella vocina in falsetto, quasi da bambino, fissando
il vuoto con occhi vacui “Povero Tommaso! Tommaso è malato! Tommaso è pazzo”
dondolava e si massaggiava la testa con entrambe le mani.
Continuò a vaneggiare in tono basso e tagliente e disse facendo il verso a
nostra madre “Shhhhhhh non dire così, non è pazzo è schizofrenico!” si girò di
scatto e mi disse con una voce, ora profonda e rabbiosa. “Pensavate che non vi
avessi mai sentiti eh? Ma vi ho appena dimostrato che non sono affatto pazzo.
Mi sono liberato di te e d’ora in poi, loro, saranno tutti solo per me! Sono
più furbo di voi, io!”.
Di colpo, con lentezza, come se si fosse improvvisamente ricomposto e la crisi
fosse passata del tutto, si avvicinò al letto d’ospedale dove ero stato portato
d’urgenza. Lo vidi chiaramente, dall’alto, dove mi resi conto di essere.
Che strana sensazione.
Sembrava quasi di guardare un film dove tu stesso sei il protagonista.
Si chinò, mi sfiorò con delicatezza guancia con un bacio e carezzandomi la
testa mi disse in un soffio “Addio fratello adorato”.