Storie originali > Azione
Ricorda la storia  |       
Autore: Black Swan    20/11/2008    2 recensioni
Junayd Kamil Alifahaar McGregory ha tutto.
E’ l’unico punto di contatto fra due delle più potenti famiglie del paese, ha ricchezza, bellezza, intelligenza, una posizione di prestigio.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory ha le idee chiare.
Sa cosa deve o non deve fare, ha imparato molto presto come far girare il mondo nel verso che gli fa più comodo, ha preso la decisione di condurre una doppia vita a soli quindici anni e custodisce segreti che i suoi genitori neanche immaginano lui possa conoscere.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory è convinto di avere già tutto quello di cui ha bisogno: i pilastri della sua vita sono già stati piantati, i confini già marcati. Si renderà conto che anche lui può sbagliare.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory non ha mai fatto i conti con il suo cuore. Si accorgerà quanto prima dell’errore commesso.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory non ha mai realmente ascoltato il suo cuore. Scoprirà che non è mai troppo tardi per cominciare…
Genere: Avventura, Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Non E’ Mai Troppo Tardi - Capitolo 1

Non E’ Mai Troppo Tardi

1

 

 

 

 

 

 

 

 

Juna cercò tentoni la tazza di caffè nero, fumante e ben zuccherato che la sua sempre efficientissima segretaria gli aveva lasciato sulla scrivania.

La mano scivolò sulla spessa lastra di cristallo che proteggeva il piano di legno scuro dell’elegante scrivania stile impero fino ad arrivare alla calda porcellana della tazza e le dita agili e nervose l’afferrarono.

Almeno era ancora caldo.

Gli occhi d’ossidiana non lasciarono neanche per un attimo il fascio di fogli che aveva nell’altra mano, bevve un lungo sorso del liquido scuro, poi appoggiò nuovamente la tazza dove l’aveva trovata.

La vasta stanza che era il suo ufficio era silenziosa e inondata di luce, anche se era tardo pomeriggio. Lavorava lì da otto anni ormai, ma ancora non aveva fatto l’abitudine allo spettacolo che dava il tramonto a quell’altezza.

Ogni tanto gli arrivava attutito il rumore del telefono di Alison che squillava.

Aveva dato precise direttive per non essere disturbato in nessun caso e…

L’interfono mandò un breve ronzio e automaticamente premette il bottone che lo mise in contatto con Alison Colemann. «Cosa c’è Ali, stavo giusto congratulandomi con me stesso per aver avuto la brillante idea di dirti che non c’ero per…» cominciò.

La voce di solito squillante e allegra della ragazza risuonò monotona e metallica «Drake in linea. Ha affermato che è importante e che lui è sempre un’eccezione… e aveva il tono di uno che dice sul serio.»

Sospirò pesantemente.

Doveva leggere altre duecento pagine dattiloscritte e intendeva farlo da lì a massimo un’ora e mezzo. «Passamelo.» Spense l’interfono e azionò la viva voce «Ciao Drake.»

«Compare, cosa ci fai ancora in quella prigione d’acciaio, cemento e vetro anti-sfondamento? Sono le cinque e mezzo passate!»

Non spostò lo sguardo dalla successione di parole, ma la fronte si corrugò: il suo migliore amico aveva un tono abbastanza scocciato, cosa rara se rivolta a lui.

Se l’era forse presa perché Alison aveva fatto storie per passargli la telefonata?

Che Drake stesse impazzendo?

«Diciamo che sto cercando di lavorare.»

Una breve risatina gli fece capire che Drake oltre che scocciato era anche nervoso «Hai la flemma degli Alifahaar, te lo ha mai detto nessuno?»

«Mio nonno nei momenti di cattiveria… quelli peggiori.» Seguì un breve attimo di silenzio, poi… «Ok Drake, devi dirmi qualcosa?» … quasi diciannove anni di pratica gli avevano se non altro insegnato che tanto valeva smetterla di girarci intorno e andare subito al punto.

Il sollievo nella voce di Drake fu quasi commovente «Devo parlarti.»

Finalmente alzò gli occhi dai fogli e li puntò sulla moquette color crema che copriva l’intera stanza, si perse pigramente a seguire gli elaborati disegni color ghiaccio per qualche secondo «Dove e quando.»

«T’invito a cena, approfittane Mac! In quanto pensi di sbrigartela lì?»

Chiuse gli occhi, il novantanove per cento delle volte che Drake lo chiamava Mac era per dargli cattive notizie, maledizione «Mi passi a prendere fra un’ora e mezzo?»

«A dopo.»

Juna riattaccò poi premette di nuovo il pulsante «Alison? Chiama casa mia per favore e avverti che non sarò a cena. Per stasera non ci sono neanche per Dio, non passarmi più nessuno.»

Alison tendeva a prenderlo alla lettera, infatti… «Juna, ti cercasse tuo padre cosa gli racconto?» chiese.

Sospirò, «Beh, credo che mio padre e mia madre cadano sotto una categoria a parte, la stessa di Drake: meritano un’eccezione.»

«Hai bevuto il caffè?»

«Non ancora.»

«Ecco perché lo vuoi bollente: per quando ti decidi a berlo è tiepido.» Pausa «Juna, potrei uscire una mezz’oretta prima?»

«Oh la la, sorpresa delle sorprese! Appuntamento galante signorina Colemann?»

«Sì, inutile anche solo provare a nasconderti qualcosa.»

«E sei una dittatrice anche con lui?» la punzecchiò.

«No, il mio lato peggiore lo affilo solo con te, pensavo lo sapessi ormai.»

«Come ogni segretaria che si rispetti…»

«Direi come ogni segretaria che può vantare un capo giovane, bellissimo, ricco sfondato, affascinante, a detta di tutti anche spiritoso e divertente… e nessun invito a cena!»

Scoppiò a ridere «Andiamo Ali, mi stai veramente dicendo che pianifichi la mia vita da anni e non riesci ad avermi un po’ tutto per te?»

Quel sorriso e quella sfumatura ironica nella voce bassa e ben modulata erano stati la rovina di diverse ragazze, ma Alison era immune e lo sapevano entrambi.

«Sei impossibile!» ribatté la ragazza ridendo.

«Ok ok, per quello che mi riguarda puoi già toglierti di torno, non ho più bisogno di te stasera! Solo stacca il telefono. Mio padre mi troverà sul cellulare.»

«Ma Juna…»

«Cosa?» la interruppe «Ti sto regalando quasi due ore di stipendio? Non credo finirò in bancarotta per questo! Piuttosto, coccolati un po’ e divertiti!»

«Grazie. A domani.»

Il contatto s’interruppe.

Juna tornò a leggere con un sorrisetto compiaciuto.

Alison era la sua segretaria personale da otto anni, ed essere la segretaria personale del vice presidente di una compagnia come la McGregor Investments aveva più contro che pro, uno su tutti l’avere gli stessi orari del tuo principale.

Era una ragazza precisa e tranquilla, estremamente lucida e presente, con un senso dell’umorismo che le permetteva di sopravvivere a Junayd Kamil Alifahaar McGregory… senza contare che fosse una delle poche donne che conosceva che lo guardava negli occhi quando gli parlava, una delle poche che si ricordasse dei suoi diciannove anni scarsi e una delle due che riuscisse a scherzare sul suo aspetto da dio greco.

L’altra era sua madre.

Suo padre aveva visto giusto affiancandogli una ragazza senza esperienza nel campo, all’epoca era lui stesso un bambinetto di undici anni, anche se il suo I.Q. lo aveva catapultato nel mondo dei grandi molto tempo prima, e Connor McGregory si era rifiutato categoricamente di affiancargli una quarantenne.

Aveva sempre avuto una fiducia illimitata sulle potenzialità del suo unico figlio e il tempo gli aveva dato ragione: a quasi diciannove anni era già laureato a pieni voti in economia e commercio e in lingue, ne parlava e scriveva perfettamente cinque, ed era vice presidente della McGregor Investments, una delle cinque compagnie più potenti del mondo, che apparteneva alla sua famiglia da qualcosa come quattro secoli… in pratica da quando il mondo aveva scoperto cosa fosse la finanza.

Nel tempo libero, come di solito dicevano fra di loro con Drake, era anche un agente segreto e un killer dell’F.B.I., ma questo lo sapevano solo Drake, essendolo lui stesso, e le due persone che li avevano arruolati quattro anni addietro: il generale Richard Lewing e il comandante Matthew Farlan.

Era l’orgoglio delle persone che lo amavano e la morte per quelle che lo odiavano… la sua vita e non per ultima anche la sua sfera familiare, comprendevano largamente entrambe le categorie!

Era cresciuto con Alison al fianco, di nove anni più grande di lui, e con il tempo si era creato un rapporto perfetto, sia a livello professionale sia personale: come segretaria gli leggeva nel pensiero ed era come una sorella.

Sbirciò l’orologio che gli stava di fronte e con un sospiro mise da parte il dannato ciclostilato che stava leggendo poi, preso il telefono, formò uno di quei numeri che sapevano solo quattro o cinque persone al mondo.

La voce potente e profonda del generale Richard Lewing gli arrivò chiara come se lo avesse avuto davanti.

«Sono io» rispose.

«Come va ragazzo? Mi aspettavo una tua telefonata.»

«Mi stai dicendo che sto diventando prevedibile?»

«Non oserei mai. Vi siete sentiti vero?» All’eloquentissimo silenzio che gli rispose, controbatté con tono calmo e rilassato, «Falcon mi ha detto che ti avrebbe incontrato il prima possibile.»

A differenza di Richard e Matthew, che li chiamavano sempre con i loro nomi in codice o non li chiamavano proprio, lui dopo anni ancora doveva abituarsi a pensare a Drake come Falcon… e probabilmente se avesse chiesto all’improvviso a Drake chi fosse Darkness si sarebbe sentito chiedere se avesse scoperto una nuova marca di lampadine!

Questo però era meglio che Lewing non lo sapesse…

«Anche prima di quanto tu pensi. Tutto bene dalle tue parti?»

«Ottimo come sempre. Quando pensi di venire a dare un’occhiata?»

«Mai. Sai come la penso.»

«Testardo come un mulo.»

Sorrise pensando che voleva essere un’offesa… a volte faceva fatica a ricordarsi che quell’uomo era a capo di una delle sezioni più importanti in seno ai servizi segreti.

«E’ uno dei miei pregi più evidenti» si portò indietro i capelli corvini e naturalmente ondulati, scalati fino alle spalle, con un aggraziato gesto della mano. «Ti saluto, alla prossima.»

«Ragazzo.»

«Cosa?»

«Se vi servisse qualsiasi cosa, sono da mia madre.»

«D’accordo.»

Riattaccò con la fronte corrugata.

Lewing era stato stranamente chioccia, non lo aveva mai reso partecipe dei suoi piani… senza contare che andare dalla mamma nel linguaggio dell’F.B.I. era una cosa tutt’altro che positiva.

Scosse le spalle e liquidò il pensiero. Aveva altro cui pensare al momento e poco tempo a disposizione.

La cosa importante era che l’ultima missione fosse andata bene come il solito, che i capi fossero soddisfatti… anche se volevano ancora sapere quando lui e Drake si sarebbero decisi ad entrare nelle fila dell’F.B.I. ufficialmente.

Sempre le solite cose.

Si alzò dalla scrivania e, preso il cellulare, si spostò nella zona salotto della stanza.

Almeno sarebbe stato più comodo.

Affondò su di una poltrona e riprese diligentemente a leggere.

Il bilancio di metà anno era alle porte.

 

La ferrari nera parcheggiò davanti alla sede centrale della McGregor Investments, un moderno grattacielo di una settantina di piani nella zona più recente di Boston, e ne scese un bellissimo ragazzo biondo, alto e slanciato.

Entrò nel palazzo e il portiere gli si fece incontro con un sorriso di benvenuto «Signor Tyler, che piacere vederla!»

«Buonasera a lei Ronan… è ancora in ufficio vero?»

L’anziano portiere sospirò, «E’ così giovane e lavora così tanto. Menomale ha lei!»

Drake sorrise, «Non so se lui sarebbe d’accordo con l’ultima parte del suo ragionamento!» Fece una smorfietta «Fatto sta che non mi evita mai il giro turistico, e si è preso uno degli ultimi piani!»

Dopo aver salutato l’uomo si avviò all’ascensore portandosi indietro i capelli scalati lunghi sul collo e lo prese al volo, registrò le occhiate che gli rivolsero alcune impiegate e mascherò un sorrisetto soddisfatto con un leggero colpo di tosse che gli permise di coprirsi la bocca.

Sua madre lo avrebbe preso a calci dopo una cosa del genere.

Fece vagare lo sguardo verdazzurro sul pannello dei piani e vide che quello che interessava a lui era stato richiesto. Brutto segno: il sessantottesimo piano era esclusivo territorio di Juna.

«Chi si ferma al sessantottesimo?» chiese.

«Io» rispose una donna elegantemente vestita: Anne, la segretaria personale di Connor.

«Mi dica che non tratterrà molto Juna, lo sto andando a prendere.»

Dopo un attimo di sorpresa lo guardò attentamente, «Devo solo portargli dei documenti da firmare.»

«Anne, lei è un angelo… oltre ad una cuoca d’eccezione se la memoria non m’inganna.»

Il sentirsi chiamare per nome da un illustre sconosciuto la fece sussultare, il suo sguardo si fece ancora più attento. «Ci conosciamo?» chiese molto educatamente.

«Lei non può ricordarsi di me, saranno sette o otto anni che non ci vediamo, ma io la ricordo bene. Il tempo le vuole bene, in quasi dieci anni non è cambiata minimamente.»

Un leggero rossore colorò le guance della donna, a conferma che il complimento era andato a segno.

Le sorrise «Sono Drake, Anne, ero un ragazzino e la sua torta al cioccolato mi è rimasta nel cuore.» Alludeva alla torta che la donna aveva preparato per festeggiare l’entrata del nipote nell’impresa di famiglia.

La donna s’illuminò «Oh Dio, il migliore amico di Juna, ma sì quell’angioletto!» esclamò mentre tutta la glacialità che contraddistingueva la leggendaria segretaria personale del presidente dal resto del mondo svaniva come nebbia al sole. «Dio come sei cresciuto, sei un uomo ormai!»

Lui era l’angelo e Juna il diavolo tanto era la diametricità del loro aspetto fisico.

Se Manaar avesse solo lontanamente immaginato la nomea del suo pargolo…

Arrivarono al piano parlando amichevolmente e notò subito l’assenza di Alison alla scrivania.

Chissà che scusa aveva trovato Juna per convincerla a lasciare il suo posto… doveva aver già telefonato a Lewing comunque: avrebbero passato la serata a parlare di questo.

Chiuse un attimo gli occhi al pensiero di quello che lo aspettava. Doveva trovare il coraggio di dirlo a Juna in tutti i modi, fra un paio di giorni avrebbero dovuto affrontare una nuova missione.

La voce del suo migliore amico si levava tranquilla ma decisa e proveniva dal suo ufficio che copriva metà dell’intero piano, l’altra metà era suddivisa fra il suo archivio, l’ampio ingresso dove stava Alison e la stanza per le riunioni, dove si trovava anche la macchina per il caffè.

Stava parlando al telefono. «Dico sul serio, ho appena finito di leggere la relazione. Il solito lavoro preciso e scrupoloso. Dovremo discutere di alcuni punti anche con mio padre e mio nonno naturalmente, ma nell’insieme è un ottimo lavoro.» Silenzio, poi scoppiò a ridere «Che devo fare per convincerla Bart?» Altro silenzio «Come vuole, chiami domani mattina la mia segretaria e fissi un appuntamento.» Apparve sulla soglia e, vedendolo, gli fece segno di avvicinarsi mentre ascoltava quello che gli veniva detto dall’altro capo del telefono «D’accordo. Buonasera Bart.» Riattaccò.

«Buonasera McGregory.»

«Buonasera Tyler. Ciao Anne, cosa c’è?»

Aveva già sentito Lewing, ci avrebbe scommesso le sue parti più delicate. Era inverosimile che gli avesse detto della chiacchierata con Matthew, toccava a lui farlo, non c’erano altre strade… e lo sapeva. Però…

«Leggili e firmali, servono a tuo padre per domani dopo pranzo.»

Riconobbe all’istante il pensiero che attraversò la mente dell’amico… e lo capì anche Anne.

«Puoi farlo domani mattina», aggiunse quell’angelo di donna «adesso togliti di torno, non far aspettare Drake. Alla tua età dovresti pensare solo alle ragazze e invece sei fisso qui!»

Non riuscì a trattenersi, «Anne, vuole adottarmi ufficialmente?»

Scoppiarono a ridere, poi fu di nuovo Anne a parlare, «Su, sparite tutti e due!»

Uscirono dall’ufficio ridendo e scherzando, ma appena furono soli in macchina…

«Ho sentito Richard» cominciò Juna.

Mise in moto ignorando l’ondata di panico che lo avvolse «Che ti ha detto di bello?»

«Se mi prometti di non montarti la testa ti dico che sei l’uomo chiave della situazione: sai tutto tu e devi illuminarmi.»

«Non ho bisogno di montarmi la testa, sono abituato ad essere importante.»

Juna scosse la testa con un sorriso, «Sembra che il mondo intero tenda a prendermi alla lettera, neanche tu fai eccezione. Ok, che progetti hai per la serata?»

«Ti invito a cena. Ti va bene il Daxar?»

«Come se non sapesse che è il mio ristorante preferito…» fu il commento.

Si guardarono di traverso e scoppiarono a ridere.

Arrivarono all’esclusivo ristorante e furono accolti dal proprietario in persona che gli si fece incontro raggiante «Signor Alifahaar McGregory! Signor Tyler! Che piacere vedervi!»

Juna rivolse all’uomo una delle sue occhiate criptiche. Chi lo chiamava con entrambi i cognomi, aveva paura di entrambi i suoi nonni. Era praticamente matematico.

«Buonasera signor Valentine, come va?» rispose lui.

«Bene! Voi? Tutto bene?» Al gesto affermativo fece un leggero inchino «Se volete seguirmi.»

«Un posticino tranquillo signor Valentine, mi raccomando.»

«Si fidi di me signor Tyler.»

Furono sistemati in un tavolo nell’area rialzata della sala, vicino alla ringhiera di ferro battuto che ne percorreva la semicirconferenza e, appena gli furono consegnati i menu, furono lasciati soli.

«Che accoglienza!» commentò lui «Non ti deve stare molto simpatico però» aggiunse pensieroso.

«Da cosa lo avresti capito?»

«Dalla tua commovente espansività nei suoi confronti.»

Fece spallucce mordendosi appena il labbro inferiore, non voleva dargli la soddisfazione di ridere alla sua battuta, «Fa così con tutti quelli che hanno un conto bancario a sette o più cifre» lo informò.

«Beh, allora sono pochi.»

Juna scosse la testa e lo seguì nella risatina che si trasformò in una risata.

Non smetteva mai di guardarsi intorno.

Era la classica persona alla costante ricerca di qualcosa… anche se di che cosa probabilmente non lo sapeva neanche lui.

Lo vide riconoscere subito un paio di uomini che, quando incrociarono il suo sguardo, lo salutarono con un breve cenno della testa. Rispose al saluto.

Si soffermò un po’ più a lungo anche su un famoso stilista del quale sicuramente non si ricordava il nome… come tutti i geni era perfettamente in grado di perdersi in un bicchier d’acqua.

Quel pensiero lo fece sorridere.

Ancora quando pensava al quoziente d’intelligenza di quel ragazzo stentava a crederci.

Gli voleva un bene che andava al di là di qualsiasi spiegazione razionale che sapeva essere ricambiato incondizionatamente.

Erano più che amici, erano complici, confidenti, fratelli… erano l’uno il continuo dell’altro, e Juna si fidava di lui.

Non poteva sopportare l’idea che fosse in pericolo, era lui il più grande dei due, quindi Juna era il suo fratellino più piccolo: toccava a lui proteggerlo.

Incontrò uno sguardo azzurro la cui espressione era inequivocabile e distolse il proprio infastidito da quell’interruzione dei suoi pensieri.

Toccava sempre a lui accorgersi di quello che Juna lasciava completamente perdere in situazioni come quelle: le donne. Nella fattispecie i loro sguardi, i loro atteggiamenti.

Possibile che i loro compagni non si accorgessero di niente?

Non ce n’era una che non li stesse spogliando con gli occhi.

Juna attirava le donne, di qualsiasi età, come il miele attirava di norma le api.

Erano attratte da quegli occhi di ghiaccio ombreggiati da ciglia che erano l’invidia di diverse modelle di sua conoscenza: occhi neri, illuminati da una sfumatura argentea-dorata che in quasi ventun’anni di vita non aveva riscontrato in nessun altro elemento in natura, occhi che ti inchiodavano, che rispecchiavano e insieme celavano in ogni momento lo stato d’animo del loro proprietario. Dal suo modo di fare, di parlare, dalla sua pelle dorata.

Loro due attiravano le donne per motivi complementari ed estremamente opposti: Juna per il mistero che gli aleggiava intorno come un profumo irresistibile, per l’aspetto esotico ereditato dal ramo arabo da parte di madre, per l’illusione di essere sempre ad un passo dallo scoprire cosa nascondessero quegli occhi, quel sorriso ironico ed insieme dolce che curvava le labbra nei momenti più impensati… era il classico tipo che ti faceva desiderare di conoscerlo meglio proprio perché era evidente che avrebbe potuto essere pericoloso.

Da parte sua, lui era perfettamente cosciente di avere l’aria da canaglia su di un viso d’angelo, l’aria scanzonata unita a modi galanti, sapeva sempre cosa dire e come dirla.

Il problema era che a quasi diciannove e ventun’anni, con incarichi improvvisi da parte dell’F.B.I. che dovevano rimanere segreti, non potevi imbarcarti in una relazione seria.

Le loro rispettive madri avrebbero fatto salti mortali per saperli due volte con la stessa ragazza, il problema era che quando dovevi partire all’improvviso alla tua famiglia potevi raccontare che il motivo era una ragazza che non avrebbero mai conosciuto, ma alla tua ragazza cosa potevi inventare senza scatenare un casino di proporzioni ciclopiche?

No, troppe complicazioni, dovevano rimanere indipendenti, dovevano mantenere intatto il loro lato cattivo.

Tornò il cameriere, fecero le ordinazioni e appena rimasti soli, Juna lo guardò, «Ti serve un invito scritto?» esordì.

Sorrise. Era il suo migliore amico, conosceva quel tipo da quando era al mondo, eppure la gelida calma che aveva nel parlare di queste cose riusciva ancora a sconcertarlo. In quei momenti era impensabile la dolcezza che poteva dimostrare alle persone che amava.

Si accese una sigaretta, «L’obiettivo è Carlos Estrada» cominciò con l’aria di uno che commenta un cielo nuvoloso. «La notte di sabato.»

«Non era in Brasile?» chiese Juna osservando curioso l’acquario alla sua destra.

Probabilmente stava calcolando il volume della vasca.

«Sì, fino a due o tre settimane fa, sembra che sia in programma una consegna piuttosto importante dalle nostre parti.»

«I particolari?»

Erano persone conosciute, tutti sapevano chi fosse Junayd Kamil Alifahaar McGregory, chiamato semplicemente Juna… lui lo apostrofava come Mac in pratica solo per dargli cattive notizie, e di riflesso sapevano chi fosse lui, anche se suo padre non fosse stato uno dei medici chirurghi più famosi del mondo.

Nessuno sano di mente avrebbe mai immaginato che stavano discutendo dell’omicidio di uno dei più pericolosi trafficanti di droga sudamericani. Erano pur sempre due ragazzi di diciannove e ventun’anni. Per eccesso.

Erano perfetti per Matthew e Richard.

Gli si contorse lo stomaco ripensandoci.

No, non poteva affrontare un discorso simile in un luogo pubblico, avrebbe aspettato di essere solo con lui in casa, sarebbe sicuramente successo prima di sabato notte.

«Vedo Matt domani, solita ora, al parco.» Fu solo la lealtà verso l’amico che gli fece uscire dalla bocca le successive parole «Vuoi esserci anche tu?»

«Perché no?» lo guardò «Deve essere proprio tragica se Richard è andato da sua madre…»

Trattenne a stento un sussulto. «Sua madre?» non riuscì a trattenersi sperando di essere riuscito a nascondere il tutto a Juna.

Mamma era il nome in codice della struttura più sicura di cui disponevano i servizi segreti nello stato del Massachusetts.

Era una cosina di due piani con l’aspetto di una villetta familiare, a prova di bomba nel senso più vero dell’espressione, vi avevano trovato rifugio i testimoni e i pentiti più a rischio con le rispettive famiglie, i collaboratori più importanti… e sembrava che talvolta la usassero anche i pezzi grossi dell’F.B.I..

Maledizione, non siamo al sicuro.

Richard in pratica gli aveva detto dove andare a nascondersi se qualcosa fosse andato storto. Credeva che lui ne avesse già parlato anche con Juna… e invece Juna non sapeva ancora nulla.

I camerieri scelsero quel momento di silenzio per portare le prime ordinazioni.

«Sabato notte quindi» riprese Juna cominciando a mangiare. «Bene, partiremo da casa mia.»

«E dove se ne vanno tutti?»

«Dalla famiglia di mia zia», rispose con un lampo negli occhi che disse più di cento parole, non lasciando dubbi circa l’identità della zia di cui stava parlando.

Il fratello minore di suo padre, il secondogenito della quinta generazione McGregory rispondente al nome di Paul, aveva sposato Lennie, un’esponente della casata Lemilton la quale era in affari con la McGregor Investments da decenni.

Paul non aveva opposto la minima resistenza al volere di Patrick Joseph McGregory, attuale patriarca-padrone della famiglia.

Al contrario Connor, primogenito e padre di Juna, aveva dato il via ad una guerra fredda che durava da venticinque anni, vale a dire da quando aveva sposato Manaar Alifahaar, la figlia più piccola e la prediletta di Mansur Alifahaar.

Era stato il secondo dei tre fratelli a sposarsi, pur essendo il più grande, e Manaar aveva dovuto sopportare ben tre aborti spontanei in sette anni prima di riuscire ad avere un figlio… oltre naturalmente ai commenti del suocero riguardo il fatto che sembrava non essere capace di fare figli: cosa ci si doveva aspettare da una Alifahaar?

Manaar, che evitava liti e guai più che poteva, conoscendo bene il carattere sia del marito sia del figlio, si era sfogata solo con la madre la quale però lo aveva riferito al marito: Mansur Alifahaar aveva aspettato quasi quindici anni l’occasione propizia per ripagare l’avversario di sempre con la moneta migliore.

Delle tre figlie che aveva Manaar, il cui nome significava Luce Che Guida, era l’eletta: si era piegato al suo volere e le aveva lasciato sposare il primogenito del suo peggior nemico, ma era diventato spietato.

Per poco Juna, fedele al suo primo nome che significava Giovane Guerriero, non aveva messo le mani addosso al nonno paterno quando, durante l’ultima cena che aveva visto sedute alla stessa tavola le due famiglie, dopo il solito battibecco fra Juna e Justin, Mansur era venuto fuori con il discorso che finalmente capiva la giustizia divina dietro le sofferenze dell’adorata figlia: alla fine aveva ricevuto in dono un figlio che valeva tutti quelli che aveva perso.

Non c’entrava niente l’essere capace o meno di fare figli, l’essere o meno una Alifahaar: meglio soffrire e farli geni, piuttosto che mettere subito al mondo degli incapaci buoni solo a correre a nascondersi sotto la sottana della mamma.

Solo le preghiere della madre avevano convinto Connor a non abbandonare la casa paterna, Juna aveva definitivamente stabilito che suo nonno paterno non meritava il minimo rispetto… e la situazione era, se possibile, ulteriormente peggiorata.

Se si escludevano Ryan, il terzo e ultimogenito, sua moglie Elisabeth, la figlioletta di quasi cinque anni della coppia, un angioletto biondo che rispondeva al nome di Melissa… la quale aveva una vera e propria adorazione per Juna, e Madeline, la moglie di Patrick e madre dei tre fratelli, tutto il resto della famiglia era ormai in pieno stato di guerra.

 

A volte Drake poteva essere trasparente.

A parte il fatto che qualcosa lo stava preoccupando a morte e non sembrava intenzionato a parlargliene quella sera, cosa che di per sé era già strana, con uno sguardo del genere non poteva che pensare alla sua situazione familiare.

Per essere uno famoso per la sua glacialità, era il colmo che ancora non riuscisse a parlare di sua zia Lennie senza tradire l’amarezza per il modo in cui era trattata sua madre in seno alla famiglia.

D’altra parte era anche troppo chiaro cosa lo salvasse dall’essere lo zerbino di Justin e Georgie, i suoi cugini maggiori: essere un genio, sapere sempre cosa fare, come e quando farla e avere la volontà di uno schiacciasassi.

Sua madre ci aveva visto veramente lontano quando aveva convinto suo padre a chiamarlo Junayd Kamil, che in arabo significavano Giovane Guerriero e Completo, Perfetto.

Beh, non che avesse fatto molta fatica… poteva immaginare che suo padre avesse trovato da subito appropriati quei nomi.

«Tutto questo non sarà troppo… troppo per tua madre?» chiese Drake.

Era raro che Drake rimanesse senza parole e il pensiero gli strappò un sorriso. «No, mio nonno sa che chiunque metta in imbarazzo mia madre dovrà vedersela con mio padre, poi con me.»

«E se tuo padre con la ragione lo puoi bloccare, tu non ti fermi fino a che non vedi il sangue… non lo facevo così intelligente tuo nonno.»

«Beh, comincia a conoscermi dopo diciannove anni di convivenza, meglio tardi che mai.»

Drake serrò i pugni, «Ho una famiglia di persone che si adorano, perché i McGregory non possono fare altrettanto?»

«Perché la tua famiglia non ha un patrimonio da gestire che sfiora il mezzo miliardo di dollari, non ha un’azienda che è la responsabile del quaranta per cento delle entrate del paese e di seguito ha una concorrenza spietata… ah, dimenticavo: sei figlio unico di due figli unici.»

Drake in quel momento aveva la classica espressione mai fare domande del genere a Juna.

«Tuo nonno non accetta che qualcosa non sia andato come voleva lui, ecco cosa» riprese. «Quando qualcuno gli spiegherà che il mondo non è ai comandi di Patrick Joseph McGregory?»

«Non sarò certo io a perdere tempo in quel senso, Drake.»

Drake lasciò cadere il discorso. C’era decisamente qualcosa che non andava in lui quella sera.

«Come sta il pezzo meglio della famiglia?»

«Dolcissima e pestifera come sempre.»

«Dalle un bacio da parte mia quando la vedi.»

«Lo farò.»

Occuparono il resto della cena a stabilire i punti fondamentali per l’assassinio di Carlos Estrada.

 

Juna oltrepassò la soglia della grande villa bianca e grigia in stile barocco che erano da poco passate le due, tutto era silenzio e pace.

O quasi.

«Cominciavo a pensare che avresti passato la notte fuori.»

Si allentò la cravatta e slacciò i primi due bottoni della camicia. La vicinanza di quell’uomo aveva cominciato a farlo soffrire di claustrofobia. «Credevo fossi già a letto.»

«Dove sei stato?»

La nota di alterazione che avvertì nella voce di suo nonno gli fece prendere fuoco come un fiammifero, ma si impose la calma, «Fuori a cena, ho fatto telefonare Alison per avvisare…»

«Con chi?»

«Non credo di dover rendere conto a te della mia vita. Certe uscite potrei accettarle da tua moglie, anche solo per il fatto che mi reputa uguale agli altri suoi nipoti e mi tratta di conseguenza.»

«Tu non sei come gli altri, tu sei il migliore, e comunque Junayd questa non è…»

«Oh, lo so, questa non è casa mia» cominciò a numerare sulle dita della mano, «non posso usarla come se fosse un albergo, fino a quando vivo sotto il tuo stesso tetto sei tu che comandi… vedi nonno, il problema è che se io vivo ancora qui è perché tua moglie è riuscita a convincere mio padre a non andarsene, e io e mia madre stiamo dove sta lui, siano una famiglia, anche se tu hai un concetto piuttosto discutibile di questa parola. Non ti permetterò di ficcare il naso nella mia vita, sono un McGregory solo a metà, mando avanti la tua compagnia perché è mio padre a chiedermelo e tollero la tua vicinanza e quella del tuo degno figlio Paul per assecondare un desiderio di mia madre. Non potrò mai perdonarti per quello che le hai fatto passare e…»

«Juna…»

«… e fino a quando il tuo atteggiamento nei suoi confronti non cambierà radicalmente in meglio, io e te non abbiamo nulla da dirci.»

«Non volevo controllarti Juna, volevo solo sapere se era successo qualcosa che ti aveva costretto a non tornare a casa per cena, c’erano anche Diana e Gary stasera, pensavo che saremmo stati tutti.»

I rispettivi fidanzati di Justin e Georgie.

«Non sapevo che anche loro fossero compresi nel programma» sorrise ironico, «e in ogni caso la famiglia che consideri come tale c’era tutta.»

«Io non…»

«Sono stanco nonno, vado a letto.»

Gli voltò le spalle e salì al piano superiore.

Sì, era decisamente il colmo che la sua leggendaria glacialità lo abbandonasse quando ne aveva più bisogno.

Arrivò in camera sua e decise di farsi una doccia prima di andare a letto.

 

Quando riaprì gli occhi non era solo: Melissa era sdraiata accanto a lui e dormiva profondamente.

Il fatto che fosse lì e non all’asilo gli fece dedurre che probabilmente si era svegliato troppo presto, guardò la sveglia sul comodino e scoprì che invece erano le otto passate.

Probabilmente zia Elisabeth la stava cercando per tutta la casa.

Andò in bagno e si vestì velocemente, poi svegliò la piccina «Melissa?», la scosse leggermente «Ehi cucciola.»

Spalancò gli occhioni azzurri «Ciao Juna…», gli sorrise raggiante alzandosi a sedere «buongiorno…»

«Cosa ci fai qui?» chiese sforzandosi di apparire severo.

Il sorriso le morì sulle labbra, «Ho fatto di nuovo un brutto sogno… quel brutto sogno» aggiunse poi come se ce ne fosse bisogno, «stavo affogando e… e tu mi sai salvare» spiegò sforzandosi di sorridere ancora.

«Melissa, sai che non è reale quello che sogni.»

«Ma la paura lo è.»

Ne aveva di logica per la sua età…

L’estate prima la bambina era caduta dalla barca durante una gita al lago e lui si era tuffato dietro di lei appena in tempo per ripescarla, da allora quello che era già amore fraterno si era trasformato in pura e semplice adorazione… si sentiva al sicuro solo se lui era a portata di vista.

Si sedette sul bordo del letto e Melissa si tuffò fra le sue braccia, «Senti Lissa, io e te dobbiamo fare un discorso serio.»

«Non sei arrabbiato con me vero?»

L’ansia nella sua voce avrebbe sciolto una lastra di ferro. «Ma no, non sono arrabbiato, sono preoccupato. La tua paura è dettata dal fatto che non sai nuotare» cominciò sotto il suo sguardo attento, al suo cenno affermativo continuò «così, appena farà bel tempo, ti insegnerò io.»

La sua espressione si fece contrita «Vuoi… vuoi dire… entrare nell’acqua? … Nell’acqua profonda? Dove non tocco?»

«Ci entreremo insieme e ti insegnerò a nuotare.»

«Ma perché devo imparare?»

«Per vincere la paura.»

«Ma ci sei tu…»

«Ma non ci sarò sempre.»

«No no, blocca tutto! Vuoi dire che mi lascerai?!» lo strinse forte mentre la voce si alzò di un’ottava «No! Oh no ti prego! Non…»

«Lissa, cerca di ragionare. Stanotte sono rientrato tardi, cosa farai la volta che non mi trovi?»

«Ti vengo a cercare.»

Esattamente quello che non doveva fare.

«Da sola? Al buio?» Al suo silenzio la allontanò appena da sé e le asciugò i lacrimoni che le scendevano sulle guance «Ti fidi di me?» la testolina fece di sì «Mi credi se ti dico che è necessario?»

La bambina sorrise debolmente «Sì.»

La prese in collo, «Andiamo a fare colazione ora, la mamma ti starà cercando da un’ora.»

Uscirono dalla stanza.

«Dove sei stato ieri sera?»

«Fuori con Drake… a proposito, questo è da parte sua» disse baciandola sulla guancia.

Melissa sorrise stringendosi a lui come una gattina.

Come era prevedibile i suoi zii erano nel panico.

Appena li videro scendere il sollievo nei loro visi fu commovente. «Si era di nuovo rifugiata in camera di Juna!» esplose zia Elisabeth «Dio ti ringrazio!»

«Melissa, quante volte ti dovrò ancora ripetere che…» cominciò zio Ryan con un vago tono di rimprovero nella voce.

«Piccola, vai a fare colazione» lo interruppe allegro Juna. «Io, mamma e papà scambiamo quattro chiacchiere!»

La bambina partì a razzo e suo zio sospirò «Juna non imparerà mai niente se…»

Tutta l’allegria del ragazzo sparì «Zio, a parole non risolverai nulla con Melissa. Non viene da me per passare il tempo: ha di nuovo sognato di affogare.»

«Cosa? Ma è passato quasi un anno da quel giorno!» disse sua zia sorpresa «Com’è possibile che…»

«Sentite, non voglio impicciarmi degli affari vostri solo perché viviamo sotto lo stesso tetto» sospirò, «ma voglio bene a Lissa e voi siete fra le poche persone in questa casa che mi trattano da essere umano, perciò mi sento in dovere di dirvi come la penso.»

Suo zio gli appoggiò una mano sulla spalla, «Sei mio nipote Juna, ti voglio bene e ti ammiro, in più hai salvato la vita di mia figlia che da più retta a te che a me. Dimmi pure cosa ritieni opportuno dirmi.»

Perché è così rara questa collaborazione nella mia famiglia?, si sorprese a pensare.

«Lo shock per Melissa è stato immenso quel giorno» rispose cercando di mantenere un tono leggero. «Non può superarlo senza l’aiuto di qualcuno.»

«Vuoi dire uno psicanalista?» chiese sua zia.

Juna annuì. «Stamani sono riuscito a convincerla che è necessario per il suo bene che impari a nuotare. Le insegnerò appena fa un po’ più caldo.»

Lo stupore di sua zia si fece evidente, «Sul serio? Con me fa storie per avvicinarsi alla vasca da bagno.»

«Ma allora a cosa serve uno psicanalista?» chiese suo zio confuso.

«A farle superare lo shock in modo da poter poi smantellare la sua convinzione che solo io posso proteggerla e che solo con me è al sicuro.»

Sua zia guardò il marito «Ha ragione», disse.

«Per convincerla ad entrare in piscina ho dovuto fare leva sulla sconfinata fiducia che ha in me zio, non va. Deve imparare a stabilire cosa è bene e cosa è male per se stessa. E poi queste spedizioni notturne: cosa farà la notte che non mi trova in casa? Presa al panico potrebbe scordare il buonsenso e avventurarsi fuori. Lizar e Dragar non la attaccherebbero, stanne certo, la conoscono e probabilmente le starebbero vicini… ma se varca il cancello?»

Suo zio chiuse gli occhi con un profondo sospiro, «Cercheremo un buon psicanalista da oggi stesso Juna… e grazie.» Cinse le spalle a tutti e due «E ora a fare colazione.»

Quella mattina era stato deciso di fare colazione nel gazebo che si trovava nel parco.

Juna prese posto fra suo padre e sua madre. «Buongiorno a tutti.»

Lennie partì subito all’attacco e la sua voce si levò su di un mormorio di risposta al suo saluto. «Verrai a far visita ai miei, vero?» chiese mielosa.

«Ce l’hai con me zia?» chiese innocentissimo addentando un toast che sua madre gli aveva imburrato «Devono essere cambiate molte cose in questa settimana se ora desideri la mia partecipazione ad un così importante evento. E’ per questo che sei stata così… silenziosa in questi giorni?»

Sua zia Lennie ebbe la decenza di chetarsi e abbassare lo sguardo, forse perché sapeva che l’ironia del nipote non veniva mai sprecata.

Suo marito non fu altrettanto furbo. «Juna, cosa c’entra la settimana passata? Tua zia è stata gentile ad invitarti, mi sembra. Possibile che tu non riesca semplicemente a rispondere a una domanda?»

«Ah. Perché se non mi avesse invitato io non sarei potuto venire in quanto suo nipote? Cosa c’è, servono inviti singoli per la nostra famiglia? Questa riunione è talmente importante che non è sufficiente essere suo nipote per essere presente? Vedi zio, tua moglie è stata gentile, come no. Peccato che: uno, si ricordi di essere gentile con me solo in presenza di terzi; due, che me lo abbia chiesto gentilmente come se fosse una cosa dovuta e non una cortesia e tre, che guarda caso oggi sono esattamente otto giorni che la tua dolce metà non mi rivolgeva la parola.» Sorrise dolcemente «Ho risposto abbastanza semplicemente alla domanda o sono andato troppo veloce per te?»

Calò il silenzio più assoluto, la voce di Manaar si levò dolcissima come sempre, «Caffè Juna?»

«Sì, grazie mamma.»

Si sorrisero e la loro somiglianza fu quanto mai evidente.

Connor seguiva la scena con un sorrisetto che la diceva lunga riguardo l’orgoglio e l’amore che nutriva nei confronti del figlio e della moglie.

«Sei rientrato tardi stanotte Juna, ti sei divertito?» chiese all’improvviso Madeline con una noncuranza che non avrebbe convinto neanche Melissa.

Juna guardò sua nonna «Come al solito nonna, grazie per l’interessamento.»

«E la conosco?»

Il sopracciglio di Juna si sollevò con aria interrogativa, «Mi spieghi perché quando faccio tardi deve essere sempre per forza colpa di una donna?»

«Beh, perché la speranza è l’ultima a morire.»

«A chi lo dice…» fu il commento di sua madre.

Alzò le mani in segno di resa, «Ok voi due, mi arrendo! Era una splendida bionda con gli occhi verdi, contente?»

Sua madre scosse la testa sorridendo… ormai conosceva il senso dell’umorismo del suo unico pargolo, e conosceva anche il suo migliore amico!

«Come si chiama?» chiese sinceramente interessata Madeline.

«Drake Tyler.»

Manaar non resse oltre e la sua risata cristallina ruppe il silenzio, subito seguita da Ryan ed Elisabeth.

Madeline rimase troppo stupita in un primo momento, poi scoppiò a ridere anche lei, in un modo che, i presenti lo sapevano, era in grado di provocare solo Juna.

Ciò che fece scoppiare a ridere Juna fu la reazione di suo padre.

Connor si era piegato sul tavolo con la testa fra le mani e continuava a mormorare Non ci credo, non può essere, vi prego ditemi che non è vero, povero me… con una sconsolazione veramente toccante.

Il figlio lo abbracciò con fare consolatore, «Dai papà, non fare così, il giorno che deciderò di sposarmi non sceglierò certo Drake… lo conosco troppo bene per fare una pazzia del genere!»

Connor alzò gli occhi su di lui «Bella consolazione davvero, figlio mio» fu il suo unico commento.

Paul, Lennie e relativa prole erano troppo occupati a seguire la scena con aria disgustata per accorgersi del sorrisetto compiaciuto che era apparso sul viso di Patrick.

 

Arrivò in ufficio poco dopo le dieci e mezzo ed Alison lo accolse con un sorriso, ma non con il solito sorriso: si vedeva lontano un chilometro che era felice.

«Deve essere andata bene ieri sera» buttò lì con il tono più casuale del suo repertorio.

La ragazza gli porse dei fogli, «Molto, grazie.»

«Matrimonio in vista eh?»

Alison sussultò, «Nel quoziente duecentosessanta è inclusa la telepatia per caso?»

Prese i fogli «No. E che so riconoscere una donna felice, e tu oggi risplendi di luce propria tesoro!»

«Sai, comincio a capire il perché sei stato la rovina di tante ragazze Juna…»

La guardò di traverso «Questa faccio finta di non averla sentita! E prendilo come un grosso favore che ti faccio! Quando me lo presenti?»

«Mai, se va come spero.»

«Mi stai dicendo che non m’inviterai al matrimonio?» Scosse la testa e si avviò verso il suo ufficio «Questa poi!»

La ragazza lo seguì sbuffando, «Il mio problema sei tu e la leggenda del tuo fascino! Anche lui vuole conoscerti!»

«Davvero?»

«Già. A quanto pare sei uscito con un’amica di sua sorella e la suddetta leggenda ha varcato i confini dell’alta finanza. Maledizione.»

Alison era encomiabile.

«Un’amica di sua sorella hai detto?» chiese togliendosi la giacca e posteggiandosi dietro la sua scrivania «E come si chiama?»

«Chi? Sua sorella, lui o l’amica?»

Le scaricò addosso un’occhiata fra il rimprovero e lo scherzo «La felicità ti rende più spiritosa del solito, che Dio mi aiuti quando tornerai dalla luna di miele!»

Alison lo gratificò di una linguaccia «Stephen O’Neil.»

«Il giocatore di hockey?»

«Lo conosci?»

«Di fama. Ho sentito che è un ottimo giocatore e un bel ragazzo… l’ho visto giocare un paio di volte. Ha una sorella hai detto?»

«Juna…»

Ridacchiò, «Scherzavo tesoro.»

La ragazza alzò gli occhi al cielo, era il massimo sdegno che riusciva a procurarle. «E’ un ragazzo molto gentile e buono, lo conosco da poco più di sei anni, ma usciamo insieme da circa cinque e stiamo insieme da poco più di quattro, anche se non abbiamo mai parlato di trasformare la cosa in una storia seria.»

«Infatti non me lo hai mai nominato. Sarà uno shock per chi ti crede votata al sottoscritto e alla compagnia.»

Alison sospirò afflitta, «Già. E dopo tutta la fatica che ho fatto in questi anni per tenervi lontani è probabile che lo conoscerai oggi stesso: mi passa a prendere e pranziamo insieme.»

«Non vedo l’ora, mi sei incuriosito con questa storia di sua sorella e dell’amica. Ali, che ne diresti del pomeriggio libero?»

Lei lo guardò spaesata, poi esplose «Junayd-Kamil-Alifahaar-McGregory» sillabò «sei un demonio! Stavo per chiedertelo!»

Le sorrise «Lo so.» Si appoggiò sul piano di cristallo «Cosa mi aspetta oggi?»

La ragazza assunse il tono professionale, «Fra meno di mezz’ora Anne sarà qui, ha telefonato un’oretta fa per ricordarti di dare un’occhiata al bilancio che ti ha portato ieri, tuo padre ne ha bisogno per pranzo. Ha telefonato il signor Stellison… tu lo conosci come il segretario del presidente della Worldcaft» spiegò alla sua occhiata, «ha chiesto di fissare un appuntamento fra te e il suo principale al più presto.»

«Ti ha detto il perché di questo appuntamento?»

«Non è stato molto espansivo, ma era molto agitato.»

«Di solito ho a che fare con il vice… senti, ok, fissa l’appuntamento al più presto e avverti mio padre di questo. Poi annulla tutti gli appuntamenti di oggi pomeriggio e rimandali alla prossima settimana ormai, se ti rendi conto che non sono importanti anche oltre, dai la precedenza alla Worldcaft comunque.»

«L’appuntamento con Bart è per martedì mattina alle dieci, ho già avvisato tuo padre e tuo nonno.»

«Bene. Appena arriva Anne dai l’allarme e…»

«… ti porto un bel caffè, nero, bollente e ben zuccherato!»

«Esattamente… finirò con il doverti dare un aumento…»

 

Poco dopo l’una e mezzo lasciò l’ufficio in compagnia di Alison e Stephen.

Declinò gentilmente l’invito di unirsi a loro per il pranzo e si separarono nell’atrio.

Si diresse a piedi verso il luogo dell’appuntamento con Drake e Matthew e, sebbene arrivò con un quarto d’ora di anticipo, li trovò ad aspettarlo.

Si salutarono e Matthew, un uomo sulla cinquantina dall’aspetto severo e vagamente marziale, tirò fuori una voluminosa busta gialla, di quelle imbottite che si usavano per spedire oggetti fragili, «E’ tutto qui ragazzi, dove, quando, come. Falcon, al solito posto troverai l’attrezzatura che vi servirà. State attenti, c’è un vero esercito di esaltati a protezione del carico e di chi lo porta. E’ un’occasione più unica che rara, erano quasi vent’anni che non veniva in America.»

«La cosa deve essere grossa allora.»

«Darkness, stiamo parlando di una spedizione di quasi quaranta chili di cocaina purissima. Si pensa sarà nella villa, è la cosa più logica, ma non è un problema vostro, l’assassinio sarà la scusa per noi per piombare lì, capite?»

«Nessun testimone.»

«Esatto Darkness. La roba non deve essere spostata. Non vi nascondo che è una missione molto importante per i capi, sarebbe un colpo quasi mortale per il traffico dal Sud America, Carlos ha due fratelli, ma è lui il punto focale.» Seguì un breve silenzio, «Ragazzi, non vi nascondo che la vostra parte in questa storia sarà un po’ diversa dal solito. Vi abbiamo insegnato ad essere silenziosi e invisibili, ma questa volta dovrete alla fine far sentire che ci siete.»

«Non dovremo usare i silenziatori?» chiese Drake sorpreso.

«Prima di andarvene due o tre colpi sparati in aria andranno benissimo… è scritto tutto nella relazione che ho preparato per voi. Abbiamo da anni un uomo nella centrale di polizia che si occupa della zona, sarà certamente lui a prendere la telefonata che avvertirà degli spari, l’importante è che non siate visti. Ci muoveremo appena il nostro uomo ci avvertirà della telefonata e prenderemo il controllo dell’operazione sul posto.»

Perché gli stava dicendo tutto questo se era già scritto nella relazione? E da quando doveva importargli di cosa sarebbe successo dopo la loro sparizione? Perché il suo istinto gli diceva che c’era qualcosa che non andava e che quel qualcosa continuava ad essere Drake?

«Sta bene» disse Drake. «Prenderò l’attrezzatura domani mattina presto e verrò subito a casa tua. Se i tuoi non saranno ancora andati via, aspetterò di vederli partire, ok Juna?»

Matthew quasi sussultò.

Non c’era proprio verso di abituarsi.

Gli annuì.

C’era qualcosa che non andava. Matthew non aveva mai parlato così tanto e Drake mai così poco.

Si separarono.

«Che si fa?» chiese.

«Andiamo a casa mia a dare una prima occhiata all’incartamento» rispose Drake. «Mio padre è a New York fino a mercoledì e mia madre a fare shopping… quindi fino a cena non la vedo in casa. Staremo tranquilli. Il peso di quella busta mi dice che non sarà una passeggiata amico mio.»

Annuì, era completamente d’accordo con l’amico: più una missione era difficile, più era documentata per non lasciare nulla al caso.

Luoghi, orari, abitudini… un intreccio di dati che loro due avrebbero dovuto imparare a memoria.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare una missione senza una busta accompagnatoria di proporzioni mastodontiche.

«Neanche io amico mio» disse Drake. «Dovremo dirlo ai nostri superiori, tu che dici?»

Passò sopra il fatto di quanto Drake si divertisse a terminare i suoi pensieri ad alta voce, «Secondo te, ci darebbero retta?»

«Da quell’orecchio sono uno più sordo dell’altro.»

Ridacchiarono e lasciò che il silenzio di protraesse per qualche minuto.

«Matthew era stranamente loquace oggi, che pensi?» chiese all’improvviso.

«Mh… strano vero? Non credo che abbia una famiglia… cioè, una moglie o roba del genere… avrà problemi al lavoro.»

Non rispose.

Certo, così si poteva spiegare il suo comportamento… peccato che il suo migliore amico avesse parlato evitando di guardarlo negli occhi.

 

«Passeggiata?!» esplose Drake tre ore dopo seduto al tavolo della sala da pranzo di casa sua «Questo è un suicidio!!»

Juna osservava la cartina del parco e della villa che avrebbero dovuto espugnare di lì a cinquantaquattro ore, al suo silenzio l’amico continuò «Gli orari sono folli! Abbiamo solo quarantacinque minuti per arrivare alla stanza, sparargli ed uscire! … Ah no, è vero: deve avanzarci qualcosina per far fuori i due esaltati che saranno a guardia della stanza di Estrada…»

«Se non altro sono stati coerenti» disse Juna, «per entrare nel parco, uccidere la ventina di esaltati che lo sorvegliano, arrivare al generatore, scollegare l’allarme e fare il giro per tornare all’ingresso principale ci hanno dato la bellezza di un’ora e mezzo.»

«Ma che gentili!» ironizzò Drake «Che proponi?»

«Prima abbiamo l’attrezzatura, prima potremo veramente renderci conto di ciò che possiamo realmente fare.»

«A che ora se ne vanno i tuoi?»

«Dovrebbero partire intorno alle otto.»

«Se arriverò prima aspetterò fuori dal cancello di vederli andare via. Assicurati che il vecchio garage oltre il capanno sia aperto, nasconderò lì la macchina e porterò le borse in casa. Chi ci sarà?»

«Howard.»

Entrambi sapevano che l’anziano maggiordomo non vedeva nulla su cui non fosse espressamente richiesta la sua attenzione, era al servizio dei McGregory da oltre quarant’anni.

«In pratica saremo soli» disse Drake. Cominciò a raccogliere le carte sparse sul tavolo, «Resti a cena?»

«Meglio di no. Con il fatto che domani parte mia madre vorrà stare un po’ con me stasera.»

«C’è qualcosa che non va Juna? Sei… strano. Non eri così ieri sera.»

«Mio nonno.»

Drake alzò gli occhi al soffitto, gli dette assurdamente l’impressione di essere sollevato «Cosa vuole ora?»

«Mi ha aspettato alzato la scorsa notte. Mi ha fatto un sacco di domande… sembrava… dispiaciuto che non fossi stato presente alla cena. Mi ha detto che erano presenti anche Diana e Gary. Ripensandoci a mente fredda non era scocciato come ho pensato appena ha aperto bocca ma dispiaciuto. Il fatto è che ha la capacità di farmi incazzare solo respirandomi vicino e non sono stato ad ascoltarlo. Mi ha anche detto che sono il migliore dei suoi nipoti.»

«Se n’è accorto?! Meglio tardi che mai!»

«Drake, hai mai pensato che la McGregor Investments appartiene a lui? Io e mio padre rivestiamo le cariche più importanti all’intero della compagnia e il novanta per cento delle decisioni le prendiamo noi, ma è tutto suo.»

«Non ti seguo più Juna.»

«Non lo so. Ho la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Era dispiaciuto della mia assenza a cena, più ci penso più ne sono certo… sta covando qualcosa Drake.»

«Ok, sono pronto ad ammettere che sono rimasto di sasso quando, con altri due figli a disposizione che non gli hanno mai fatto girare le palle ha messo sulla poltrona della presidenza proprio tuo padre, ho pensato che fosse impazzito quando sulla poltrona della vice presidenza ci ha messo un nipote, e neanche il suo preferito… ma la realtà è la realtà, e quello che sai fare tu, non lo può fare nessun altro.» Si portò indietro i capelli con una mano, «Assomigli molto a tuo nonno caratterialmente parlando Juna, hai ripreso le caratteristiche McGregory che sono il suo vanto e orgoglio… e sei l’unico. Justin non muove foglia che suo nonno non voglia, Georgie è una marionetta nelle mani di sua madre che è quello che è, Melissa è un angelo ma ha solo quattro anni, è fuori gioco ancora. In più grazie a tua madre, nelle tue vene scorre sangue blu da otto generazioni. Non ti sto parlando da amico ora, ma da persona che osserva i fatti. Hai capacità infinite con l’intelligenza che ti ritrovi e le hai messe a disposizione della McGregor Investments, quando per come sono andate le cose fino ad ora avresti potuto lavorare per il governo o per Mansur, che ti adora.» Fece una smorfietta, «Ok, io e te sappiamo che effettivamente lavori per il governo, ma ci siamo capiti!»

«Sono voluto restare al fianco di mio padre, è lui che mi ha chiesto di accettare la carica e mio nonno lo sa. Ti sembra realista che si sia svegliato solo adesso? Il fatto che lavori anche per l’F.B.I. è accidentale e nessuno meglio di te può saperlo.»

«Ma questo non cambia che la compagnia è fra le prime al mondo, nel giro di otto anni è diventata una vera e propria leader del campo ed esiste da secoli. Tuo nonno non è scemo, si comporta da idiota, ma non è scemo.»

«Ti rendi conto che stai quasi parteggiando per lui, vero?» Drake alzò gli occhi al cielo «Stamani a colazione ne è successa un’altra…» riprese e raccontò gli avvenimenti della colazione. «Non mi ha dato contro, non ha detto una parola» concluse.

«E cosa avrebbe potuto dirti? Avevi ragione su tutta la linea!»

«Già, ma tante volte in passato ho avuto ragione su tutta la linea e ha sempre avuto qualcosa da ridire. Te lo ricordi l’affare con quella compagnia araba?»

Drake annuì.

Era successo un paio di anni prima.

Juna aveva favorito una strada e Patrick si era opposto con tutte le sue forze. Alla fine Connor aveva dato ragione al figlio e l’accordo aveva dato un netto di parecchi milioni di dollari. In seguito, da un calcolo di probabilità eseguito da esperti, era saltato fuori che la soluzione di Juna, anche se più rischiosa, aveva comportato un incentivo del quindici per cento delle entrate rispetto a quella proposta da Patrick.

Juna si era sentito dire che voleva sempre strafare.

«Se io fossi in te, ci dormirei un po’ sopra» disse Drake vagamente preoccupato.

«Per prima cosa dobbiamo pensare a cosa ci aspetta sabato notte.»

«Come cosa ci aspetta? Una passeggiata no?»

 

L’aria era tesa e tutti mangiavano in silenzio.

Per Juna questo era uno stato di grazia più unico che raro… quindi era anche destinato a non durare a lungo.

«Non hai risposto a mia madre stamani.»

Alzò lo sguardo sulla cugina maggiore e sorrise, «Pensavo di aver detto abbastanza a tuo padre.»

«Hai capito cosa voglio dire. Sei insopportabile, non stupido.»

«Questo è il primo complimento che mi fai da quando sono al mondo, sei sicura di stare bene Georgie?»

«Vieni o no?»

«No.»

«Perché no?» chiese Justin.

«Perché no.»

«Non è una risposta» s’intestardì lui.

«Ma ti garantisco è quanto di più intimo saprai sulla faccenda cugino», ribatté mettendo finalmente in mostra la sua calma glaciale.

«Ti sembra di comportarti bene Juna?» s’intromise Paul «Il tuo comportamento mi piace sempre meno, stai alzando un po’ troppo la cresta per i miei gusti, mio figlio non si permetterebbe mai di…»

Juna sospirò pesantemente, posò le posate e alzò uno sguardo freddo e cattivo sullo zio che lo fece chetare all’istante.

La voce suonò perfettamente abbinata allo sguardo. «Cerchiamo di mettere le cose in chiaro una volta per tutte Paul McGregory. E’ già la seconda volta nel giro di ventiquattr’ore che mi rivolgi la parola, e questo piace sempre meno a me. Tuo figlio non si permetterebbe di alzare la cresta come dici tu, neanche con il gatto di sua sorella, per il semplice fatto che senza di te o sua madre alle spalle è più indifeso di un pulcino. Tu stai facendo del fatto che tuo figlio non sia in grado di difendersi un orgoglio. Che razza di padre sei? Che razza di uomo sei? Mio padre mi ha insegnato a non chinare mai la testa, a lottare per ottenere quello che voglio. Non paragonarmi mai più a tuo figlio e non ti azzardare mai più a dirmi cosa devo o non devo fare. Ho un padre e una madre per questo che valgono mille volte te.»

Paul aprì bocca più per la sorpresa che per dire effettivamente qualcosa, ma Juna continuò implacabile «In quasi diciannove anni di vita ti risulta che sia mai venuto a queste allegre riunioni? Se ti fosse sfuggito, ti informo che non è mai successo. Cosa ti ha fatto pensare che le cose sarebbero cambiate da oggi? Il fatto che non rispondo alle provocazioni? O che lascio passare le frecciatine su mia madre senza battere ciglio? Di questo dovete ringraziare solo lei, badate bene. Tiene più lei all’unità di questa famiglia di voi che ne portate il cognome dalla nascita e andate in giro a sbandierarlo come fosse un trofeo. Troppo scomodo per il vostro ego pensare che per dinastia lei valga molto più di voi, ma è esattamente questa la verità. Per concludere, zietto, posso anche dirti che il rispetto non è dovuto a nessuno, non è sufficiente nascere McGregory per averlo: bisogna guadagnarselo e meritarselo, e a questa tavola chi si merita il mio si enumera nelle dita di una mano, e avanza spazio.» Si alzò con calma dalla sedia «Credo che dopo questo chiarimento circa i nostri rapporti, con un po’ di fortuna, non sentirò la tua voce o quella di tua moglie e relativa prole per almeno altre due settimane, spero solo che la stessa fortuna tocchi anche a mia madre, perché non sono più disposto a tollerare i vostri giochetti idioti, le uscite spettacolari e le varie occhiate altezzose e sprezzanti. Spalanca le orecchie nonno, sto parlando anche con te. Mi sono spiegato bene zio Paul? Da oggi in poi potrei diventare estremamente cattivo e spiacevole in caso contrario.» Gettò il tovagliolo sulla tavola, «Credo che salterò il caffè stasera: sono già abbastanza nervoso.»

Uscì dalla stanza e sulla soglia incrociò Howard, pietrificato dalla sorpresa.

 

Howard servì e lasciò la stanza senza praticamente alzare lo sguardo.

«Alla fine lo avete fatto esplodere.»

La voce di Connor suonò come una fucilata.

Melissa sussultò «Era proprio arrabbiato…» disse a bassa voce. «Zio Connor, ce l’aveva anche con me?»

«Ma no Lissa, come puoi pensarlo?» rispose Manaar. Si rivolse inaspettatamente a tutti, «Fino a ieri avrei chiesto scusa per il suo comportamento, ma mi rendo conto che siamo proprio arrivati al limite. Vado da lui.»

«Papà» disse Connor mentre la moglie lasciava la stanza. «Mi sembra evidente che la situazione non è più sostenibile. Per quel che mi riguarda Juna ha retto anche troppo per il carattere che ha, e ha mantenuto una calma veramente ammirevole anche nello sfogo…»

«Gli stai dando ragione» disse allibita Lennie. «Il suo comportamento di stasera è inqualificabile e tu gli dai…»

«Fate silenzio.»

Tutti si voltarono verso Patrick.

«Papà» riprese Connor, «ce ne andremo da Villa McGregory dopo il fine settimana.»

«Aspetta un attimo Connor» intervenne Madeline. «Andarvene? E dove?»

«Nell’appartamento che Mansur ha regalato a Manaar come regalo di nozze, resteremo a Boston mamma, ma non…»

«Sei il maggiore dei tuoi fratelli Connor» lo interruppe Madeline, «cerchiamo di ragionare da persone razionali.»

«Sarebbe la prima volta che succede da venticinque anni a questa parte, forse Paul e papà non si ricordano neanche più come si fa.»

Tutti gli sguardi si puntarono sorpresi su Ryan che sostenne quelli del fratello e del padre, «Paul, papà, vi rendete conto di quello che ha detto Juna stasera? Vi rendete conto che mia figlia è nata in una famiglia in guerra? In guerra contro la persona che le ha salvato la vita? Vi rendete conto che io e Beth non ce la facciamo più? Che non sappiamo più cosa inventarle per giustificarvi ai suoi occhi?»

Connor si sentì tirare una manica e abbassò lo sguardo, Melissa era accanto a lui e piangeva da far pietà senza emettere un suono. Probabilmente aveva smesso di ascoltare cosa succedeva intorno a lei alla notizia che avrebbero lasciato la villa.

Si maledisse per non averci pensato.

«Z-z-io… non… non mi portare via Juna, zio ti prego… tutto ma non… come f-fac-cio io…» singhiozzava lottando per prendere fiato, si aggrappò con entrambe le manine al suo braccio «portami con voi… vengo anche io con Juna… p-portami con Juna zio ti prego… come… fa… sarò buona lo prometto, anzi lo giuro… zio…»

Connor si ritrovò a lottare contro le lacrime, la prese in braccio e la strinse a sé «Buona Lissa, non fare così… troveremo una soluzione va bene? Ma adesso ti prego smettila di piangere così…»

Ma non c’era verso, era in piena crisi isterica.

«Justin, va a chiamare Juna» ordinò Patrick con voce malferma.

 

Manaar entrò senza bussare e trovò il figlio disteso bocconi sul letto.

«Sì, lo so» esordì con una strana flessione nella voce, «ho sbagliato.»

«Allora siamo in due ad aver sbagliato stasera. Avrei dovuto chiedere scusa per il tuo comportamento…»

Juna balzò a sedere come una molla «Non puoi averlo fatto!!»

«Non ci ho neanche provato, sono troppo orgogliosa di te.»

«E papà?»

Si sedette vicino a lui «E’ stato il primo a difenderti.»

«Mamma, è stato più forte di me.»

«Lo so, ma da oggi cambierà tutto, vedrai.»

«Che cambierà è poco ma è sicuro… solo dubito che cambierà in meglio.»

Manaar scosse la testa, «Qualunque cosa accada, siamo una famiglia, io, te e papà. E’ questo che conta.»

Juna sorrise, «Da quanto non ti dico che ti voglio bene?»

«E’ sempre troppo.»

La porta si spalancò e apparve Justin, sconvolto come mai lo aveva visto in vita sua, «Juna… Juna ti scongiuro torna giù… Melissa ha… una crisi, non lo so, ma ti prego…»

Juna balzò giù dal letto e si precipitò giù per le scale.

I singhiozzi accorati della bambina si sentivano dal pianerottolo del primo piano, Justin stava snocciolando una spiegazione incoerente alla velocità della luce, ma Juna afferrò quanto bastava: erano nei guai.

Se non fosse riuscito a calmarla erano in guai seri.

Entrò nella sala, passando accanto a suo zio Ryan che era di vedetta, «Melissa?» chiamò.

La bambina quasi cadde distesa in terra per scendere dalle gambe di suo padre e si precipitò verso di lui ancora prima di aver raggiunto un equilibrio, inciampando nei suoi stessi piedi diverse volte. Si inginocchiò spalancando le braccia e l’impatto con quel corpicino per poco non fece finire disteso in terra lui stesso.

«Juna!» gridò con una voce irriconoscibile «Ti… ti prego non… non… andare… non andare… no… con me… qui… rimani…»

Fuori dalla grazia divina.

Per qualche secondo non poté che rimanere ad osservare senza parole quel fascio di nervi che aveva le sembianze di sua cugina che si stava arrampicando verso il suo collo, quasi cercando di fondersi con il suo corpo.

Sua zia Elisabeth e sua nonna piangevano senza ritegno, suo padre era sconvolto, zia Lennie, suo zio e Georgie erano bianchi come lenzuoli, suo nonno aveva gli occhi lucidi.

Si voltò verso sua madre e la vide osservare allibita la nipote, suo zio Ryan era aggrappato alla maniglia della porta, Justin aveva le spalle al muro e guardava la scena sotto shock.

Non perse neanche tempo a respirare profondamente, abbracciò la piccina, «Andare? Andare dove?» chiese «Io resto qui, sei tu che parti domani, e anzi: vedi di tornare alla svelta perché mi hai promesso che impari a nuotare, ricordi?»

Melissa si immobilizzò all’istante, le manine artigliate al suo maglione. Si separò lentamente da lui lo stretto indispensabile per guardarlo in faccia e nei suoi occhi passò l’intera gamma di sentimenti che vanno dalla sorpresa, al sospetto, alla speranza.

La sua voce suonò di nuovo consona a una bambina di quattro anni «Tu… tu rimani… qui?» chiese meravigliata.

Aveva smesso di piangere anche.

Juna tirò fuori il fazzoletto e, dandolo alla bambina, scoppiò a ridere «Ma certo! Guarda la mamma e la nonna, piangono come fontane anche loro! Ho il sospetto di essermi perso qualcosa, gente!»

«Lo zio Connor ha detto che… che andavate via» disse Melissa con una chiara nota di sdegno nella voce, fra le righe aveva anche detto che pensava che suo zio fosse impazzito.

«Chi?»

«Voi

«Melissa, sei certa che non intendesse una pausa per sé e la zia? Non è la prima volta che se ne vanno un po’ per gli affari loro.»

La bambina si soffiò rumorosamente il naso, nella stanza non volava una mosca «Beh, io…» cominciò, poi si rivolse a suo padre «Zio, intendevi con la zia?» chiese.

Suo padre sorrise debolmente, «Io… sì, certo.»

Fra di loro saettò uno sguardo.

«Oh! … E io che avevo capito…» sorrise raggiante «ho pianto per nulla!»

«Già, proprio fiato sprecato! E ora a nanna cucciola, ti aspetta un’alzataccia domani mattina.»

«Vieni a darmi il bacino della buonanotte?»

«Arrivo subito, il tempo di salutare tutti quelli che partono con te ok?»

«E domani mattina se prometto di non svegliarti posso venire a darti il bacino del buongiorno e quello del ciao a domenica?»

«Un totale di due bacini? Mh, mi sveglierai di sicuro.»

Melissa affondò il visino sul suo collo, «No, non ti sveglio, te li do piano.»

«Va bene tesoro, ma ora vai con la mamma a prepararti per la notte.»

«Ok, buonanotte a tutti!»

Nessuno le rispose, ma non ci fece caso: il suo mondo era tornato a posto.

Sua zia Elisabeth si mosse per seguirla e giuntagli vicino, lo abbracciò. Dopo un attimo di indecisione rispose all’abbraccio. «Il discorso di stamani è più che mai valido Juna» bisbigliò appena con voce rotta, poi si allontanò da lui «grazie.»

Quando anche suo zio Ryan scomparve su per le scale insieme alla moglie e alla figlioletta, Juna si rivolse al padre «Si può sapere cosa è successo?»

Connor lo guardò un attimo, poi mormorò, «Ho detto che… che dopo il fine settimana ce ne saremmo andati da questa casa, e intendevo proprio tu, io e la mamma.»

Manaar si affiancò al figlio e guardò il marito con affetto.

«Credi che questo sistemi le cose papà?» Allo sguardo del padre continuò, «Perché se tu veramente pensi che questo basti, allora ce ne andiamo sul serio.»

«Juna…» cominciò Patrick.

Lo bloccò con un cenno della mano, senza staccare gli occhi da quelli del padre «Sappiamo entrambi che non basta, vero papà? Non è sufficiente separarci per fare di noi una famiglia.»

«Juna, vorrei parlarti da solo.»

«Nonno, preferisco far sbollire la rabbia prima di aprire di nuovo bocca con uno dei brillanti membri di questa casa. Che ne dici di rimandare dopo questo famoso fine settimana?»

Suo nonno sorrise, «Devo chiamare la tua segretaria lunedì mattina e fissare un appuntamento?»

Non c’era ironia pungente, per la prima volta in quasi diciannove anni che lo conosceva, suo nonno stava scherzando con lui.

Gli sorrise come risposta, «Ali sa tutto nonno, per te non ci sarei mai. Potremmo pranzare insieme, prometto di lasciare il veleno in ufficio, se tu mi farai la stessa cortesia.»

«Ti passo a prendere in ufficio verso le tredici.»

Nessuno nella stanza poteva credere alle proprie orecchie.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Azione / Vai alla pagina dell'autore: Black Swan