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Autore: gattomatto89    20/11/2008    3 recensioni
Ennesimo tentativo di rappresentazione di inaudite violenze sulle donne
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MI chiamo alessandra

27 Ottobre 2007


Mi chiamo Alessandra. Ho trentacinque anni e sto scrivendo su questa agenda che ho trovato nella credenza della mia nuova casa. Non so perché, forse non ce la faccio più a stare zitta, a tenermi dentro tutte quelle cose che mi sono accadute, tutto ciò che ho passato e che sempre ho taciuto, per paura di non vedere più l’alba del giorno successivo.

Mi sono trasferita qui da una settimana, ma della mia vecchia casa non ho affatto nostalgia. Anche se vivevo in una splendida villetta con due giardinetti, una serra ed una mini-piscina non la rimpiango affatto. Anzi, ora finalmente sono felice. Per un solo e semplice fatto: vivo qui da sola insieme alla mia bambina.

Si chiama Gioia, ed ha quattordici anni. È una ragazza veramente sveglia, ed in gamba. Quest’anno fa la prima superiore, in un liceo del luogo, ed i professori mi dicono molto bene di lei. Per questo io ne sono fiera. È mia figlia. Nonostante tutto quello che abbiamo e ha passato.

Forse lei ha più rancore nell’aver mollato tutto ed esserci trasferite qui, perché si era fatta la sua schiera di amichette ed amichetti (con uno dei quali mi sembra avesse un feeling particolare!), e poi quelli erano i luoghi nei quali era nata e cresciuta. È stato difficile per lei. per un periodo non mi ha nemmeno rivolto la parola, restava ore ed ore al cellulare a massaggiare oppure a telefonare ai suoi amici. Ed io ero sola.

Mi sedevo sulla sedia, come sto facendo ora, e restavo a fissare un punto inesistente, davanti a me, pensando e riflettendo. Cercavo di non ricordare, ma quelle urla mi rimbombavano in testa come il picchiettare di un martello pneumatico. Anche oggi le sento. Di meno, ma le sento. Chissà se un giorno Dio mi concederà la grazia di dimenticare tutto. Chissà.

Sono circa le dieci di mattina, mia figlia è a scuola ed io devo fare le pulizie, perché verso l’una e trenta lei torna a casa e devo prepararle il pranzo. Però qualche minuto per scrivere riesco a trovarlo.

Mi sembra assolutamente la cosa più stupida del mondo il fatto di stare qui a scrivere su questa agenda qualcosa che forse mai nessuno leggerà, che non uscirà da questa casa, che magari conserverò nel sottofondo del cassetto della mia biancheria; ma sento che non posso farne a meno: io devo sfogarmi.

Per questo racconterò la mia storia, cercando di essere concisa e di scrivere bene, perché io a scuola il massimo che prendevo nei temi era sei! Quindi mi perdonerete se a volte non esprimerò i concetti in modo chiaro.

Bene, cominciamo.

Mi sono sposata quindici anni fa. Avevo vent’anni, ero giovane, carina e simpatica. Lavoravo nella lavanderia di mio padre, assieme a mia cugina Sofia. Gli affari andavano bene, molti ci portavano vestiti da lavare, stirare, tirare a lucido. Nella nostra cittadina eravamo molto apprezzate.

Vivevo con i miei genitori, l’unica di quattro fratelli ancora a casa con i suoi, con un lavoro mediocre. Ma mi piaceva. Con mamma e papà passavo giornate bellissime, perché loro erano fantastici. Mia madre ci ha sempre accuditi, tutti e quattro nello stesso modo, con lo stesso amore materno. E mio padre era un angelo: non ho mai, dico mai, ricevuto nemmeno uno schiaffo da lui. Era il mio uomo. Lo è stato fino al compimento dei miei diciotto anni, quando alla mia festa di compleanno Sofia mi fece conoscere un ragazzo.

Era alto, bello, biondo e aveva gli occhi verdi. Infatti quando lo guardai rimasi subito spiazzata dalla sua bellezza. C’era una marea di gente, mi ricordo, amici dei miei fratelli e anche qualcuno entrato a sbafo, ma tutto ad un tratto in mezzo alla sala eravamo solo io e lui. Mi fissava, e sorrideva.

Io quella sera mi innamorai pazzamente di quel ragazzo.

Restammo insieme fino all’una di notte, ed al massimo arrivammo ad un bacio sulla guancia. Io ero stata insieme ad altri ragazzi prima di allora, ma tutti al primo appuntamento ci avevano provato con me. Lui no.

Per questo i giorni successivi non facevo altro che pensarlo, sognarlo. In ogni istante della giornata lo vedevo dappertutto, anche ad occhi aperti. E quando lo vedevo ero completamente in paradiso.

In capo a due mesi ci fidanzammo. Lui si era ritirato dalla scuola l’anno prima, per andare a lavorare come cameriere nel ristorante di suo zio. Gli erano bastati solo tre mesi per diventare caposala. Io frequentavo l’ultimo anno di ragioneria, ed ero tesissima per gli esami finali. Quando li passai con novantaquattro su cento, lui mi regalò un anello di diamanti. Non sto scherzando! Diamanti veri! Disse che aveva risparmiato soldi sul suo stipendio per farmi felice. Più tardi seppi che aveva rovistato nel portafogli di suo zio.

Dopo due anni che stavamo insieme, un giorno si presentò a casa mia e disse che voleva fare una cena alla quale avrebbero partecipato i miei ed i suoi genitori. Io accettai, e mentre tutti stavano mangiando, si alzò, prese il calice, lo levò al soffitto e disse che doveva fare un annuncio importante.

La proposta di matrimonio mi lasciò così esterrefatta che quando mi abbracciò forte e mi baciò davanti a tutti, io non potei rifiutare. Seguì un lungo applauso da parte dei nostri parenti e l’apertura di una bottiglia di spumante.

Quella estate, in giugno, ci sposammo. Fiori d’arancio, il mio vestito da sposa, il riso in faccia, le foto, la torta nuziale, gli auguri, i regali, la prima notte… Tutto molto bello.

Gioia nacque nel marzo dell’anno successivo, e fu una festa per tutti. Le nostre finanze furono messe a dura prova nei mesi successivi, in quanto dovevamo mantenerla e con tutte le spese che effettuammo rischiammo di rimanere al verde. Non eravamo molto ricchi, ma quello che ci bastava era il nostro amore.

Per fortuna mio marito trovò un lavoro importante lì nei dintorni, presso un noto ristorante di alta classe. La sua paga così raddoppiò ed ogni tanto gli davano persino una maggiorazione sulle ore che totalizzava.

Andò avanti in questo modo per quattro anni, durante i quali passammo momenti bellissimi insieme alla nostra bambina. Ma in una piovosa notte di ottobre, mi ricordo, tornò a casa e non parcheggiò la macchina nel garage, come faceva sempre. Gli aprii la porta ed entrò tutto bagnato fradicio, calpestando il pavimento con le suole delle scarpe piene di fango, sporcando dappertutto. Gli chiesi perché non se le poteva togliere, e lui mi intimò di tacere. Questo mi spiazzò. Mai in quei sei anni che ci conoscevamo mi aveva risposto in quella maniera. Iniziai a preoccuparmi per lui e domandai se c’era qualche problema e se ne voleva parlare.

Mi raccontò che lo avevano licenziato, in tronco. Aveva anche bisticciato con il proprietario, ed era stato sbattuto fuori dal locale a calci. Senza motivo, disse. La verità, che emerse anni dopo, consisteva nel fatto che lo avevano trovato nella dispensa mentre era intento a farsi due strisce di eroina.

Parlava, parlava così tanto dicendo cose senza senso e insultando a più non posso tutte quelle persone con le quali aveva lavorato per anni. Non lo riconoscevo. Poi si avvicinò a me e mi soffiò in volto. La puzza di alcool mi entrò nelle narici come lo zolfo, e capii che era ubriaco.

Glielo feci notare, gli dissi che non doveva bere così tanto, che gli faceva male al fegato. Non dava risposta, ed io continuai a ripeterglielo. Quando riprovai per la terza volta, il suo sguardo mi accecò. Era odio puro. Era pazzia, irrazionalità. Mi bloccai. Non riuscivo a muovere un muscolo. Era come se i suoi occhi mi avessero tolto ogni capacità cognitiva.

Poi la sua mano si strinse sul mio collo. Io urlai, e quel suono non lo dimenticherò. Era un lamento strozzato. La bocca di quello che era stato mio marito si apriva e richiudeva, ma io ero incapace di udire alcun suono. Il mio cervello era in pausa.

Quando mi tirò quel pugno sull’occhio, quasi non lo sentii. Subito dopo lo vidi andare in bagno e prepararsi per la notte. Io non dormii nel nostro letto, quella notte. Anzi, non dormii proprio. Il livido nero che si formò sullo zigomo sinistro mi tormentò fino alla mattina successiva.

Io non potevo crederci, ma il nostro matrimonio era finito quel giorno.

L’occhio nero sparì in quattro giorni, e lui ritornò quello di un tempo. Era gentile, simpatico, amichevole… ma io non lo vedevo più con lo stesso amore di prima.

Era come se per lui non fosse successo nulla. Mi trattava esattamente come se io fossi stata la sua cara mogliettina, che gli voleva tanto bene.

Ma non era così.

Io per certi versi ancora l’amavo, infatti riuscii a resistere per altri otto anni, grazie all’amore che mia figlia mi infondeva. Otto anni vissuti in perfetta passività. Infatti mi disse che dovevo lasciare il lavoro alla lavanderia perché non faceva per me. Io secondo le sue idee dovevo stare a casa ad accudire Gioia e gli altri nostri figli (che non nacquero mai. A sua insaputa prendevo sempre anticoncezionali. Non volevo fargli provare ancora la gioia di avere un figlio). Così mi costrinse a mollare tutto e rintanarmi a casa. Io provai a ribattere ma come risposta ricevetti uno schiaffo che mi procurò un livido. Un altro. Nello stesso posto. E ne seguirono numerosi. Non so perché, ma io sentivo ancora di amarlo, ma la mia pazienza stava volgendo al termine, ed un giorno volevo andare a denunciarlo. Avevo trovato il coraggio di fare un tale passo, e non so dove. Io sono sempre stata una donna fragile. e in quel momento ero risoluta come non mai ad andare alla polizia e raccontare tutto, volevo vederlo su un banco di tribunale ad implorare pietà, ma mentre stavo uscendo, sentii Gioia che mi chiamava. Io andai da lei, stava con il nostro cane, giù in garage.

Mi chiese se tra me e papà c’erano dei problemi.

Ditemi voi cosa avrei potuto risponderle. Aveva dodici anni, la mia piccolina, ed era così dolce mentre pettinava Birillo, tutta sorridente e agghindata con una collana di perline fatta da lei stessa. La guardai negli occhi, due sfere di cristallo così pure che le si poteva leggere dentro tutto ciò che pensava. Non riuscii a dirle la verità. Le dissi che andava tutto bene, che io e papà andavamo d’accordissimo, che non stava succedendo nulla. Le arruffai i capelli in segno d’affetto e lei mi abbracciò forte. Era così piccola che mi arrivava alla vita. Ora invece è più bassa di soli due centimetri. È cresciuta.

Purtroppo non come volevo.

All’età di undici anni Gioia iniziò le scuole medie. Partiva la mattina a prendere l’autobus e tornava a casa all’una. Io l’aspettavo e mangiavamo insieme, e lei mi raccontava dei suoi professori, dei suoi compagni, di quel ragazzo che era molto carino…

Per un anno vivemmo un periodo bellissimo, tra le chiacchierate che facevamo all’ora di pranzo. Ogni tanto uscivamo insieme alle sue amichette a fare una passeggiata al parco oppure una visita allo zoo. Quanto le piacevano gli animali! Mi ricordo come si sporgeva dal muretto per guardare all’interno della gabbia dei leoni. Io appena sentivo un ruggito mi veniva un colpo! Però a lei piaceva e per la mia bambina avrei fatto e farei qualsiasi cosa.

Era così bella e dolce che non mi stupii quando andai a prenderla a scuola e vidi che un ragazzo della sua età le diede un bacio sulla guancia. Me lo portò pure a casa, quello lì…

La nostra vita si era trasformata in pura felicità. Fino alle sette di ogni sera, quando mio marito tornava a casa dal lavoro, io mi sentivo di essere tornata indietro ai miei diciotto anni. Riuscivo ad andare avanti solo grazie all’amore che la mia Gioia mi dava.

Circa ogni sabato, quando potevamo, andavamo a trovare i miei genitori. Le piacevano tanto, anche perché la nonna cucinava sempre dei dolcetti allo zenzero che la facevano impazzire!

Ma quel sabato di aprile, un mese esatto dal suo dodicesimo compleanno, lasciò i biscotti sul piattino. Io e mia madre ci preoccupammo, le chiedemmo perché non li mangiava, la nonna li aveva preparati apposta per lei.

Rispose che non aveva fame, e andò a guardare la televisione in salotto. Pochi minuti più tardi mi chiese se potevamo andare a casa, ed io l’accontentai.

Passò del tempo ma Gioia non accennava a migliorare: le nostre chiacchierate si ridussero a dei semplici “Ciao” e “Tutto bene a scuola”. Non chiamava più i suoi amici. Portò la pagellina ed i suoi voti erano mediocri, mentre prima la sua media non scendeva sotto l’otto. Ascoltava musica da sola in camera e sempre più spesso si chiudeva in bagno. Pensai al ciclo mestruale, d’altronde aveva dodici anni, e avevo letto in qualche rivista che ci sono casi di mestruazioni che si manifestano per la prima volta anche a dieci, undici anni. Il fatto è che mentre lei era a scuola io rovistavo dappertutto, anche nei rifiuti, ma di assorbenti non ce n’era nemmeno l’ombra. Non riuscivo proprio a capire.

Io cercavo di stare con lei di pomeriggio, senza ottenere successi. La sera invece, andavo fino alle nove ad un corso di pittura, la mia passione di sempre, al quale mi ero iscritta, così alle sei mangiavamo ed alle sette uscivo. Fino al mio arrivo in pratica lasciavo Gioia con mio marito, cosa che mai avrei permesso fino a pochi mesi prima, ma un mega mazzo di rose rosse con tanto di bigliettino nel giorno del mio compleanno purtroppo mi fecero ricadere in quel tunnel. Mi ricordo che una notte siamo arrivati persino a fare di nuovo l’amore, dopo così tanti anni dall’ultima volta. E la cosa che mi fa più schifo è il fatto che mi piacque.

Quel tunnel: pieno di luce in superficie, buio come l’oblio nel profondo.

Quando tornavo stavano sul divano a guardare la tivù, tranquilli, abbracciati l’un l’altra. E lui le dava bacini di continuo.

Verso giugno (Gioia stava finendo la scuola), io ero riuscita a dipingere il giardinetto dietro casa ed era venuto molto bene! Ero così eccitata a tal cosa che volevo mostrarlo subito a mia figlia, sperando potesse piacerle. Bussai alla porta della sua cameretta, ma non ottenni risposta. Infatti si stava rilassando con un bel bagno caldo immersa nella schiuma.

Io volevo farle una sorpresa, così aprii la porta di colpo. Lei si stava alzando per uscire dalla vasca, e la vidi.

Il quadro che tenevo in mano mi cadde, le mie mani perdettero ogni sensibilità, il mondo crollò davanti a me.

La sua pelle era viola lungo una striscia che partiva da una scapola e finiva al fianco opposto. La spalla destra era nera e la pancia gonfia ai lati.

Lui la picchiava.

Il bastardo la picchiava.

Mi fissò, pi scoppiò a piangere. Corse verso di me ed io l’abbracciai, anche se era ancora coperta di schiuma. Mi strinse così forte che gemette per il dolore causato dai lividi; e lì, in piedi in mezzo al bagno abbracciate come farebbero una madre ed una figlia che da molto tempo non si incontrano, si confessò. Mi raccontò tutto.

Da mesi il bastardo abusava di lei, mentre io stavo al corso di pittura, e se lei non acconsentiva, usava la forza. La violentava. Osava deturpare la bellezza di un fiore così indifeso.

La aveva anche incatenata mentalmente: la ricattava, in un certo senso, dicendo che se avesse parlato con qualcuno di quello che lui le faceva, avrebbe fatto del male a me.

Bastardo.

Non riuscivo nemmeno ad essere indignata per lei, non potevo nemmeno piangere sapendo che la mia bambina era stata sottomessa da un mostro. Ero così risoluta ad andare dalla polizia e denunciare il tutto. La feci asciugare e vestire, ed in dieci minuti stavo raccontando all’agente la nostra storia.

In capo ad un’ora mio marito venne prelevato dal lavoro e portato in centrale. Lo interrogarono, e lui ovviamente negò tutto.

Io chiesi se ci avessero potuto mantenere (io e mia figlia) in una pensioncina in centro fino a quando la faccenda non fosse stata sistemata. La polizia acconsentì, e noi traslocammo mentre mio marito lavorava.

Quando partì il processo, il nostro avvocato (assegnatoci d’ufficio, visto che i soldi se li era tenuti tutti il bastardo) propose un confronto tra il liquido seminale trovato dopo la visita a mia figlia pochi giorni dopo la denuncia con quello del padre.

Il giudice approvò ed il risultato delle analisi fu positivo.

Quel uomo fu condannato con le imputazioni di violenza fisica e carnale e abuso di minori, inoltre non avrebbe più potuto vederci, dato che era tenuto a restare ad almeno un raggio di venti chilometri dalla casa nella quale Gioia avrebbe vissuto, sotto la minaccia di un ulteriore arresto.

L’hanno sbattuto dentro. Non ci farà più del male, ed avrà ciò che si merita.

Ora siamo qui, in una casa modesta. Prima abitavamo in un villetta, ed avevamo anche la piscina.

Ma ora siamo libere.

no dreaming non è vera la storia e spero proprio che non accada mai... non si preoccupi, niente disturbo...
  
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