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Autore: Alaska__    13/01/2015    4 recensioni
Finnick/Annie ♥
La mano destra della ragazza corse a cercare quella del ventiquattrenne, con premura, e le loro dita si intrecciarono nuovamente, come una rete da pesca. Erano nodi che nessuno avrebbe potuto strappare, nemmeno le rocce laddove l’acqua era troppo bassa, e che il sale non avrebbe mai rovinato. Il tempo non avrebbe mai consumato le loro corde, lasciando solo degli spaghi inutilizzabili che sarebbero stati ben presto gettati via.
Le loro dita erano reti da pesca, nodi ben stretti che intrappolavano i loro cuori.

[...]
«Cerca di non andare dove il cielo e il mare si incontrano, d’accordo?»
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Bimbo Cresta-Odair, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie '«Mi ha colto di sorpresa». '
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Premessa: la storia è divisa in cinque parti. Una alla vigilia dei settantaquattresimi Hunger Games, due durante Mockingjay - al Distretto 13 - e due post!Mockingjay.

 
 
Questa storia partecipa all’iniziativa “Caro Babbo Sirenetto…” indetta dal gruppo facebook The Capitol
con il prompt: Finnick/Annie - immagine.
{ Avvertimenti: rating arancione; genere a preferenza; no horror, parodia et similia. }

 
« In riva al mare coloro che si amano si prendono per mano, si sussurrano segreti e si dicono “ti amo” al cospetto dell’orizzonte, che unisce cielo e terra. »
~ Alessandro D’Avenia; “Ciò che inferno non è”
 
 
Il canto di un gabbiano che sorvolava la superficie del mare ruppe per un istante il silenzio che si era venuto a creare.
Normalmente, la spiaggia del Distretto 4 non era così tetra e cupa e, persino nelle buie sere d’inverno, il luogo era animato dal chiacchiericcio dei pescatori che tornavano a casa, da quello dei bambini che giocavano o dei giovani che semplicemente volevano ritagliarsi del tempo libero per stare tutti insieme.
Quella sera, invece, non un’anima vagava per quel luogo; nessuno osava avventurarsi in giro in quelle sere così lugubri: tutti preferivano stare a casa, passare del tempo insieme sperando che i propri figli non venissero estratti alla Mietitura del giorno dopo.
Eppure, nemmeno la tristezza di un evento tanto nefasto avrebbe mai cancellato la sublime bellezza di quel luogo al calar delle tenebre: il sole, che tramontava oltre l’orizzonte, tingeva l’acqua di vermiglio, creando dei giochi di luce che rendevano la spiaggia un luogo incantato.
Finnick amava quei momenti: per un istante, la malinconia e la paura per il giorno dopo se ne andavano.
Non che lui dovesse essere terrorizzato: in fondo erano ormai passati nove anni da quando Snow aveva posto sul suo capo la corona da Vincitore, guardandolo negli occhi con le sue iridi da serpente. Tuttavia, quel copricapo dorato non era bastato. Trionfare alla sessantacinquesima edizione degli Hunger Games era stato solo l’inizio di una nuova, lunga, orribile avventura, che si consumava nelle sere d’estate, tra un tentativo di salvare i tributi e l’altro, nelle eleganti camere delle ricche donne di Capitol City.
Al solo pensarci, il ventitreenne sentì un brivido freddo corrergli lungo la spina dorsale e strinse ancora di più le ginocchia al petto – un gesto a lui troppo familiare, quello: non erano rari i momenti in cui la marea dei suoi ricordi si faceva strada, inesorabile, nella sua mente e lui si ritrovava rannicchiato come un bambino, cercando di tenere furi tutte quelle immagini terribili che ogni notte andavano a trovarlo.
Concentrò l’attenzione sul mare, sul sole che ormai era quasi del tutto tramontato, portando via con sé anche il riflesso rosso sulla superficie acquatica.
Capitava, talvolta, che Finnick volesse immergersi in tutta quell’acqua e non uscirne mai più. Quando i ricordi si facevano troppo insistenti, quando il sangue di chi aveva ucciso e chi aveva amato e perso tornava dinnanzi ai suoi occhi, lui voleva solo andare lì e lasciarsi avvolgere dal silenzioso abbraccio degli abissi. Sarebbe diventato acqua; limpida, pura, inumana acqua. Ma Finnick sapeva che il mare, in realtà, non era del tutto inumano: lui era sempre lì, come un amico, pronto ad accoglierlo nei momenti in cui i ricordi si facevano più insistenti, in cui anche solo svegliarsi e tirarsi fuori dai suoi incubi era una sofferenza. Sogno o realtà non faceva la differenza: era tutto un incubo.
All’improvviso, qualcuno si sedette accanto a lui, facendolo sobbalzare spaventato. Si tranquillizzò solo quando i suoi occhi incontrarono quelli verdi della ragazza che aveva preso posto al suo fianco, vestita con un abito bianco – puro e immacolato come il suo animo, che non si sarebbe mai sporcato nemmeno del sangue di coloro che era stata costretta ad uccidere.
Annie gli sorrise. Era un sorriso dolce, calmo, materno; uno di quei sorrisi che Finnick vedeva ormai molto raramente, in chi gli stava intorno.
E non appena lei curvò le labbra in su, Finnick si sentì tornare a galla; i polmoni si riempirono di aria fresca, pura e buona – all’improvviso, sentiva di nuovo la voglia di vivere che gli veniva solo quando stava accanto alla giovane.
Le sue labbra risposero a quel silenzioso gesto d’affetto; un riflesso ormai condizionato. Non smise di sorridere, mentre si voltava di nuovo verso il mare silenzioso; persino quei pochi gabbiani che fino a poco prima avevano sorvolato la superficie si erano ora ammutoliti, con l’apparizione di Annie, come se anch’essi fossero rimasti folgorati da quella piccola figura bianca.
Le sue gambe si distesero. La sua mente si svuotò.
Quando stava con Annie, tutto tornava normale e si faceva più nitido. Quando stava con lei, non voleva annegare e diventare acqua marina – voleva vivere. Vivere per baciarla, toccarla, sentirla ridere o semplicemente guardarla. Avrebbe passato una vita intera, così.
Passò un minuto, forse anche di più; Finnick non ci fece caso. In riva al mare, il tempo era solo una scomoda invenzione degli umani, un modo per giustificare la notte e il giorno, il loro progressivo invecchiare e per sapersi regolare. Il tempo era solo una cosa che andava veloce, anche troppo, e che serviva anche per far capire loro quanto tempo mancava prima che tornassero a diventare sabbia, terra e mare.
Sulla spiaggia con Annie persino gli incubi se ne andavano.
Non importava se stessero in silenzio o meno, come in quel momento: a Finnick bastava. Si era reso conto di quanto contassero le piccole cose solo quando l’aveva conosciuta. Il silenzio – che prima, quando stava con qualcuno, gli pareva opprimente – con Annie non lo era, ma diventava un modo di comunicare. Sprecare troppe parole era inutile.
Passò un minuto, forse anche di più; Finnick sentì le dita di Annie infilarsi tra le sue, timidamente, con calma, con gentilezza.
Lo toccava come un oggetto di rara bellezza e di particolare fragilità; un oggetto che sarebbe caduto con un soffio di vento.
Finnick aveva passato tanto tempo credendo che fosse Annie quella fragile, quella da proteggere e da toccare come cristallo, ma in realtà era lui ad essere fatto di debole vetro. Era lui quello pieno di crepe, che, anche se incollate, restavano comunque.
Non era lui che aveva salvato Annie: era lei che aveva salvato Finnick. E lo salvava ogni giorno, con la sua semplicità, la sua voglia di vivere malgrado tutto ciò che di brutto le era capitato.
Le dita della giovane trovarono finalmente spazio in quelle del ragazzo e si strinsero. Una presa dolce e gentile, ma che per Finnick era come una scialuppa di salvataggio.
Quelle mani così piccole e delicate lo stavano riportando alla vita, giorno dopo giorno.
Le sue dita avvolsero quelle di Annie, piano, ma con vigore. Strinse la sua mano come si stringe l’orlo del precipizio quando si sta per crollare. Strinse per vivere, perché era l’unica cosa che poteva fare per stare bene.
«Non dovresti star qua tutto solo» sussurrò Annie, appoggiando il capo sulla spalla del giovane. «Ti intristisci ancora di più».
Finnick non rispose. Si limitò ad appoggiare la sua testa contro quella della ragazza, non prima di aver posato le sue labbra sui capelli castani di Annie. Il loro profumo arrivò come un’onda improvvisa: fiori e salsedine; l’odore di un dozzinale shampoo coperto dal profumo di casa sua, quello che anche nell’Arena era riuscito a sentire nei momenti più nostalgici; il profumo che gli invadeva le narici ogni volta che lui e Annie stavano vicini, baciandosi, toccandosi, facendo l’amore. Era come essere avvolti nel mare ed era una delle cose che Finnick preferiva della compagnia di Annie.
«Finnick? Tu ci pensi mai?» chiese dopo qualche istante la ragazza, parlando a bassa voce. La sua mano era ancora saldamente stretta a quella del Vincitore.
«A cosa?»
«A cosa c’è oltre quella linea». La mano libera di Annie corse ad indicare la linea dell’orizzonte, quella dove acqua e cielo diventavano un tutt’uno, si fondevano.
«Non lo so, Annie» ammise il ragazzo, fissando il punto indicato, oltre il quale il sole era appena calato, lasciando i due nella penombra della spiaggia deserta. «Credo ci siano altre terre» proseguì in un sussurro.
«Secondo me lì ci sono loro» mormorò la ragazza.
«Loro chi?» Finnick era abituato alle strane risposte di Annie, ma spesso lo lasciavano spiazzato e con ancora più interrogativi.
«I miei e i tuoi genitori. Il tuo fratellino. Tutti quelli che muoiono. Secondo me sono lì, tra cielo e mare e ci aspettano». La presa della mano di Annie si fece ancora più salda. «Quando muoiono diventano schiuma di mare, ma possono parlarci tramite questa forma solo quando c’è il vento. Me lo raccontava sempre mio papà, quando ero piccola e gli chiedevo dov’era finita mia mamma».
Ancora una volta, Finnick non seppe cosa ribattere. Spesso Annie faceva delle affermazioni strane e poco comprensibili, ma di una profondità incredibile, come se davvero credesse a ciò che stava dicendo, come se avesse avuto la conferma di tutto ciò.
«Finnick?» La giovane alzò il capo, guardando il suo interlocutore negli occhi. «Tu non andare mai là, d’accordo?»
Il ventitreenne le sorrise, scostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «D’accordo. Non andarci nemmeno tu». Avvicinò il volto a quello della giovane, toccando la sua fronte con la propria. «Non penso che potrei accettarlo» mormorò, e le sue labbra erano a pochi centimetri da quelle di Annie. Era una distanza da bacio, una di quelle che in pochi secondi si sarebbero annullate. Eppure, malgrado Finnick bramasse sentire le labbra di Annie sulle proprie, rimase immobile; i suoi occhi erano persi in quelli verdi di lei e l’odore di salsedine si era fatto più forte.
Rimasero così secondi, minuti. Il tempo, del resto, era solo una stupida convenzione inventata per comodità e a loro non serviva.
Le loro mani non si separarono mai, rimanendo strettamente ancorate l’una all’altra. Erano diventate sabbia solida, come un castello, ma l’acqua non l’avrebbe mai distrutto.
 
 
*
 
La stanza era buia e silenziosa. Quattro pareti richiudevano Finnick in quel luogo tanto oscuro e misterioso.
Era un topolino in gabbia, in uno spazio indefinito.
Dov’era? Dov’era Annie?
Le sue mani fecero per prendere quelle della ragazza, ma afferrarono solo il buio e l’aria che gravitava intorno a lui.
Finnick sentì il panico prendere possesso della sua mente, lasciandolo stordito.
Si era addormentato con lei stretta tra le braccia, ma ora era sparita e non era lì con lui.
Il suo respiro si fece più affannoso, mentre il pensiero che l’avessero rapita di nuovo e portata ancora a Capitol City gli rendeva difficile rimanere lucido.
«Annie?» chiamò a voce alta, ma l’unica cosa che rispose fu l’eco di quel semplice richiamo e il nome di Annie riecheggiò per quelle quattro pareti, rimbalzando per la stanza come una molla.
«Lei non c’è» rispose una voce da bambino.
Per un istante, il mondo di Finnick si congelò.
Non era possibile che avesse sentito quel timbro, quello che lui poche volte aveva avuto l’occasione di udire, considerato che chi lo possedeva parlava poco sovente.
«Bora?» chiese, stupito ed incredulo, mentre una punta di felicità cancellava la paura dal suo cuore. «Sei davvero tu?»
Come attirato da quel richiamo, un bambino emerse dall’oscurità. Capelli rossi, lentiggini, occhi blu come il mare: il suo fratellino era lì, davanti a lui e lo guardava.
Sembrava normale, non il ragazzino con qualche strano ritardo mentale che era stato ucciso anni prima. Era un bambino come tanti altri, quello che Finnick, nei suoi desideri di fanciullo, desiderava che fosse.
«Bora? Allora sei vivo!» esclamò contento, sentendosi tornare bambino, mentre le lacrime riempivano velocemente i suoi occhi, minacciando di scendere lungo le sue gote.
Il più piccolo della famiglia Odair sorrise – ed era un sorriso vero, quello, non quelli che raramente incurvavano le sue labbra quando era in vita, ma che sembravano sempre fatti per qualche motivo strano incomprensibile alla gente comune.
Finnick si avvicinò di un passo e Bora lo imitò, avvicinandosi a lui sempre con quel sorriso stampato in volto.
Il ventiquattrenne era felice, come non lo era mai stato in vita sua.
«Mi sei mancato tan-»
Non fece in tempo a finire la frase, perché un colpo di pistola partito da chissà dove sparò un proiettile nella tempia del suo fratellino e il suo sangue misto a materia cerebrale schizzò in tutte le direzioni, macchiando ancora di più l’anima di Finnick.
 
Finnick si svegliò di soprassalto, stringendo convulsamente le lenzuola tra le dita e boccheggiando in cerca d’aria.
Sbatté più volte le palpebre, cercando di abituarsi al buio che lo avvolgeva, ma quasi aveva paura a guardarsi intorno. Temeva che la figura di Bora comparisse di nuovo davanti a lui, sanguinante e morente, proprio come nell’incubo.
Un mugolio proveniente dal suo fianco gli fece intuire che Annie fosse già sveglia e che avesse sentito il piccolo urlo che era fuoriuscito dalle sue labbra nel momento in cui si era messo a sedere.
«Finnick…» mugolò infatti la ragazza.
Il ventiquattrenne si voltò verso di lei, ansimando, ma sforzandosi di sorridere per calmarla.
«Va tutto bene» mormorò, scostandole una ciocca di capelli che le era finita davanti al volto, ma la sua voce tremante e più stridula faceva intuire che stava mentendo.
«No». La ragazza si mise a sedere, scrutandolo con i suoi occhi verdemare che parvero riportare Finnick alla realtà. Gli circondò la vita con le braccia, continuando a fissarlo.
Il Vincitore passò un braccio attorno ai fianchi della sua fidanzata, stringendola a sé con dolcezza.
Gli bastava.
Non aveva bisogno di grandi parole per calmarsi dopo un incubo. Le braccia di Annie intorno alla sua vita, i suoi occhi che lo salvavano ogni giorno e il suo sorriso bastavano. Era il miglior sedativo che potesse desiderare – ancora meglio dei calmanti che gli avevano dato nei giorni precedenti, quando lei era lontana e lui stava, lentamente, scendendo nell’antro della pazzia che solo per miracolo non aveva attanagliato la sua mente negli anni prima.
Il respiro regolare di Annie parve avere degli effetti guaritivi, perché, pian piano, anche quello di Finnick divenne normale e la paura che prima gli aveva fatto stringere lo stomaco in una morsa era diminuita; il suo unico sintomo era un leggero tremore, ma Finnick era certo che sarebbe passato anch’esso.
Senza dir nulla, Annie lo spinse delicatamente verso il materasso, facendolo sdraiare accanto a lei.
Finnick affondò il capo nel cuscino; i suoi occhi erano ancora persi in quelli di Annie. Spesso gli era stato detto che le iridi color verdemare della ragazza fossero identiche alle sue ed era vero – dal punto di vista del colore, almeno. La luce che si leggeva in essi, però, era diversa da quella degli occhi del Vincitore dei sessantacinquesimi Hunger Games; Finnick lo notava ogni giorno, più il tempo passava. Annie aveva gli occhi limpidi di chi ancora spera che arrivino giorni migliori; era una luce spensierata che si spegneva solo nei momenti in cui le voci nella sua testa si facevano troppo insistenti. Le sue iridi erano ancore di salvezza; scialuppe di salvataggio che aiutavano Finnick ad uscire, strisciando, dai suoi incubi.
La mano destra della ragazza corse a cercare quella del ventiquattrenne, con premura, e le loro dita si intrecciarono nuovamente, come una rete da pesca. Erano nodi che nessuno avrebbe potuto strappare, nemmeno le rocce laddove l’acqua era troppo bassa, e che il sale non avrebbe mai rovinato. Il tempo non avrebbe mai consumato le loro corde, lasciando solo degli spaghi inutilizzabili che sarebbero stati ben presto gettati via.
Le loro dita erano reti da pesca, nodi ben stretti che intrappolavano i loro cuori.
«Ho sognato Bora» esordì Finnick, parlando a voce bassa, quasi temesse che quella cosa potesse fargli tornare di nuovo la paura di poco prima. Annie si limitò a guardarlo; gli occhi verdemare tradivano appena la sua preoccupazione.
«Era vivo» proseguì il ragazzo, «e normale. Mi ha parlato. Mi guardava negli occhi. E si stava avvicinando a me, ma poi…» lasciò la frase in sospeso, senza più la forza di continuare a parlare. Ogni vocabolo era una pugnalata al cuore; gelido metallo che lo attraversava senza ritegno, facendogli sentire brividi freddi lungo il corpo. Sentiva l’acqua che stava andando a prenderlo, trascinandolo nell’abisso del suo dolore e dei ricordi troppo amari, ma la mano di Annie era ancora lì, nella sua, per tenerlo a galla.
Deglutì nervosamente, continuando a guardare la ragazza negli occhi: quel contatto visivo era l’unica cosa, insieme alle loro dita intrecciate, che gli impediva di colare a picco.
«Poi gli hanno sparato alla tempia. E c’era sangue, e cervella… e il suo corpo, i suoi occhi che non la smettevano di fissarmi». Sentì l’ansia tornare e strinse convulsamente le dita di Annie, mordendosi il labbro inferiore per impedire alle lacrime che gli avevano inumidito gli occhi di sgorgare.
«Sssh… va tutto bene». Annie si fece più vicina, interrompendo il contatto delle loro dita per stringerlo a sé. «Va tutto bene, tutto bene» ripeté, e le sue mani si intrecciarono, questa volta, agli scompigliati capelli color bronzo del ragazzo.
Finnick strinse le braccia attorno alla vita di Annie e, con il viso ben nascosto nell’incavo del suo collo, scoppiò a piangere. Lasciò che le lacrime salate come l’acqua del mare che tanto amava gli inondassero le guance, facendo intuire la tempesta che si stava consumando dentro di lui.
«Stai bene, Finnick. È tutto okay. Siamo qui, io e te, insieme. Adesso passa tutto» continuava a mormorare lei. «Bora ti aspetta dove il cielo incontra il mare. È lì, sta bene».
Finnick si aggrappò con ancora più forza alla giovane, lasciando che le lacrime smettessero di scendere da sole, come se la voce di Annie le stesse facendo frenare nella loro corsa.
E anche lui, lentamente, lasciò andare l’immagine di suo fratello con il cranio forato da una pallottola, sentendosi più tranquillo man mano che la ragazza parlava.
Respirò profondamente. Quando era piccolo, nei momenti in cui era molto triste o spaventato, sua madre gli diceva sempre di concentrarsi su immagini belle; di immaginare di essere altrove, di creare una sorta di film mentale. Il mare calmo al calare della sera. La spiaggia silenziosa. Il sole che scaldava il Distretto 4 con i suoi raggi. I momenti in cui andava in barca con suo papà. Quando ci provava, Finnick si concentrava sempre su uno di questi momenti belli. Immaginava di essere nel mare e fare il bagno o di correre sulla spiaggia insieme ai suoi amici. Veloce com’era arrivata, la paura se ne andava, lasciandolo tranquillo – e leggermente intontito. Negli anni, aveva imparato che quello era un buon metodo, ma sognare troppo gli faceva perdere il contatto con la realtà.
Troppi sogni inducevano in overdose di fantasia.
Eppure, Finnick bramava quella cosa. Sarebbe volentieri morto in quel mare di sogni e desideri, specialmente dopo la Vittoria agli Hunger Games, dopo che tutto ciò che aveva gli era stato strappato via brutalmente, senza curarsi di ciò che provava.
«Annie?» Quando si fu calmato del tutto, si staccò dalla ragazza, sciogliendo appena l’abbraccio e tornando ad appoggiare il capo sul cuscino. «Sono contento che tu sia qua» ammise con un sorriso; le sue mani erano ancora posate sui fianchi della giovane. «Senza di te sarei annegato».
La giovane gli rivolse un’occhiata furbetta, posandogli l’indice della mano destra sulle labbra, per non farlo parlare.
«Ascolta il silenzio» sussurrò, togliendo il dito dalla bocca del ragazzo.
Finnick aggrottò la fronte, dubbioso. Era un ossimoro bello e buono, quello: cosa doveva ascoltare, nel silenzio? Gli aveva sempre fatto paura, quella sensazione di vuoto che provava quando non c’era neanche un rumore accanto a lui. Era sempre abituato ad essere circondato dai suoni: il verso dei gabbiani, le onde che si infrangevano contro gli scogli, il chiacchierare dei suoi genitori in cucina, le voci concitate dei pescatori che tornavano dal lavoro, il suono delle barche che rientravano al porto. Troppo silenzio lo spaventava, lo faceva sentire troppo piccolo per quel mondo anche fin troppo grande.
«Ascoltalo e basta» mormorò Annie, notando il suo sguardo dubbioso. «Spesso parla più lui che tutti gli altri rumori. Se c’è silenzio, puoi riempirlo con quello che vuoi tu».
Lo fece veramente, Finnick. Con il capo posato sul cuscino, gli occhi persi in quelli di Annie e le dita che si erano ancora intrecciate alle sue, provò a riempire quel vuoto con qualcosa. La voce dei suoi genitori, che gli mancava ogni giorno di più. Le onde che si infrangevano contro gli scogli. La voce del suo migliore amico lontano, che gli rispondeva a qualche battuta stupida. Il canto di Annie, quando la portava sulla spiaggia e lei intonava un motivetto allegro mentre passeggiavano.
E quei suoni – così lontani eppure così vicini – riuscirono, ancora a salvarlo. Era la prova che Annie, ogni giorno, riusciva a curarlo.
Lentamente, senza avvertirla, Finnick si avvicinò al suo volto e ben presto le sue labbra incontrarono quelle di lei.
Fu un bacio casto, a fior di labbra, che ben presto divenne qualcosa di più. Le loro labbra si trasformarono in onde di maremoto; uragano che spazzava via tutto il dolore e lasciava spazio solo ai più rosei sentimenti che entrambi potevano provare l’uno per l’altra.
E anche allora, la mano di Finnick scivolò in quella di Annie, creando un intreccio delle loro dita. Erano nodi di una rete che nessuno avrebbe spezzato.
 
 
*
 
«Devi proprio andare?»
La voce di Annie arrivò come uno schiaffo alle sue orecchie, mentre terminava di allacciarsi la cintura.
Aveva cercato di alzarsi nel modo più silenzioso possibile; non era pronto ad affrontare un addio. Si era convinto – con vani tentativi – che quello non lo era davvero. In fondo, nessuno gli aveva detto che sarebbe morto, in quella missione. Eppure, non era pronto a guardare gli occhi preoccupati di Annie, leggere tutta la sua paura in quelle iridi che tanto amava.
Si voltò verso di lei. La giovane era seduta sul letto, con solo un lenzuolo a coprirle il corpo nudo.
Finnick arrossì leggermente, facendo un mezzo sorriso. Quando si trattava di stare con altre donne, non era mai stato così timido – del resto, il suo lavoro richiedeva che fosse il più seducente possibile – ma con lei non poteva fare a meno di provare uno strano senso di pudicizia, come se temesse di violarla anche solo con uno sguardo.
Era bellissima. Aveva i capelli arruffati, lo sguardo triste e la luce debole della stanza le donava una sfumatura un po’giallastra sulla pelle, ma anche in quella situazione Annie sembrava un essere ultraterreno, venuto dagli abissi solo per impedirgli di colare a picco.
«Sì, Annie» rispose il giovane, avvicinandosi al letto. Si sedette accanto a lei, intrecciando le proprie dita a quelle della ragazza.
«Potresti stare qui» tentò di convincerlo Annie debolmente.
Finnick le sorrise, stringendo ancora di più la sua mano. «Devo andare, lo sai. Dopo questa missione, potremo tornare al Distretto 4. Staremo lì, io e te e finalmente potremo goderci il nostro matrimonio». Le carezzò piano una guancia. Al sentire la parola “matrimonio” gli occhi di Annie assunsero una luce nuova, quella che ormai da qualche giorno brillava nelle sue iridi verdemare ogni volta che si accennava al fatto che fossero diventati marito e moglie.
«Mi mancherai» bofonchiò poi, rimettendo il broncio di poco prima.
Finnick fece una risata, gettando indietro il capo. Era una delle caratteristiche che amava di più di Annie: spesso sembrava tornare davvero bambina, come se qualcuno si fosse divertito a spostare le lancette della sua vita. Eppure, quando si arrabbiava non era mai esplosiva, si limitava a mettere quell’adorabile broncio che Finnick amava tanto.
«Torno presto, okay?» Si sporse in avanti per darle un ultimo bacio, prima di alzarsi con le dita ancora intrecciate a quelle della giovane.
«Stai attento» mormorò lei, mentre le loro mani si lasciavano. I nodi si erano rotti, ma qualcosa di invisibile pareva tenerli ancora insieme.
«Lo sono sempre». Finnick fece un mezzo sorriso, avviandosi verso la porta, prima che la voce di Annie lo richiamasse.
«Finnick!»
Si voltò, con la mano pronta a premere il pulsante per aprire la porta. Annie lo guardava, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Cerca di non andare dove il cielo e il mare si incontrano, d’accordo?»
«D’accordo» premette il pulsante, finalmente, anche se quel semplice gesto gli richiese uno sforzo immenso. Le sue certezze sembrarono crollare, dinnanzi al volto spaventato di Annie, che si rasserenò solo al sentire la sua ultima parola.
Se fosse dipeso da lui, sarebbe rimasto lì, con lei, nel letto. Si sarebbero baciati, avrebbero fatto l’amore o semplicemente avrebbero parlato o si sarebbero tenuti per mano. Sembrava una prospettiva di vita bellissima, quella, ma la vita vera lo stava chiamando a sé con insistenza. Doveva andare. Doveva farlo anche per Annie.
«Ti amo tanto!» esclamò, uscendo dalla porta e rivolgendole un ultimo sguardo.
Fece appena in tempo a sentire la sua risposta - «anch’io» - prima che ciò che un tempo li aveva esclusi dal mondo esterno e da occhi indiscreti li dividesse.
Sospirò e i suoi occhi corsero a guardare la mano che fino a poco tempo prima aveva stretto quella di Annie.
Sentiva ancora le loro dita intrecciate; i loro nodi erano ancora saldi.
Ancora per poco.
 
*
 
La linea dell’orizzonte non sembrava poi tanto distante.
Annie camminava nell’acqua, che ormai le arrivava alla vita. Il vestito le si era appiccicato addosso e il vento le spostava i capelli davanti agli occhi, facendoli aderire al volto bagnato di lacrime, ma poco le importava. Ciò che contava era solo raggiungere l’unione di mare e cielo dove Finnick – il suo Finnick, l’unico nodo che la teneva ancorata alla vita – la aspettava.
Arrivo, Finnick, arrivo.
Se lo ripeteva da ormai mezz’ora, da quando le voci nella sua testa si erano fatte troppo insistenti e il desiderio di correre dal suo vero amore era troppo seducente per resistervi. Se lo ripeteva da quando, quella notte, aveva sognato lui, ancora una volta, bello e giovane com’era stato in vita, prima che un ibrido gli staccasse la testa.
Me lo avevi promesso, Finnick. Mi dicesti che non saresti andato dove il mare e il cielo si incontrano, eppure mentivi.
Un singhiozzo le sconquassò il petto, facendola abbassare di poco con il busto, mentre i capelli le coprivano il volto come una tendina, rendendo invisibili al mondo le lacrime che cadevano sulla superficie del mare.
Le sue mani corsero in acqua, la afferrarono, la presero, ma essa scivolava via; si infilava tra le sue dita, le bagnava e poi andava, come aveva fatto Finnick, come avevano fatto tutti coloro che lei amava.
Eppure, Annie insisteva. Cercava di prendere l’acqua, perché sapeva che era lì che si nascondeva lui; era lì che era andato dopo la sua morte.
Finnick era diventato acqua marina, bianca spuma che sormontava le onde. Era il vento che le sussurrava nelle orecchie, era il fondale sabbioso nel quale i suoi piedi affondavano.
Era lì, Finnick.
Era dappertutto. Poteva sentire ancora la sua risata. Il suo sorriso si nascondeva nelle nuvole plumbee del cielo.
Torna da me, Finnick. Torna perché non ce la faccio più. Il mare è troppo grande e io sono così infinitamente piccola, insignificante come una formica, senza di te. Ho paura, Finnick. Ogni notte mi addormento e sento la tua assenza. Sento le tue dita intrecciate alle mie.
Quei nodi che li univano si erano distrutti. Il mare, il sale li aveva consumati fino a farli completamente sparire.
Le mani di Finnick erano diventate acqua. L’avevano toccata e poi erano scivolate via, lasciandola sola, fradicia e distrutta. Finnick era stato un uragano, vento forte che l’aveva sollevata dalle sue ceneri, per poi farle ricadere dopo la sua morte, sparse. Anche le ceneri potevano avere significato, se lasciate insieme: quelle di un morto, rappresentavano una vita compiuta, erano segnale che prima erano state una persona. Ma quando si spargevano, cos’erano, se non dei granelli trasportati dal vento?
Era così, Annie: una minuscolo granello di cenere. Gli Hunger Games l’avevano bruciata, Finnick l’aveva sollevata, tenendola insieme; infine, Annie era ricaduta, spargendosi in mille, insignificanti, piccoli pezzetti che nessuno poteva più aggiustare.
Le lacrime non accennavano a voler smettere e lei si era fermata in mezzo all’acqua, per farle placare almeno un po’. Non poteva raggiungere Finnick in quelle condizioni: voleva che la ritrovasse come l’aveva lasciata.
Adesso arrivo, Finnick. Manca poco.
Il mare aveva iniziato a tingersi di rosso. Il colore del sole che tramontava, il colore del sangue.
E, per un istante, quella sfumatura sembrò quella del sangue di colui che aveva amato, ed Annie non poté trattenere un altro singulto spaventato.
«No, no, via, via!» strillò, tirando una manata all’acqua. Odiava il rosso. Lo aveva sempre odiato, da quando aveva visto la testa del suo compagno di Distretto volare via dal suo corpo. La morte di Finnick non aveva fatto altro che aumentare quell’odio.
«Finnick, vieni a salvarmi…».
Povera, pazza, piccola Annie.
Si odiava.
Detestava quella sua debolezza, le voci che sentiva nella testa. Voleva essere forte, lei. Voleva essere come Finnick.
Corse fino a riva, sentendo che quel rosso iniziava a farle venire la nausea. L’acqua le impediva di compiere movimenti veloci, così come la sua pancia che ormai cresceva a vista d’occhio.
Era l’ultimo regalo di Finnick, quello: un seme nel suo ventre, che stava germogliando e dava frutto. Ma più il tempo passava, più Annie aveva paura. Non riusciva a badare a se stessa, come avrebbe fatto con un bambino? Perché Finnick l’aveva abbandonata così? Perché non era rimasto con lei? Perché non aveva ascoltato le sue preghiere, quella mattina in cui era partito alla volta di Capitol City?
Si lasciò ricadere sulla spiaggia bagnata; le lacrime continuavano a scendere come un torrente in piena, calde, salate, implacabili.
E quel sale, seppur in minima quantità, parve risvegliare quelle ferite che non ne volevano sapere di rimarginarsi.
Bruciavano.
Bruciavano ancora più del fuoco, facendo ardere la sua anima di dolore.
Ogni volta che guardava il mare, ogni volta che ci rivedeva Finnick, malgrado non fosse immersa in acqua, tutto quel sale racchiuso nell’enorme distesa blu scuro pareva ricadere sulla sua pelle, facendola sentire ancora più sconfitta, distrutta, devastata. Aveva rotto tutti i suoi nodi, quelli che la tenevano in bilico tra la pazzia e la lucidità, tra la voglia di vivere e quella di morire.
Ogni volta che i suoi occhi incontravano il mare, era come se percepisse Finnick. Era la sua figura, il suo ricordo a gettare tutto quel sale sulla sua anima aperta come una ferita.
Le ferite fisiche, però, si risanavano. Quella, invece, non accennava a voler guarire.
E faceva male. Da morire.
Annie portò le mani alle orecchie e premette, cercando di far scappare tutte quelle voci. Premette fino a farsi male, fino a che nessun suono proveniente dall’esterno la raggiunse.
Smettila di gettare tutto questo sale, Finnick.
Fa male.
Brucia e mi sta uccidendo.
Ogni giorno mi porta verso l’abisso.
Poi, come arrivato dal nulla, lo sentì.
Un piccolo, innocuo movimento nel suo grembo.
Lì per lì, Annie urlò spaventata, togliendo le mani dalle orecchie.
Durò solo un attimo: al secondo calcetto, sentì una strana calma invaderla e le mani, lentamente, si staccarono dalle orecchie per essere posate laddove un rigonfiamento faceva intuire che il seme stava dando frutto.
Lui era lì. Maschio o femmina, non importava. Le stava parlando. Le stava dicendo che esisteva, che era vivo.
Le stava dicendo che Finnick, forse, non era del tutto morto.
 
 
*
 
Il canto di un gabbiano risuonò nell’aria silenziosa e calda della spiaggia, rompendo il silenzio quasi magico che l’aveva avvolta non appena il sole aveva cominciato la sua parabola discendente oltre la linea che univa mare e cielo.
Seduta sulla sabbia umida, le gambe strette al petto, una donna dai lunghi capelli castani osservava la vittoria della notte sul giorno.
Era uno spettacolo che non smetteva mai di seguire: ogni giorno, alla stessa ora, chiunque passava per la spiaggia, trovava Annie Cresta nella stessa, identica posizione della sera prima; i suoi occhi erano sempre rivolti all’orizzonte e in volto aveva stampato un sorriso quasi estatico.
Poco importava alla donna degli sguardi strani che la gente le rivolgeva: lei stava già avendo un appuntamento molto importante con suo marito.
Guardare la linea dell’orizzonte glielo faceva sentire più vicino; quando poi tirava vento e le onde si alzavano, Annie era doppiamente felice e spesso amava correre in acqua per sentire la spuma addosso alla pelle e poterlo salutare.
Purtroppo, quella sera Eolo aveva pensato bene di andare in vacanza, poiché il mare era perfettamente piatto e la schiuma di mare in cui risiedevano le anime dei morti non si vedeva.
Senza dire una sola parola, un ragazzo sui quindici anni le si sedette accanto.
Era una cosa comune, ai due; Annie gli aveva insegnato che i silenzi potevano essere ascoltati: bastava inserirci il suono che si preferiva.
Glielo aveva insegnato come aveva fatto, anni prima, con suo padre, una sera nella loro stanza al Distretto 13.
«Dovresti dirmelo quando vieni qua da sola» esordì il giovane, dopo qualche minuto. Si era seduto esattamente come si sedeva suo padre: con le gambe al petto, il collo un po’ incassato e le braccia che abbracciavano le ginocchia. Era un gesto tanto simile a quello di Finnick, che Annie non poté fare a meno di sentire la nostalgia invaderle l’animo.
«Io non sono da sola, Finnick. Fisicamente, sì, ma solo fisicamente» rispose la donna, voltandosi verso il figlio e incurvando le labbra in un sorrisetto.
Il ragazzo aggrottò la fronte. «Cosa intendi?»
«Guarda quella linea». Annie indicò l’orizzonte con un dito. «Là, dove cielo e mare diventano un tutt’uno, ci sono le anime di coloro che abbiamo perso. Ci aspettano. È lì che risiedono quando non sono schiuma di mare. E quando c’è il vento, loro arrivano qua e ci parlano».
L’espressione di Finnick era passata  dal dubbioso al triste, mentre i suoi occhi verdemare scandagliavano l’orizzonte.
Vederlo era come vedere suo padre; Annie non poteva fare a meno di pensarlo quando posava lo sguardo sul suo figlioletto ormai sulla strada per diventare uomo. Non solo gli occhi, ma anche i capelli color bronzo, il sorriso un po’ da spaccone e i modi di fare erano identici a quelli di Finnick Senior.
D’altronde, Annie lo sapeva che suo marito non l’avrebbe mai lasciata.
«E papà cosa ti dice?»
Annie fece un sorriso stanco. «Nulla, a dire il vero. Non parlano nel vero senso del termine. La schiuma testimonia che loro ci sono. Quando loro vengono qua, vogliono solo farci sapere che, malgrado il loro corpo abbia cessato di vivere, la loro anima c’è ancora». Allungò un braccio verso la fronte di Finnick, scostandogli i capelli. «Un giorno o l’altro, anche io e te andremo là. E tu, finalmente, potrai conoscere papà. Potrete nuotare insieme. Giocare. Ridere. Sono sicura che sareste andati d’accordo».
Finnick non disse niente. Si limitò a sorriderle, per poi girarsi ad osservare l’orizzonte e il sole che calava.
Annie fece lo stesso. L’acqua era diventata rossa, ma non le faceva paura quel colore tanto simile al sangue. Non più, ormai. Non ora che suo figlio era accanto a lei e calmava quando le voci nella sua testa diventavano delle urla, o quando cercava di placare i suoi incubi.
Guardare il mare non faceva nemmeno più male. La ferita, forse, non si sarebbe mai rigenerata. La sua anima sarebbe per sempre stata divisa in due, ma ormai si era abituata al bruciore del sale gettato su quel taglio ancora aperto.
Pian piano, all’improvviso, sentì la mano di suo figlio scivolare nella sua. Le loro dita si incontrarono, si intrecciarono, crearono dei nodi – una rete che mai, mai si sarebbe spezzata.
E dal nulla, sembrò che un’altra mano calasse sulle loro.
In fondo, la rete invincibile delle dita di Annie e Finnick non si era mai rotta del tutto: i nodi si erano solamente allentati e, prima o poi, si sarebbero stretti, nuovamente.
E allora non si sarebbero lasciati mai più.
 
« Mi insegni a nuotare, Donpino? »
« Sei sicura? Non è che poi hai paura? »
« Se ci sei tu no. E poi voglio andare là dietro. »
« Là dietro dove? »
« Là, dove c’è quella linea. »
« Quale? »
« Quella dove il mare tocca il cielo. »
« E perché ci vuoi andare? »
« Perché là dietro ci sono un sacco di cose, e anche papà. E secondo me ci vanno tutti i treni. »
~ Alessandro D’Avenia; “Ciò che inferno non è”


 

Alaska's corner

*si prepara a ricevere qualche pomodoro in faccia*
I don’t know. So solo che ieri questa storia mi piaceva e oggi un po’ meno, come sempre.
Era da tanto che volevo scrivere un’Odesta perché era da parecchio che non ne stendevo una, e finalmente grazie all’iniziativa di The Capitol ho potuto farlo! Ringrazio, quindi, chi ha promptato la bellissima immagine che ho linkato lì in altro perché mi ha ispirata molto ♥
Partendo dal principio, questa OS me l’ha ispirata molto il bellissimo e nuovo libro di Alessandro D’Avenia – Ciò che inferno non è – di cui consiglio la lettura a tutti perché l’ho trovato davvero interessante e commovente. Le due citazioni che ho inserito mi sembravano molto “da Distretto 4” e quindi mi hanno ispirata non poco. Ammetto che, in realtà, il dialogo alla fine mi ha ispirata molto anche per un altro mio personaggio del Distretto 6 che, come la bambina, ha perso il padre – visto che si parla di treni, eravamo in tema – però ho voluto anche inserirla qua.
Spero che Finnick e Annie non vi siano sembrati OOC. Purtroppo, con il punto di vista unico di quella babbiona di Katniss, non possiamo conoscere molto bene il vero carattere di tutti i personaggi, per cui mi sono basata più o meno su quello che c’è scritto e su come mi immagino io Finnick e Annie. Lui, in particolare, ho voluto mostrarlo nel suo lato più vulnerabile: in fondo, in Mockingjay, Beetee dice che se Katniss avesse saputo cosa Finnick aveva passato, avrebbe capito che era già un miracolo il fatto che fosse ancora vivo. [ Pagina 76 de “Il canto della rivolta” – qui ho riassunto xD ]
Quindi, ecco, ho voluto inserire proprio il suo lato “debole” per mostrarlo nei momenti in cui lui è un po’ più vulnerabile.
La cosa delle dita e della rete non so come mi sia venuta. xD Siccome il fulcro centrale è, appunto, l’intreccio delle dita – come nell’immagine – ho fatto un collegamento strano. Dita: intreccio = rete: Distretto 4. [ Odio la matematica ewe ]
Poi, avete notato che l’immagine si può vedere dal sotto in su? Ecco, il perché della scena prima che Finnick parta e di quella di Annie che lo cerca nel mare.
La cosa della schiuma è una “leggenda” che ho già inserito in altre mie storie sul 4, risalenti all’anno scorso. Mi sono basata sulla fiaba della Sirenetta, nella quale la protagonista, una volta morta, diventa schiuma di mare. E quindi ho collegato il tutto con la frase del libro D’Avenia – quei pensieri mi sembravano anche molto “da Annie”.
Così come la cosa dell’ascoltare il silenzio. xD
La cosa dell’immaginare delle situazioni belle di Finnick l’ho ripresa un po’ dalla mia vita: quando sono triste, ho paura o sono incazzata mi immagino qualcosa di bello, e poi un po’ mi passa. Fatelo, funziona xD
La quarta scena non ha tutto l’angst che volevo, ma dettagli :/ Immagino che Annie dopo la morte di Finnick abbia avuto una ricaduta e spesso abbia delle crisi più forti – in fondo, non aveva più il suo amore a difenderla.
L’ultima scena l’ho messa perché volevo fare una cosa “simmetrica” e chiudere il tutto con una scena simile all’inizio. E anche perché volevo inserire Finnick Junior *///* Siccome ho molta fantasia, l’ho chiamato come suo padre. No, vabbè, a parte agli scherzi, credo che sia molto da Annie, in fondo Finnick era il fulcro della sua vita. E poi io ho un headcanon tutto strano, secondo me Annie vedeva la nascita del bimbo come un segno che Finnick era ancora lì.
Niente, faccio che vi lascio la sua faccia, così vi mostro chi è il Bimbo Cresta-Odair: Finnick Odair Junior.
Ah, a tal proposito, lo so che la Annie del banner non è Stef Dawson, ma io non riesco proprio ad immaginarla come lei. Nel libro è castana con gli occhi verdi çwç Come Astrid *O* Sì, nemmeno Finnick Junior assomiglia a Sam Claflin aka Finnick, però so che era stato provinato per il ruolo di suo padre (?) e in effetti assomiglia un po’ a come mi immaginavo il Sirenetto mentre leggevo.
Vi lascio stare.
Qui c’è la mia pagina facebook: click.
Alla prossima e spero vi sia piaciuta – spero anche di aver fillato bene il prompt :*
Alaska. ~

 
   
 
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