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Autore: Silvar tales    15/01/2015    3 recensioni
Qui segue il racconto di Thranduil e Filigod.

Un piccolo tentativo di conciliare film e canone tolkieniano.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bosco Tetro








Gli uomini che vivevano presso i confini di Boscoverde avevano preso a chiamarlo Bosco Atro, e così ormai lo chiamavano anche gli Elfi di Imladris, e i Nani dei Colli Ferrosi, e tutte le genti che vivevano limitrofe. La Foresta si era imbrunita, i lupi erano diventati cattivi e pericolosi, i cervi inquieti e sospettosi: gli alberi cominciavano ad ammalarsi, e le liane, le edere e i rovi prolificavano, corrodendo i loro tronchi e mordicchiando le loro radici.
Ma nessuno dimenticava il tempo in cui Eryn Galen era un grande cupola dorata. Il tempo in cui la notte, un viaggiatore discreto e solitario, se faceva silenzio e avanzava rispettoso, e se era molto fortunato, poteva scorgere la Dama della Luna, vestita del colore remoto delle stelle, ritta in piedi su un'altura come uno spettro nel buio, oppure errante nel folto della Selva: un fruscio di vesti argentate che scivolava tra gli alberi come fosse il lucido manto di una cerva in fuga.
Ora non più. Ora le sue vesti si sarebbero lacerate se ella avesse camminato fuori dal sentiero, poiché il sottobosco era divenuto un intrico di rovi.
I giorni in cui i signori di Eryn Galen camminavano attraverso Boscoverde erano ormai trascorsi. Thranduil si era chiuso nella sua roccaforte sotterranea, e creature malvagie ora bazzicavano per la Foresta, di notte come di giorno. La Via Silvana, nata da poco, fu abbandonata, poiché nessun comune pellegrino o mercante si recava più a Est di Bosco Atro passandovi attraverso. Di rado veniva battuta dalle pattuglie di Re Thranduil, le quali divenivano sempre più sparute.
Gli Elfi Silvani erano divenuti indifferenti.

Dopo la nascita di Legolas, Filigod e Thranduil si concessero più momenti di intimità, e spesso si permettevano di abbandonare la Sala del Trono per passare del tempo nelle ampie camere regali.
A Filigod piaceva avere Legolas accanto, adagiato nella sua culla di quercia bianca, e a Legolas piaceva guardare i propri genitori. Thranduil spesso faceva accomodare la sua dama davanti a uno specchio, poi le pettinava i capelli, e a volte la pettinava per un'ora senza interrompersi, non perché avesse bisogno di districarli o acconciarli in forme eleganti, ma perché gli piaceva immergere le mani e il pettine in osso tra le sue ciocche bionde, gli piaceva sentire il suo profumo, gli piaceva sentirla ridere quando le solleticava il collo e le orecchie. Quando Filigod rideva, anche Legolas rideva, e Thranduil sorrideva soltanto, ed erano quelli i momenti in cui il cuore gli doleva per la troppa gioia.
«Dovresti andare a parlare con Thrór. La tua fiera bellezza riuscirebbe persino a commuovere il duro animo di un Nano. Posseggono Gemme Bianche, Filigod, Gemme di Lasgalen, una sola di esse incastonata nell'albero più alto della Foresta potrebbe far brillare tutta quanta Eryn Galen di una nuova luce. Pura luce stellare, la luce che pure un tempo si rifletteva nei tuoi occhi, sotto il cielo notturno delle perdute terre occidentali.
Tu devi sapere, che io vedrei bene quella luce splendere attorno al tuo collo».
«È un dono, ciò di cui vai parlando?» Chiese lei, volgendosi a guardarlo.
«Un dono che un Re vorrebbe offrire alla sua Regina, ch'ella gliene ha già dati tanti».
E mentre diceva queste parole, le toccò la pancia, e al tempo stesso volse lo sguardo verso Legolas, che si era addormentato in serenità.
Ed ella sorrise, radiosa.

In questi tempi in cui la decadenza di Eryn Galen era al principio, un giorno, uno dei cervi di dama Ithilglîn, giovane e inesperto del mondo, fuggì dalle Sale della Luna attraverso il tracciato di uno dei tanti torrenti sotterranei. Ella se ne avvide due notti dopo, e subito si disperò, poiché la bestia era l'ultima di una nobile stirpe di Cervi Bianchi delle Grotte, creature nate all'interno della Cintura di Melian, e da Yavanna stessa concepite. La femmina-madre oramai era vecchia, e non avrebbe avuto altre gestazioni.
Non appena seppe della fuga, Filigod tornò di corsa nella camera che condivideva con il Re suo marito, e indossò in fretta una veste d'argento con un corpetto di cuoio chiaro, ornato da ricami bianchi. Era un abito da viaggio, non particolarmente appariscente né elegante, consono a muoversi con agio tra le insidie del sottobosco.
Thranduil si destò, scostò da una parte le sontuose lenzuola di seta che lo coprivano e si levò dal letto.
«Dove stai andando, mia Filigod? Così equipaggiata, come dovessi intraprendere un lungo viaggio?»
«Nella foresta. L'ultimo figlio della cerva è fuggito dalle Sale della Luna, devo ritrovarlo, a tutti i costi».
A sentire quelle parole, Thranduil venne verso di lei, e la prese per le spalle, con garbo, anche se avrebbe voluto usare tutte le forze di cui disponeva pur di trattenerla. Quando parlò, la sua voce suonava incrinata dalla paura.
«Non puoi, la foresta è colma di insidie, e inganni, e pericoli! Non posso permetterlo, Filigod». Preso da angoscia, le toccò la pancia, nella quale il loro secondo figlio cresceva.
Percepiva il calore della vita anche attraverso la pelle e la stoffa, e tempo qualche mese sarebbe nato un bambino, il secondogenito del Reame Boscoso.
«In gioventù a lungo ho vagato in solitudine per le selve, più avventata e più ingenua di quanto lo sono ora. Questo è il mio regno, e la tenebra non mi spaventa: stanotte è luna piena, e le stelle brillano in cielo. Oh mio Thranduil, dimentichi i giorni in cui insieme miravamo le stelle? Soli e indifesi, poco più che bambini eravamo, eppure il mondo di fuori non ci atterriva. Perché invecchiando, ora, la paura ci frena?»
«Perché questi luoghi non hanno nome di Doriath. Perché nessuna Maia protegge i confini di questa Foresta. Perché i giorni che tu rimembri furono possibili in tempi e luoghi che ora giacciono entrambi sul fondo del mare».
Il suo sguardo era divenuto duro e severo, e dentro i suoi occhi Filigod leggeva un’immane nostalgia e una tetra rassegnazione, una luce oramai divenuta opaca. Si liberò dalla sua stretta, e rispose con fierezza: «comunque il cervo deve fare ritorno. Andrò».
Thranduil capì che non c’era modo di andare contro la sua volontà, e costringerla con la forza a restare era un affronto alla sua fierezza, alla sua intelligenza e alla sua indipendenza. Egli amava la moglie e i loro figli più di qualsiasi altra cosa, ma nessuno di essi gli apparteneva.
«Lascia almeno che ti accompagni».
«Non potresti, la creatura risponde solo al mio richiamo, se tu sei al mio fianco essa non verrà. Sai che li spaventi», concluse, concedendosi un breve sorriso allusivo.
Così, vinto dalla forza interiore e dall’orgoglio che Filigod agitava come suo stendardo, Thranduil la lasciò andare da sola. Ma poco dopo, preso dai rimorsi e dal dubbio, uscì anch’egli nella foresta, equipaggiato alla leggera ma armato di arco e spada, con l’intento di seguirla senza che ella se ne accorgesse, e di vegliare su di lei.
Ma troppo a lungo aveva rimuginato, e troppo tardi aveva preso la sua decisione: nell’intrico della selva, non riuscì più a trovarla.



*





Filigod si era recata dapprima verso Nord, seguendo per un tratto il sentiero, poi lo aveva abbandonato e si era addentrata nel folto del bosco, laddove gli alberi crescevano così fitti che la trama dei loro rami intrecciati copriva il cielo alla vista. Ma non vi era pericolo che ella si smarrisse, poiché nessuno più di lei sapeva muoversi con maggior destrezza in Eryn Galen, neppure Re Thranduil era a conoscenza di tutte le grotte, le radure, gli speroni di roccia che invece dama Ithilglîn ben conosceva.
Mentre entrava sempre più nelle contorte viscere di Bosco Atro, cercava di acuire i sensi, e per più di una volta si illuse di aver udito scalpiccio di zoccoli, o di aver fiutato un odore familiare, o ancora di aver intravisto un bianco bagliore, in lontananza, comparire per poi nuovamente scomparire tra il colonnato degli alberi. Ma nulla di tutto ciò era reale, era solo ciò che Filigod desiderava udire, odorare, vedere. Il desiderio di ritrovare la bestia era tale che le sue percezioni la ingannavano.
Alla cintola aveva appeso un ciuffo di peli castani appartenuti alla vecchia cerva, nella speranza che il suo odore lo attirasse; ma il cervo bianco rimaneva nascosto, e trovarlo affidandosi alla ragione e non alla sorte era impossibile, si rese conto Filigod, mentre cercava di non lasciarsi andare alle lacrime. Esso era una creatura talmente leggiadra e sfuggevole che non lasciava alcuna traccia del suo passaggio, se non una sottile striscia odorosa che Filigod non riusciva a fiutare.
E così, presa da rabbia e disperazione, iniziò a maledire il nobile figlio di Neldoreth, ma dentro di sé sapeva di odiarlo a torto. Esso aveva voluto uscire dalle caverne ed esplorare il mondo di fuori, proprio come in giovinezza aveva fatto Thranduil. E se Thranduil non avesse mai disobbedito a suo padre, se non fosse mai uscito da Menegroth, non si sarebbero mai incontrati, non si sarebbero mai amati, e Legolas mai avrebbe visto la luce del mondo.
Una civetta, appollaiata proprio sopra la sua testa, stridette, e le sue strida risuonarono assieme al vento, nel profondo silenzio della notte. Filigod sorrise, cercando di darsi conforto: la foresta continuava ad esserle amica: un tronco cavo era la sua casa, il grido della civetta era la sua voce, il soffio del vento il suo respiro.
Chiuse un momento gli occhi, e lasciò che il vento giocasse liberamente con i suoi capelli, con le maniche del vestito, e con le foglie e con i rami e con le piume arruffate della civetta.
Quando li riaprì, lontano davanti a sé, circondato da una bruna corona di vegetazione, un piccolo cervo bianco la fissava.



*





Thranduil aveva tentato di intuire la strada da Filigod intrapresa, ma fu presto conscio del fatto che la sua era una ricerca cieca e disordinata. Non vi era un luogo preciso dove il cervo potesse essere andato, e nemmeno Filigod poteva avere un'idea precisa di dove cercarlo. Ogni cosa era affidata al caso.
Perlomeno, la Foresta pareva quieta e sgombra da ombre malvagie, il Re fu lieto di notare, dopo essersi inerpicato su un'altura, un cocuzzolo ricoperto di rovi e simili arbusti spinosi che spiccava come una bugna scura tra le chiare chiome delle querce.
Sì, vi era quiete in Bosco Atro: il vento odorava di neve, e gli uccelli della notte cantavano in allegrezza. Il cielo era limpido come acqua di fonte: lontano, a Nord-Ovest, spiccava la tetra cima di Monte Gundabad, mentre a Nord-Est si ergeva il fiero picco di Erebor. A Sud, miglia e miglia distante, lo scoglio tenebroso di Amon Lanc si innalzava là dove gli alberi cambiavano colore, e divenivano cupi e deformi.
Thranduil aguzzò la vista, come se si aspettasse di poter scorgere un guizzo bianco balzare via, sotto i suoi occhi. Ma tutto rimase com'era prima, e Thranduil capì di non poterla raggiungere. Era stato uno stolto solo per aver pensato di poterlo fare.
Mesto, decise di far ritorno alle Caverne, pregando che Filigod si affrettasse a tornare alle porte del Reame Nascosto. Aveva un'immensa fiducia in lei, ella era scaltra, e giudiziosa, e sapeva meglio di chiunque altro come muoversi e orientarsi tra i meandri di una Grande Foresta.
Tuttavia ella aveva un grande difetto: con troppa facilità dimenticava di non vivere più nel remoto Doriath, ma in una selva volgare e corrotta, che più non era la culla di Melian, ma il fetido nido di Ungoliant.



*





Il cervo bianco guizzava tra gli alberi come una trota scivolava via tra i flutti argentati. Filigod gli veniva dietro, mantenendosi sempre a una certa distanza per non incalzarlo troppo. Il cervo a tratti si fermava, e la guardava, ed allora Filigod rimaneva immobile, sperando che tornasse da lei di sua volontà. Ma la bestia tornava a correre via, seppur ogni volta tornasse a fermarsi sempre più vicino.
Filigod oramai era sicura che l'avrebbe preso, l'avrebbe nuovamente addomesticato e condotto nelle Sale della Luna, dove la sua purezza sarebbe stata preservata.
Il vestito le si era strappato in molti punti, poiché aveva dovuto avventurarsi tra i rovi nel tentativo di ricalcare la traiettoria della bestia. Sentì il bambino dentro di sé fare una giravolta, dopo l'ennesima corsa forsennata. Lo accarezzò attraverso la pelle tirata, e per la prima volta nella sua lunga vita ebbe voglia di cantare. Eppure rimase in silenzio, il cervo era a pochi metri, e rimaneva immobile, anche se ella continuava ad avvicinarsi, lentamente, e con cautela.
Alla sua destra vi era la luce: gli alberi divenivano radi, e una ripida e lunga scarpata balzava sulla piana sottostante: una delle tante balconate da cui si poteva dominare Bosco Atro. Filigod si era recata spesso in quel luogo, quando ancora Eryn Galen era in pace. I Silvani lo chiamavano Cabeduin-meduilin, il Salto dell'Ultimo Canto. Si era sempre chiesta il perché.
Benché avrebbe voluto soffermarsi a rimirare il paesaggio, in memoria dei tempi passati, il cervo dispettoso la richiamava nel folto della foresta, e ancora restava immobile.
Filigod stava per volgersi di nuovo all'inseguimento, quando, disgraziatamente, vide ciò che non doveva vedere. Vide qualcosa che non aveva mai veduto: in un sol punto, le chiome degli alberi siti oltre il salto della balconata si scrollavano, come mosse da un forte vento. Era come se una creatura orrenda e affamata vi stesse passando in mezzo, senza alcun ritegno. Per un momento la curiosità prevalse, e il cervo saltò fuori dalla sua mente. Uscì dal rifugio degli alberi e si affacciò sulla scarpata, anche se in tal modo si rendeva vulnerabile, ma doveva sapere. Gli alberi smisero di dimenarsi, e Filigod vide un branco di creature orribili e deformi uscire dal folto della selva per un tratto, in cui un torrente aveva scavato una radura. Poi scomparvero di nuovo alla vista, ma dove esse passavano le chiome degli alberi dondolavano, come volessero scrollarsele di dosso. E Filigod intuì, che gli orridi Orchi stavano inseguendo qualcosa.
«Thranduil...»
E fu allora che lo vide camminare nella radura, seguendo ignaro il corso del torrente. Era lontano dai suoi occhi, ma anche da quella distanza lo riconosceva. Era diretto a casa, verso il Reame Nascosto, del tutto inconsapevole di essere seguito. Filigod aveva avvistato gli Orchi poiché ella si trovava in alto, ed essi muovendosi saltando sui rami alti degli alberi ne scuotevano le sommità, ma altrimenti erano oltremodo cauti e silenziosi, ed era impossibile accorgersi della loro presenza da basso.
Non vi era tempo di pensare a null'altro, la scorribanda di Orchi seguiva il Re degli Elfi Silvani per un solo motivo: scoprire dov'erano site le Celate Porte del suo Regno.
Filigod guardò per un'ultima volta il cervo bianco, così vicino che ancora pochi passi e l'avrebbe raggiunto.
Tentando di reprimere le lacrime, si gettò in corsa giù dalla scarpata, e il cervo scomparve per sempre nella Foresta, in direzione opposta.

Non fece questo nel tentativo di proteggere Thranduil, che egli era forte e risoluto, ma fece questo per il meraviglioso Regno che Thranduil aveva costruito, per le Sale della Luna, per suo figlio che, ancora in fasce, dormiva sereno nella loro camera, per la sua gente che abitava in pace e gaiezza in quei luminosi cunicoli; fece questo poiché a tutti i costi, la segretezza di quel rifugio che assieme, Re e Regina avevano costruito, come una bellissima sintesi del loro amore e dei loro ricordi, doveva rimanere inviolata.
Ora gli Orchi non davano più la caccia al Re, ma alla Regina di Bosco Atro. Filigod aveva fatto in modo che essi la seguissero, fingendo di essersi trovata per caso sulla loro traiettoria. E come aveva previsto, gli Orchi avevano ritenuto che la moglie del Re fosse una preda più preziosa: poiché sottovalutavano la sua forza d'animo, ritenevano di poter ottenere dalla sua stessa bocca l'ubicazione delle Porte Nascoste, assieme a tante altre vitali informazioni da portare in dono al loro capobranco.
Filigod scivolava via tra gli alberi come una cerva ferita, la veste ormai lacera, le braccia e le gambe sanguinolente, piene di graffi e lividi. Costrinse le proprie gambe a correre più forte, ma oramai era allo stremo. Inciampò e cadde a terra, in un mare di rovi e ortiche.
Subito si rialzò, non curante di puntellarsi con i palmi nudi sulle spine e sulle foglie urticanti, ma a nulla valse, poiché subito gli Orchi le furono addosso.
Scesero dalla sommità degli alberi come fossero ragni, urlando parole volgari nel loro linguaggio sguaiato, e ridendo, e ghignando, e mirando con lussuria il suo corpo seminudo.
Filigod cadde in ginocchio e pianse.



*





Nelle caserme del Reame Boscoso vi era un gran trambusto. Una pattuglia aveva da poco fatto ritorno alle Caverne, e subito Re Thranduil aveva interpellato Eredion, il comandante che ne era a capo.
«Oramai è l'alba, avete visto la vostra Regina?»
«Dove avremmo dovuto vederla, mio Signore? Siamo tornati or ora dalla foresta...»
«Ella era in Bosco Atro, è uscita questa notte, inseguiva un Cervo Bianco. Non avete sue notizie? Non l'avete forse vista?»
Il silenzio cadde sui presenti come una crosta di ghiaccio, e Thranduil capì che Eredion aveva altro da riferire. Vedeva chiaramente nei suoi occhi ch'egli aveva paura della sua ira, e l'angoscia gli afferrò il cuore.
«Mio Signore, se dama Ithilglîn è sola là fuori dobbiamo subito mandare una guarnigione a cercarla».
«Perché dici questo?»
Fu allora che Eredion cadde in ginocchio davanti al suo cospetto, gli occhi velati di terrore e di lacrime.
«Perdono, perdono mio Signore... Io non sapevo, non potevo sapere che la Regina era uscita da questi confini, altrimenti li avrei fermati a costo della mia stessa vita, e della vita di tutti quanti i miei soldati.
Abbiamo avvistato una scorribanda di Orchi, bestie provenienti probabilmente dal lontano Monte Gundabad. Erano una sessantina, e noi eravamo nettamente inferiori di numero, per questo ho lasciato che attraversassero la Foresta, ho ritenuto fosse più saggio osservarli da lontano, per assicurarmi che non si avvicinassero alle Porte Nascoste, poi mi sono precipitato qua con il proposito di tornare con più forze a disposizione, e cacciarli in un sol colpo. Ahimè, ahimè... Ho commesso un tremendo sbaglio... Perdono, Signore...» E così si gettò ai piedi del Re, piangendo e umiliandosi di fronte ai suoi stessi sottoposti.
Ma Thranduil quasi non udii i suoi piagnistei, poiché un'unica orrenda verità ingombrava la sua mente.
Ordinò che Eredion e coloro che lo avevano seguito venissero rinchiusi nelle segrete, in attesa di giudizio.
Poi organizzò una corposa spedizione che percorresse in celerità e discrezione ogni angolo di Bosco Atro, e lui stesso uscì nella selva, quando oramai il sole era prossimo a sorgere. La sua speranza era che gli Orchi, i quali era risaputo avevano in odio la luce del sole, si fossero rifugiati in qualche grotta o anfratto, ma pareva invece che questi avessero corso speditamente sino a Gundabad, poiché non li scovarono da nessuna parte.
«Mio Re, se hanno lasciato queste contrade è per un solo motivo», iniziò Feren, capitano delle guardie e maggior confidente di Thranduil, avvicinandoglisi e poggiando una mano sulla sua spalla. Il Re smise di cercare a terra con gli occhi, di cercare segni nelle zolle smosse dal passo selvaggio degli Orchi, di cercare lembi del suo vestito, sangue, impronte, qualsiasi cosa che lo aiutasse a capire, che confermasse o smentisse i suoi peggiori presagi.
Ma non vi era nulla, nulla in assoluto. Solo le parole che Feren stava per dirgli.
Alzò lo sguardo e lo guardò negli occhi, ed egli parlò: «hanno già ottenuto ciò per cui sono venuti».
E seppe ch'egli diceva la verità.
«Dunque preparati in fretta», ordinò, «ci recheremo a Gundabad».








Inseguendo il Cervo

   
 
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