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Autore: CallMeSana    15/01/2015    5 recensioni
"Sei cotto, lo sai, ragazzo?"
"Cotto? Che vuoi dire?"
"Cotto è un'altra espressione per dire che sei innamorato, in italiano lo usiamo spesso"
AU partecipante al contest "Why don't we go there?" di Iceteardrops
Genere: Angst, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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"Non ricordo niente del mio passato, l'unica cosa che ricordo sei tu, e mi fa male."

Erano passati cinquant'anni e Louis ancora ci pensava sorridendo amaramente.
Guardò il suo Tardis e si chiese perché non gli fosse mai venuto in mente di mettere le coordinate giuste e provare a tornare al tempo in cui i suoi genitori erano ancora vivi. 
Continuando a guardarlo, specialmente il piccolo cassettino dove conservava quella lettera ormai ingiallita, vide nella sua testa una sola immagine, e non era quella dei suoi genitori.
Quindi si sedette vicino alla console, inserì le coordinate che gli servivano e partì: 
New York, anno 2012.

Louis Tomlinson aveva deciso di trasformare in forza di volontà la codardia con cui aveva raccolto tutte le sue cose e aveva lasciato la sua città.
New York è considerata per antonomasia la città che non dorme mai perché ogni ora è buona per creare qualcosa di buono e, perché no, il proprio futuro.
E Louis Tomlinson lì si sentiva felice, completo, specialmente da quando aveva capito quello che doveva essere il lavoro della sua vita: il fotografo, ancora meglio se di moda.
In fondo, New York era o non era anche la città della fashion week?

Johanna e Mark erano dei genitori adorabili e che, nonostante tutto, avevano sempre cercato di accontentare il loro unico figlio, lo avevano ascoltato quando aveva esposto loro i suoi desideri post-diploma, e lo avevano supportato nella scelta della scuola migliore per formarsi ed entrare nel mondo che, ora, era diventato il suo unico rifugio.
Aveva dedicato a suo padre la sua prima mostra e a sua madre l'ultima, prima di scappare, perché non trovava da nessuna parte la forza di affrontare la loro morte.

Purtroppo, Mark era da tempo affetto da un male incurabile e Johanna sopravvisse quel tanto che bastò per vedere suo figlio entrare in aziende sempre più grandi, in contatto con gente sempre più famosa, per poi non vedere un tornante, finire in un burrone con la sua auto e morire sul colpo.

Louis aveva capito in quel momento che essere figlio unico faceva veramente schifo, quindi, dopo quell'ultima mostra, fece due cose, forse stupide, forse no, ma le fece lo stesso: si licenziò e si trasferì a Londra.
Il più lontano possibile, si disse, dove non gli sarebbe mai venuto in mente di tornare lì.

A Londra fu fin troppo semplice, per un fotografo col suo curriculum, trovare lavoro: i colloqui piovevano da ogni parte, e alla fine aveva deciso di collaborare per un'agenzia inglese dal nome alquanto strano, che si occupava non solo di eventi legati alla moda, ma anche alla musica e altro. Perché, dopo un po', il desiderio di perfezionarsi provando cose nuove viene a tutti.

L'unico problema, però, era che il ragazzo era ormai del tutto assorbito dal lavoro, non trovava tempo per gli amici, quei colleghi stravaganti che passavano da un party all'altro e lo invitavano sempre nonostante i suoi continui rifiuti. Non riusciva ad integrarsi e non lo faceva nemmeno apposta.
Prendeva la colazione al bar e la consumava da solo, a casa non aveva mai invitato nessuno se non per urgenze legate al lavoro, e l'unica relazione che aveva avuto era finita per colpa di un suo stupido attacco di panico.

Immaginate quindi la sua gioia quando, dopo che finalmente aveva trovato la sua dimensione, aveva smesso di pensare al passato, ad insultarsi da solo, e a sentirsi comunque appagato nonostante la solitudine, gli arrivò quella lettera.
La lettera che gli avrebbe cambiato la vita.

Quando la aprì, si disse che il destino, quando ci si metteva, sapeva proprio come prendere in giro le persone, quindi sorrise, poi imprecò e infine la appollottolò e gettò via.
Provò tutti i modi possibili per evitare quel viaggio prima di arrendersi all'evidenza: doveva tornare a New York e, anche se sarebbe stato per poco, gli tremavano le gambe al solo pensiero. 
Non voleva affrontare le sue paure, le domande della gente, e soprattutto non voleva ricordare né il motivo per cui era scappato né tantomeno quello per cui gli stavano chiedendo di tornare.

"Per me potete pensarci anche voi e venderla ad un prezzo stracciato, non mi importa" aveva provato a dire, dopo l'ennesima telefonata via skype con gli agenti immobiliari affidatari della sua casa.
Louis non voleva più entrarci, anzi, se gli avessero detto che era crollata o esplosa, non gliene sarebbe importato nulla. 
Non voleva ricordare, non voleva nemmeno vederla in foto.
Non voleva pensare a ciò a cui aveva voltato le spalle. 
Non voleva sentirsi ancora più solo.

Ma le sue richieste erano rimaste inascoltate, quindi si era ritrovato a prenotare un volo Londra New York, quando ormai non ci sperava nemmeno più.

Quando arrivò, venne subito prelevato da un uomo e una donna tirati fin troppo a lucido per lui che, dopo quell'interminabile viaggio, desiderava solo una doccia e un letto ma, soprattutto, il silenzio, visto che aveva passato metà del tempo a sorbirsi dei bambini urlanti.
Invece no, nonostante fosse impresentabile, venne subito trascinato in agenzia immobiliare.

Mentre era in auto, Louis si poggiò leggermente al vetro del sedile posteriore su cui era seduto, e cominciò a guardare la strada, un po' sorridendo e un po' riprendendo quei vecchi insulti che aveva smesso di rivolgere a se stesso, perché solo un idiota poteva decidere di scappare da quel paradiso.
New York era caotica, in ogni suo angolo, e tornare a Manhattan sarebbe stato caotico anche per il cervello di Louis.

"Non riesco ancora a capire perché mi avete voluto qui, avevo affidato ogni cosa a voi apposta, prima di andarmene, non posso nemmeno andare in albergo a cambiarmi?" aveva chiesto, infastidito, ai due tipi che, comunque, conosceva da quando era bambino, poiché collaboratori di suo padre da sempre.
"In realtà non sei qui solo per questo, avevamo sentito una cosa e pensavamo ti potesse interessare" disse la donna, Heather il suo nome, che gli porse un articolo vecchio di qualche giorno, in cui si parlava di un progetto di una giovane start up di eventi, per il quale si cercava un fotografo professionista che insegnasse ai giovani stagisti le basi per le foto in esterni, da usare nelle brochure.
"E in tutta l'America non ci sarebbe un fotografo più adatto?" aveva chiesto Louis, perplesso.
Heather non rispose, cambiò discorso muovendolo verso le pratiche per la vendita di villa Tomlinson mentre Louis pensava già a quando sarebbe tornato a Londra.

Ci aveva pensato durante quelle trattative, ci aveva pensato durante il viaggio verso l'hotel che aveva preso in piena Manhattan, nonostante avesse una casa dove avrebbe potuto passare tranquillamente una notte o due e non sarebbe importato a nessuno, e poi aveva smesso di pensarci, quando incontrò lo stagista che tirò fuori l'idea migliore per il tema di quelle brochure.

"Il cielo, secondo me dovremmo fotografare il cielo, qui ci sono delle porzioni di universo che lo renderebbero ancora più colorato di quel che sembra, specie se ci sono quelle meravigliose nuvole di zucchero filato."
Louis lo aveva guardato e si era detto che se il ragazzo voleva fotografare il cielo, di certo lui avrebbe fotografato i prati verdi, verdi come il colore dei suoi occhi.

"Ragazzi, questo è Louis Tomlinson, ascolterà le vostre idee e sceglierà la più indicata al nostro progetto. Fatelo sentire a casa, spiegategli tutto e poi lasciatevi guidare."

Louis si era sentito un po' in imbarazzo per quella presentazione. Sapeva che a New York il suo nome risultava ancora come tra i più famosi del suo settore, ma non ne era mai stato lusingato, perché non faceva quel lavoro per la gloria, né per i soldi, lo faceva perché gli piaceva, anche se molti dei suoi collaboratori lo consideravano ossessionato.
Ma la verità era che Louis si era sentito in imbarazzo quando si era trovato a scegliere l'idea migliore, che era stata, ovviamente, quella del ragazzo coi ricci scomposti e gli occhi color del prato più verde d'America, il prato del luogo in cui non riusciva più a mettere piede, come in preda ad una fobia.
Aveva visto il suo volto illuminarsi, aprirsi in un sorriso che creò delle profonde fossette attorno alle sue labbra carnose, mentre gli altri ragazzi, un po' delusi, si erano rassegnati a star dietro al più piccolo del corso, che era stato notato dall'illustre fotografo.

"Come ti chiami, ragazzo?"
"Harry, signor Tomlinson, Harry Styles."
"Non chiamarmi signore, mi fa sentire vecchio, e visto che dovremo lavorare insieme è giusto entrare in confidenza, non credi? Quanti anni hai, Harry?"
"Diciannove, li ho compiuti da poco... quindi posso chiamarti per nome?"
Louis sorrise, mentre quel ragazzino teneva lo sguardo basso, quasi intimorito dalla possibilità di incontrare gli occhi del più grande, e gli mise una mano su una spalla, annuendo.
"Certo, Harry, puoi chiamarmi per nome, che sarebbe Louis, per la cronaca."
"Lo so, sono un grande ammiratore dei tuoi lavori, ho visto un paio delle tue mostre e le ho amate tantissimo. Sono contento che tu abbia deciso di passare del tempo con noi, è la prima volta che vedo qualcuno di così affermato dedicarsi alla nostra agenzia."
Louis era colpito, adesso, dalla proprietà di linguaggio del ragazzo e dalla sua determinazione, e immaginava, bene, che anche il riccio, a sua volta lo fosse.

E Harry, infatti, lo era.
Lo era quando aveva iniziato a raccontargli di tutto l'entusiasmo con cui aveva deciso di fare domanda per quell'agenzia ed era stato preso come stagista dopo due colloqui, nonostante le poche possibilità di assunzione a stage finito.
Lo era quando lo abbracciò nel momento in cui gli offrì il caffè al bar dell'azienda, durante la pausa pranzo, senza preoccuparsi che potesse dargli fastidio.
E lo era quando gli mostrò, con non poca vergogna, i suoi scatti ed era stato riempito di complimenti e spronato a continuare in quel modo, mentre il ragazzo occhi cielo gli sorrideva e li guardava tutti con sincero interesse.

Louis non aveva previsto che quella sarebbe stata la prima vera giornata felice dopo molto tempo, né tantomeno che avrebbe dovuto ringraziare il suo tormento per questo.

Quando, in serata, tornò al suo albergo, continuava a tenere tra le mani il cellulare, su cui Harry aveva memorizzato il suo numero, a puro scopo lavorativo.
Continuava ad illuminare lo schermo premendo il tasto del menu, ad aprire la rubrica a quel numero e, leggendo quel nome, ebbe un sussulto.

"Ha solo diciannove anni, Louis, tu abiti dall'altra parte del mondo e stai per andartene, sei qui per caso, e lo rivedrai solo per lavoro, poi lo saluterai e arrivederci e grazie."
Eppure Louis non vedeva nulla di sbagliato nel pensare in maniera romantica ad un ragazzo così pieno di vita e creatività, anzi, si disse che era un peccato il fatto che vivessero così lontani.
Pensava che in Harry ci potesse essere tutta la voglia di vivere che aveva perso.

"Quindi alla fine hai accettato! Ne ero certa!" disse Heather con entusiasmo quando lo chiamò al telefono per ricordargli dell'appuntamento coi primi potenziali acquirenti della casa.
"Lo faccio solo per impiegare il tempo in qualcosa che mi piace, fintanto che starò bloccato qui" rispose Louis, sapendo di star mentendo spudoratamente non solo alla sua amica, ma anche a se stesso.

Perché Harry aveva in serbo per lui delle cose che non si aspettava, ed era entusiasta mentre fremeva dalla voglia di mostrargliele.
Gli inviò un messaggio, mentre teneva in bocca il cucchiaio di legno con cui stava tenendo d'occhio il sugo e, sorridendo, tornò ad occuparsi della cena per lui e la sua sorellina.
Gemma era l'unico motivo per cui Harry non si arrendeva mai, l'unico motivo per cui si era imposto di sorridere sempre anche se lei non gli dava alcun motivo per farlo, l'unico motivo per il quale, in altre circostanze, molto probabilmente, l'avrebbe fatta finita o l'avrebbe uccisa.
Non gli dava più alcun peso sentirla urlare, sentire qualcosa andare in pezzi in casa perché lei lo frantumava sul pavimento come se fosse del tutto normale. No, Harry pensava solo che aveva delle giornate intere da passare in ufficio, e che poteva spendere il resto del tempo a girare per la città che amava tanto e di cui stava iniziando a memorizzare sempre più ogni angolo. 
Angolo che non poteva condividere con sua sorella, costretta a vivere in una prigione imbottita, ma che sperava di condividere presto con qualcuno.
Perché Harry si sentiva tremendamente solo, esattamente come Louis.

"So che hai detto di aver da fare domattina e il tutor mi ha informato che non passerai in agenzia. Mi farebbe comunque piacere sapere se avevi voglia di accompagnarmi, per aiutarmi con la mia idea, appena hai tempo."

Louis lesse il messaggio due volte. A dir la verità un po' si spaventò, perché era ancora alle prese col rito delle carezze dello schermo e quindi per poco non lanciò tutto per aria quando il telefono cominciò a squillargli tra le mani.

"Domani non posso proprio, possiamo fare sabato, se non hai da fare in agenzia, anche di mattina, dammi tu un orario e un luogo."

Non sapeva perché avesse mentito ancora, ma le parole gli vennero fuori di getto e anche il tasto invio premette di getto, subito prima di lanciare il cellulare sul letto e decidere che quella sera non avrebbe cenato, perché il pensiero di un Harry triste gli aveva chiuso lo stomaco.

"Central Park, alle 10, sabato mattina. Ti aspetto sul lato che porta al Met."

E Louis si sentì morire ma, allo stesso tempo, si sentì rinascere. Aveva tempo, aveva fatto bene a rimandare, avrebbe sicuramente trovato un modo o per evitare quel posto o per, finalmente, sconfiggere la sua paura più grande.
Non rispose al messaggio e si disse che, forse, almeno una birra avrebbe potuto concedersela.

"Cos'hai, Harry?" chiese il tutor, mentre osservava il ragazzo che provava a lavorare ad un progetto in 3D che gli era stato assegnato già da qualche giorno.
"Niente, pensavo..."
"...al progetto? Devo ammettere che hai avuto un'ottima idea, hai detto che domattina ti incontrerai col fotografo, vero?"
"S-sì... volevo... volevo fargli vedere i luoghi che mi avevano fatto venire questa idea e perché. In fondo ci stiamo occupando di un progetto legato alla festa di mezza estate e..."
"...e vuoi portarlo a Central Park, immagino!"
Harry non sopportava affatto il vizio del suo tutor di interromperlo mentre parlava, ma gli faceva comunque piacere che capisse sempre cosa volesse dire.
"Beh, e dove se non nel posto in cui ha luogo la festa?"
"Ma io penso che lui conosca a menadito ogni angolo di questa città, in fondo è qui che è nato!"
"Lo so, non sono così stupido, volevo solo che capisse... insomma, che non era un'idea campata in aria... oh, al diavolo, lasciamo stare!"
Harry si rese conto che non era stata normale per niente la sua reazione alle parole così sminuenti del suo tutor. Stava per dirgli che aveva avuto anche un altro motivo per aver dato appuntamento a Louis, ma non gli pareva il caso.
Louis era un uomo rispetto a lui e, soprattutto, viveva dall'altra parte del pianeta, un posto dove lui non avrebbe mai trovato il modo di andare coi pochi soldi che aveva.
Il problema è che Harry aveva un difetto, che poteva essere positivo oppure no: non gli importava delle quantità, gli importava delle qualità. 
Quindi se il tempo che il destino gli aveva concesso di spendere con Louis era davvero così poco, lui lo avrebbe speso bene. 
Per farne tesoro.

"Non volevo farti innervosire" disse il tutor, riportandolo alla realtà.
"Non mi hai fatto innervosire, solo che adesso ho perso la concentrazione" rispose Harry, contento di essere arrivato a fine giornata.
Tornò a casa in autobus e, quando arrivò, per fortuna sua sorella stava ancora dormendo, imbottita dei sedativi che lui aveva lasciato alla vicina, nonché migliore amica, prima di uscire al mattino.
Si assicurò che non stesse fingendo e che non si fosse slegata dal letto, e uscì di nuovo.

Quella sera aveva deciso di mangiare italiano, non si preoccupò nè dell'ora, né di altro, e andò nel suo quartiere preferito: Little Italy.
Ogni volta che ci andava Harry era un po' triste, perché il vecchio Gennaro, che teneva ancora, dopo oltre trentanni, il ristorante più famoso della zona, gli aveva detto che ormai di italiani lì ce n'erano ben pochi, che era finita l'epoca in cui erano tutti uniti e, insieme, erano scappati dalla guerra e dalla fame.
Era triste perché ci teneva ad imparare la cultura di un paese che lo incuriosiva così tanto come l'Italia e che aveva sempre sognato di visitare. Gennaro era troppo vecchio per accontentarlo e i suoi figli non si poteva dire che fossero la loquacità fatta persona.
"Sei sempre solo, Harry, quand'è che mi presenterai la tua ragazza?" chiese il ristoratore, quando lo vide entrare, con la sua solita borsa a tracolla, il beanie verde in testa, e il cappotto beige sopra la felpa scura.
"Non penso accadrà mai... lui... non penso di piacergli" gli scappò, e quando se ne rese conto era ormai troppo tardi.
"Lui?" Il modo in cui Gennaro lo disse preoccupò il ragazzo, che stava per girare i tacchi e togliere il disturbo pensando di aver scoperto nell'italiano una persona che non lo potesse capire. Invece era solo il preludio di una conversazione, seguita da cena gratis, durante la quale Harry parlò di Louis come se lo conoscesse da sempre anche se l'aveva visto solo una volta.

"Sei cotto, lo sai, ragazzo?"
"Cotto? Che vuoi dire?"
"Cotto è un'altra espressione per dire che sei innamorato, in italiano la usiamo spesso" rispose Gennaro, mentre lo guardava mangiare un enorme bistecca con le patatine fritte.
"Non è possibile, l'ho visto solo una volta!" Ma il modo in cui lo disse... era così poco credibile che se ne rese conto da solo.
Perché mentre lo diceva potè vedere il sorriso di Louis, che gli accentuava le mascelle magre e gli facevano brillare gli occhi blu, potè sentire il suono della sua voce e anche il tocco della sua mano.
Sì, forse si era davvero innamorato a prima vista di Louis Tomlinson.

Quando, finalmente, arrivò quel fatidico sabato mattina, Louis passò circa mezz'ora a ripetersi davanti allo specchio che non sarebbe entrato in quel parco se non costretto, e che, soprattutto, avrebbe fatto finta di niente.
Non voleva che Harry sapesse, che capisse, voleva essere più forte. Voleva che fosse la prova che l'aveva superato, che ormai la morte dei suoi genitori non gli faceva più male.

Il fatto è che Central Park è stato il luogo da cui è iniziato tutto: se Johanna non si fosse trovata a far da babysitter alla figlioletta della sua migliore amica lì al parco giochi, non avrebbe mai incontrato il giovane pattinatore Mark Tomlinson, che passava di lì, come ogni sabato pomeriggio, col suo gruppo di amici.
E se non fosse stato per quell'incontro, Johanna non avrebbe mai imparato ad andare sui pattini, e questa passione non sarebbe mai stata tramandata a Louis, che adorava pattinare.
Almeno fino a quando non aveva lasciato tutto, pattini compresi, alle sue spalle.

Quindi per lui entrarci voleva dire valanga di ricordi, dolorosi e non, e non sapeva quanto avrebbe potuto resistere facendo finta di niente di fronte ad un Harry entusiasta che gli andò incontro con due cappuccini di starbucks in mano e gliene porse uno.
"Spero ti piaccia il cappuccino, non sapevo cosa prendere. In tal caso, bevilo finché è caldo."
Era sempre gentile, Harry, forse con lui avrebbe potuto aprirsi un po'.

"D-dove vuoi andare, Harry?" chiese il più grande, visibilmente agitato, persino nella voce.
"Hai freddo, Lou? Siamo a maggio, non dovrebbe far freddo" disse il riccio ingenuamente, quasi ignorando la sua domanda "andiamo a Central Park, mi pare ovvio, al Met in questo momento c'è una mostra di arte antica che ho già visitato più volte e non voglio annoiarti, magari è roba che non ti piace!"
"Scherzi? Penso di non aver mai avuto il tempo di visitare tutti i reparti di quel museo, mi farebbe piacere andarci!" 
La pietosa tattica del più grande di rimandare l'appuntamento col flusso di pensieri e dolore funzionò: Harry deviò verso il Metropolitan Museum of Art e, con profondo entusiasmo, cominciò a trascinare Louis lungo le diciannove sezioni che lo componevano, o almeno ci provò, tempo permettendo.
"Che cosa ti piace, oltre alla fotografia, Lou?" Era innocente nella voce e nello sguardo, Harry, mentre poneva al più grande questa domanda.
"Io... la musica, sì, mi piace la musica. So che c'è una sezione dedicata agli strumenti musicali, è vero?" Louis era del tutto impreparato a tutto quello.
"Oh sì, hai già visto i violini di Stradivari? Mi piacerebbe tanto imparare a suonare quello strumento, tu suoni qualcosa?"
"Una volta suonavo il pianoforte" rispose, con aria leggermente triste. Il suo pianoforte era rimasto nella casa che stava per vendere e non lo toccava da non ricordava nemmeno lui quanti anni. Per la prima volta ne ebbe nostalgia.
"Davvero? E adesso non lo suoni più, quindi?"
E quando vide lo sguardo imbronciato del più piccolo, Louis avrebbe voluto mentire di nuovo, avrebbe voluto dirgli che sì, lo suonava eccome, e che lo avrebbe portato a casa sua per fargli ascoltare qualcosa.
Invece disse la verità e cambiarono argomento, con un po' di pesantezza nel cuore.

Quando si resero conto che il pianoforte più antico del mondo li aveva distratti fin troppo, uscirono dal museo, notando che erano lì dentro da oltre due ore.
"Hai fame, Harry?" chiese Louis, in tono premuroso.
"No, però potremmo fermarci a prendere qualcosa prima di andare al parco, devo farti vedere il mio luogo preferito e il perché della mia idea, così potrai dirmi se sono pazzo oppure no."
Harry aveva abbassato lo sguardo, intimidito dalle sue stesse parole. Non sapeva cosa aveva appena provocato nel cuore di Louis, che aveva dimenticato cosa fosse il battito accellerato per l'agitazione.
"Il parco, sì..." fu tutto ciò che disse, una volta ritrovatosi in mano un hot dog gigante pieno di ketchup e con Harry che, come un bambino, continuava a trascinarlo dove voleva lui.
Un bambino, Louis lo vedeva davvero come un bambino?
Oh sì, Harry era tenero, Harry era piccolo, innocente e pieno di vita, tutto il contrario di lui, e questa cosa gli stava cominciando a far paura più dell'entrare in quel parco.
"Aspetta un attimo, forse... forse dovremmo sederci da qualche parte e mangiare, prima."
"Ma se non sai nemmeno dove voglio portarti!" rispose, giustamente, il riccio, staccando la mano dalla sua e continuando comunque ad agitarsi.
"Ok, dove vuoi portarmi?" chiese Louis, arrendendosi.
"Sei newyorkese esattamente come me, conosci il lago artificiale Jacqueline Kennedy Onassis Reservoir?"
Louis fece cenno di sì con la testa. Chiunque lo conosceva, chiunque fosse entrato almeno una volta a Central Park ci si era fermato, magari seduto di fronte, e magari ci aveva anche organizzato un picnic.
Louis, però, lo conosceva perché ci era andato tantissime volte coi suoi genitori e altrettante con il suo ex ragazzo, quello che aveva fatto scappar via quando avevano provato a fare l'amore e lui aveva lanciato un urlo manco lo stessero violentando.
"Bene, allora è lì che dobbiamo andare!"

Mentre camminavano tra i vari prati sconfinati del polmone verde d'America, Louis si guardava intorno, rendendosi conto che era riuscito ad entrare a Central Park senza battere ciglio.
Se ne rese conto e si mise a ridere: da che cosa era scappato, quindi?
"Perché stai ridendo, Lou?" chiese improvvisamente Harry, notando che il suo compagno di avventure aveva rallentato il passo.
"Mi piace che mi chiami Lou" mentì ancora. A metà, però, perché gli piaceva davvero che lo chiamasse a quel modo e Harry sorrise di rimando, compiaciuto da quella risposta.

Quando finalmente arrivarono al lago, il sole caldo batteva forte sul manto di acqua, creando dei riflessi così intensi da accecare chi ci puntasse lo sguardo. Harry ne fu così felice che corse verso la riva e cominciò a giocare con l'acqua.
Un bambino, appunto, proprio come nelle immagini mentali di Louis.
"Mi piaci tu, Harry" pensò tra sè e sè, sperando di poterglielo dire, prima di partire.

"Bene bene bene... chi abbiamo qui? Styles, da quanto tempo non ti si vede in giro, come stai? Tua sorella non si è ancora liberata di te?"

A sentire quelle parole, Harry potè sentire il sangue gelarglisi nelle vene.
Pochi giorni prima, aveva commesso il grave errore di portare Gemma fuori, perché si era accorto di come restasse incantata ogni volta che vedeva dei prati verdi alla tv.
L'infermiera che la accudiva quando lui non c'era gli aveva detto che sarebbe stato pericoloso, specie senza la sua supervisione, ma Harry non aveva voluto ascoltarla, si fidava di sua sorella e non voleva ancora rassegnarsi a vederla crescere con la mente offuscata completamente dalla malattia.
Fondamentalmente sperava ancora di poterla salvare.

Quando, in quel sabato pomeriggio soleggiato, scesero dall'autobus che li lasciò a pochi metri dall'ingresso del parco, Harry mise ai piedi dei pattini, e fece altrettanto con sua sorella, che era insolitamente tranquilla.
Il riccio la guardava sorridendo, cercava di fare di tutto per tenerla tranquilla, la osservava, cercava di intuirne i più segreti pensieri, ma sapeva che, con la sua rabbia latente, la sua bipolarità e tutto il resto, sarebbe stato sempre molto difficile.
Gemma, però, era stata davvero brava, quasi Harry pianse quando lei gli prese la mano e lo incoraggiò a pattinare più veloce.
Fecero tutto il miglio che li separava dall'ingresso coi pattini e continuarono per un po', incontrando delle persone che conoscevano il ragazzo e lo salutarono con la mano e altrettanti sconosciuti a cui fecero non velata tenerezza.
Poi Harry si era fermato, quando Gemma aveva perso l'equilibrio ed era caduta a terra lanciando un urlo di dolore e aveva fatto accorrere una ragazza che passava di fianco per caso con le cuffie nelle orecchie.

La ragazza era bionda, Harry se la ricordava perché frequentava la sua stessa scuola, ma era un anno avanti. Era una delle poche a conoscenza della malattia di Gemma e che avesse mai assistito ad una delle sue crisi, quindi sapeva come prenderla.
Purtroppo, i tre ragazzi in bicicletta che sopraggiunsero poco dopo decisero di non vedere di buon occhio quella scenetta, quindi si fermarono e cominciarono ad inveire contro Harry, intimandogli di saltare addosso alla ragazza, altrimenti ci avrebbero pensato loro.
E volò uno schiaffo quando provò maldestramente a difenderla.
E ne volò un secondo quando Gemma, ingenuamente o chissà che altro, disse "potete anche prendervela, tanto a lui piacciono i maschi."

Harry riviveva quei momenti ogni volta che qualcuno gli si avvicinava con fare sospetto, ogni volta che incrociava quei tre, ogni volta che vedeva qualcuno in bicicletta.
Non ne aveva una proprio per questo.
Perché non basta essere preso di mira da un gruppetto di bulli, no, questi dovevano essere anche omofobi.

"Andate via" disse, cercando di far capire a Louis con un solo sguardo che era meglio se stava fermo e zitto e, sicuramente, se ne sarebbero andati.
Ma Louis non era tipo da stare fermo e zitto, non se un ragazzo più piccolo si fa avanti per essere l'unico divertimento di tre poveri sfigati in preda ad una crisi violenta.
Quando il tipo più grosso lo colpì in pieno viso col piccolo ramo che aveva raccolto chissà dove, Louis non ci vide più.
Non sapeva perché stesse succedendo né tantomeno gli importava. Non sopportava la violenza gratuita, e non sarebbe stato lì a guardare.
Ma Louis era anche un signore: non si abbassò al loro livello, semplicemente tirò fuori un fischietto e cominciò a soffiarci dentro.
I ragazzi, udendo quel suono assordante, mollarono tutto e corsero via sulle loro bici.

"Lou..." disse Harry, mentre cercava di rialzarsi. Louis gli corse letteralmente incontro e cominciò a controllare il suo intero corpo per assicurarsi che stesse bene, poi vide il rivolo di sangue scorrergli sotto uno zigomo e cominciò a tamponarlo come meglio poteva.
"Dove hai preso quel fischietto, Lou?" chiese il riccio, incurante del fatto che il più grande gli stesse massaggiando lo zigomo ferito già da qualche secondo.
"Io... lo porto sempre con me, è... un regalo."
"Chi te lo ha regalato?"
Louis guardò Harry e cominciò a domandarsi se quello che stava succedendo fosse normale o meno. Si domandò se fosse normale che un ragazzo appena scampato ad una rissa si mettesse a chiacchierare come se non fosse mai successo niente e, quando vide il suo sorriso, si rispose che, evidentemente, per Harry lo era.

Si sedettero uno accanto all'altro e Louis cominciò a raccontare al più piccolo la storia di un bambino di sette anni che amava correre sui prati verdi e che sua madre perdeva sempre di vista.
Gli raccontò del piccolo scivolo dove soleva salire al contrario sentendosi migliore di tutti, e del giorno in cui sua madre lo rimproverò perché lo aveva perso di vista mentre lui rincorreva una farfalla.
"Così mi ha comprato questo fischietto e mi ha ordinato di usarlo ogni volta che pensavo di allontanarmi e lei, magari, era distratta."
Harry vide un sorriso un po' triste sul viso del suo amico, ma non osò chiedergliene il motivo perché poi aggiunse "è morta quattro anni fa e non vado a trovarla dal giorno del funerale."
Quindi a Harry si strinse il cuore, gli prese una mano e "anche io non vedo più i miei genitori da quando sono morti. Oh dio, non è che sono morti davvero, è che loro ci hanno abbandonati."
"Ci...?"
E quindi fu la volta di Harry di raccontare. Di come la malattia di sua sorella si manifestò all'improvviso, di come i suoi genitori litigassero ogni giorno, per questo, e di come un giorno, senza alcun preavviso, semplicemente, non c'erano più.
"Ci hanno abbandonati perché Gemma era un peso troppo grande da sopportare per loro" disse, cercando di non piangere, perché non sarebbe stato affatto d'aiuto.
"Mi dispiace" fu tutto ciò che riuscì a dire Louis, stringendogli più forte la mano e guardandolo fisso negli occhi lucidi.
Non voleva che piangesse, nè tantomeno voleva farlo lui, quindi si alzò di scatto, lasciando la sua mano e gli chiese che cosa avesse in mente per quel pomeriggio.
"Dovevo mostrarti l'origine della mia idea, no?" disse il riccio guardandolo con entusiasmo.
E Louis non si era accorto che aveva tenuto la mano sospesa per un po', dopo che gliel'aveva lasciata.

"Guarda i riflessi, Lou! E' questo che intendevo quando parlavo di cielo e zucchero filato... sei mai stato alla festa di mezza estate?"
A questa domanda, Louis si sentì un attimo morire dentro: certo che c'era stato, ci andava ogni anno. Non rispose, e Harry gli chiese scusa per la domanda in un sibilo, poi continuò ad esporre la sua idea con entusiasmo e trasporto.
Louis lo guardava e si domandava come facesse quel ragazzo a crescere una sorella malata da solo e con lo stipendio da fame che prendeva col suo lavoro. Moriva dalla voglia di aiutarlo, di portarlo con sé, di farlo stare meglio, e moriva anche dalla voglia di conoscere questa Gemma che non smetteva mai di nominare.
"Ehi Lou, ma mi stai ascoltando?" gli chiese, mettendogli una mano sulla spalla e fissandolo, ad una distanza a dir poco imbarazzante per due semplici amici.
"Harry, ma tu stai sempre così vicino alle persone quando gli parli?" chiese Louis, sperando che il più piccolo non notasse il suo rossore.
"Solo a quelle che mi piacciono" rispose lui, aprendo le labbra in un sorriso talmente immenso che Louis pensò, ancora una volta, di morire.
Non aveva mai visto un sorriso migliore di quello, quindi si disse che sì, adesso avrebbe anche potuto morire.

"So io dove portarti" disse poi.
E così, passando per tutto il contorno del parco, sentendo bambini correre sulla pista per le bici o coi pattini, uscirono di lì e, in breve tempo, furono nel posto preferito di Harry dopo Central Park: Little Italy, dal suo amico Gennaro.
L'amico Gennaro che, appena lo vide entrare nel ristorante con Louis, non poté fare a meno di esclamare "dunque è lui?" mettendo in imbarazzo il riccio, che non rispose, fingendo di non aver sentito.
I due ragazzi presero posto ad un tavolo per due e, mentre Harry ordinava da mangiare ai fidi camerieri del buon Gennaro, Louis si guardava intorno un po' intimorito. 
Era nato e aveva vissuto a New York per buona parte della sua vita, eppure non era mai stato in quella zona. Temette che Harry volesse portarlo persino a Chinatown, il posto che aveva sempre terrorizzato sua madre, ma non disse una parola a riguardo, lo guardò nominare pietanze italiane che non aveva mai sentito prima e attese.
"Ho ordinato anche per te, va bene, Lou?" chiese improvvisamente, voltandosi a guardarlo.
Aveva uno sguardo veramente innocente, in quel momento, e Louis si domandò ancora una volta come avrebbe fatto a conservarne il ricordo una volta lasciata la città.
"Mi va bene se va bene a te" rispose, provocando un sussulto nel petto del riccio, di cui il più grande non si accorse.
"Scommetto che non sei mai stato qui" disse poi, e Louis fu sorpreso di come riuscisse già a leggergli nella mente. Avrebbe voluto avere sempre con sé una persona del genere e gli venne da sorridere perché, mentre lo pensava, si era ritrovato a fissargli le labbra leggermente socchiuse e color fragola che adesso stava morendo dal desiderio di sfiorare con le proprie.
"No, infatti" rispose, abbassando lo sguardo, per contenere l'agitazione.
Poi il silenzio, Harry riuscì a sviare per ben tre volte i maldestri tentativi del vecchio Gennaro di intromettersi lanciando qualche frecciatina e, alla fine, prese di nuovo Louis per mano e lo portò fuori di lì.
"Ma... non dovremmo pagare?" osò chiedere il più grande.
"Oh, Gennaro mi fa pagare molto raramente, oggi non era una di quelle volte" tentò di giustificarsi. Non poteva certo dirgli che per il vecchio italiano quello era un appuntamento amoroso!

"Harry senti..." disse improvvisamente Louis, mentre il riccio si guardava intorno sperando di trovare qualcosa che lui non riusciva a capire "...che cosa stai cercando?" continuò poi.
"Volevo farti vedere un piccolo negozietto di souvenir, è roba italiana che a me piace moltissimo, ho la collezione a casa, ed è un peccato, perché sta per chiudere, dato che, a quanto pare, sono rimasto il loro unico cliente!"
Giovane, pieno di vita, bellissimo Harry!
Aveva tutte le qualità che Louis aveva perso, tutto quello di cui aveva bisogno.
"Non ha importanza, a me basta stare con te, non voglio un ricordo, sei tu il mio ricordo."
"Che cosa stai dicendo?"
Entrambi si resero conto, sentendo il battito accelerato dei loro cuori, che non si aspettavano nulla del genere.
"Sto dicendo che tra una settimana dovrò tornare a Londra, la casa è stata venduta e non potrò restare più qui a lungo. Mi dispiace, tu avevi avuto fiducia in me ma... ti ho solo fatto perdere tempo."
"Perdere tempo? Fino a prova contraria sono io che ti ho chiesto di vederci, se non avessi voluto farlo mi avresti detto di no... o sbaglio?"
E Louis si sentì colto alla sprovvista, guardò il più piccolo e si rese conto che aveva perfettamente ragione.
"No, infatti l'ho fatto per stare un po' con te. Chiamami pure egoista, del resto non sono io quello che si prende cura di una sorella malata, io sono quello che scappa."
I due ragazzi erano di nuovo davanti al ristorante del loro ormai comune amico, che era fermo sulla porta d'ingresso a fumare e stava inavvertitamente assistendo ad una scena che, vista da fuori, sembrava proprio un litigio tra due fidanzati.

"Tu non scapperai più, Lou, tu adesso verrai da me. Io lo so. Verresti con me? Ovunque io voglia portarti?" Un battito perso nel pronunciare queste parole.
"Non ho capito." Il battito accelerato nel pronunciare queste altre.
Poi la distanza che li separava si annullò e si baciarono, a lungo, quasi come se dalla bocca dell'altro stesse uscendo tutto l'ossigeno necessario a sopravvivere.
Si baciarono e... e il povero Louis del futuro che stava assistendo a questa scena nascosto dietro un palo perse l'equilibrio nelle gambe e cadde quasi a terra.

Perché quando Harry gli aveva detto che non sarebbe più scappato, e gli aveva chiesto se sarebbe andato con lui ovunque, Louis non rispose, e non lo fece.
Tornò a Londra, per sempre, gettandosi quell'unico momento di intimità con il più grande amore della sua vita alle spalle e sperando che, senza di lui, quel giovane ragazzo dai capelli ricci, col sorriso più bello che avesse mai visto, e gli occhi del colore dei prati più verdi, avesse potuto realizzare tutti i suoi sogni e trovare una persona che lo meritasse più di lui.
E si era convinto che non gli avrebbe fatto alcun effetto sapere che, invece, era rimasto solo, che aveva provato a raggiungerlo ma non ci era riuscito per mancanza di soldi.
Che gli aveva scritto "ti amo" nell'unica lettera che gli avesse mai mandato e a cui lui non aveva mai avuto il coraggio di rispondere.
Si era convinto di aver fatto la scelta giusta, ma poi aveva riguardato il suo Tardis, e aveva capito che se c'era una cosa in cui Louis Tomlinson era davvero bravo, erano le scelte sbagliate.
Come fu sbagliato per il suo povero cuore spezzato piangere, quando i titolari dell'agenzia per cui il ragazzo lavorava gli mandarono tutti i dettagli del progetto finito e le foto della mostra che aveva organizzato per la festa di mezza estate.
Come fu sbagliato fare l'amore con lui la sera prima di lasciarlo, e non farsi trovare al mattino.
Se solo Louis avesse visto le lacrime che avevano inondato il viso di Harry una volta resosi conto che per il più grande non valeva niente, probabilmente non sarebbe mai partito, gli avrebbe detto che lo amava e che non lo avrebbe mai dimenticato.
Se solo fosse stato più forte, a quest'ora sarebbe stato tutto diverso.
Ma no, Louis era un codardo, aveva trovato l'amore, ma l'aveva scansato, per far posto ad altro.
Per pura e semplice codardia.

"Se mi chiedessero di salvare qualcosa della mia inutile vita, di certo salverei te, da me."


***
Ok, sicuramente parlare di una città che non conosco non è stato per niente facile, infatti penso di averlo fatto malissimo, ma partecipare a questo contest mi entusiasmava, quindi eccomi qui!
Volevo solo fare un appunto, anche se penso si sia notato: c'è un lievissimo accenno al fantasy e ai viaggi nel tempo, come specificato nelle caratteristiche della storia (il Tardis è il nome che viene dato alla "macchina del tempo" utilizzata dal protagonista della serie televisiva Doctor Who, se non la conoscete guardatela!), quindi spero che anche questo vi possa piacere e aspetto commenti, insulti, critiche, come sempre.
CIAO.
xx


  
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