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Autore: Hobbitsss    17/01/2015    1 recensioni
“La minaccia di un malvagio attacco ai nostri regni è sempre più vicina. Tutti gli aiuti possibili saranno ben accetti e necessari. Appuntamento al quartier generale, il Nido. In fede,
Ben Werefkin”
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo uno.
"Only the beginning of the adventure."

   Come ogni mattina al sorgere del sole, Meldon si alzava, indossava la sua camicia a manica larga di seta, i suoi pantaloni di cuoio e scalzo, usciva. Era solito passeggiare in un sentiero isolato e nascosto che affiancava il lato est del Bosco dei Fauni, vicino casa sua. Ad occhi chiusi, si faceva guidare dai lievi raggi del sole che intravedeva attraverso le palpebre, e meditava, mentre la brezza mattutina muoveva i suoi lunghi capelli biondo platino. Dopo alcuni minuti di cammino arrivava in un punto in cui la vista non era vincolata dagli alberi ed era possibile vedere tutta la città di Baliern, perciò si sedeva a terra e ammirava la natura. Baliern si estendeva sulle due rive di un fiume cristallino che sfociava in un’immensa cascata. Il castello del Re elfico Matuir, costruito con pietre bianche e ornato con rami di salice, si affacciava proprio su quella cascata ed era con questa visione che Meldon si rilassava lì all’aperto, con il sole che sorgeva davanti a sé e con il sottofondo dell’acqua che scorreva. A giudicare dalla posizione del sole erano più o meno le 8, così l’elfo s’incamminò verso casa dato che la sua sorellina Brethil si svegliava sempre alle 8.30 in punto e se non trovava nessuno in casa iniziava ad urlare svegliando tutta la città. Meldon e Brethil vivevano soli; i loro genitori si erano stabiliti nelle terre orientali ormai da 10 anni per motivi che neanche i loro figli conoscevano. Il giovane elfo aveva 19 anni e con l’aiuto della zia aveva cresciuto la sorella che ora aveva 6 anni. Quella mattina però mentre tornava a casa venne distratto da insoliti rumori provenienti dal bosco. Udiva come di barattoli e scodelle che cadevano rovinosamente a terra e inoltre sentiva anche un forte odore di mirtilli e miele. Sbirciò allora tra gli alberi e in fondo alla radura vide una casetta in legno scuro. Fuori vi erano borse, sacchi e un grande baule, e dal camino usciva un fumo violaceo. Meldon si guardò intorno, ma non vide nessuno. Memorizzò il punto in cui si trovava in modo da poterci ritornare non appena avesse controllato Brethil.
“Med, sei te?” disse una vocina assonnata.
“Sì Bree. Ti preparo il tè?” rispose Meldon.
La sentì scendere le scale, dopodiché corse verso di lui abbracciandolo
“Quello all’arancia, grazie” Meldon le scompigliò i capelli biondi e mise a scaldare l’acqua. Aspettò che fece colazione per poi portarla a giocare a casa di un’amica.
Ora poteva tornare nel bosco, ma per ogni evenienza prese il suo arco e la faretra. Ritrovò facilmente la casa e in silenzio si avvicinò rimanendo nascosto tra gli alberi. Dalla porta ,rimasta aperta, intravide una ragazza bassina ed esile. Portava due strati di gonne lunghe fino al ginocchio, una casacca porpora che scendeva su una spalla e in testa aveva una bandana che nascondeva i capelli. Intuì fosse una strega; aveva barattoli di ogni grandezza che contenevano polveri e strani ingredienti, e poi davanti a lei, in un pentolone sul fuoco, bolliva una strana miscela. Era intenta a sistemare i vari oggetti sulle mensole e a giudicare dai bagagli di fuori era appena arrivata. Scese da un mucchio di scatole che usava come scala per i ripiani più alti e uscì per prendere un’altra borsa. Quando alzò lo sguardo tra i cespugli davanti a lei vide gli occhi a mandorla azzurro ghiaccio dell’elfo e agitata tirò fuori dalla tasca della gonna quella che doveva essere una bacchetta magica e la puntò verso di lui dicendo con il tono più minaccioso possibile
“Esci fuori elfo”.
Quest’ultimo, impassibile, si mostrò e ignorando la bacchetta puntatagli contro andò verso di lei.
“Cosa porta una strega a traslocarsi nel bel mezzo di una foresta elfica?”.
La straniera, dopo pochi secondi in cui valutò le intenzioni della creatura, abbassò l’arma e rispose vagamente: “potrei aver accidentalmente offeso la figlia del ministro...”.
“Meldon Haereldir” disse accennando un inchino.
“Ophelia Darkgem, piacere di conoscerti”.
Restarono ad osservarsi incuriositi. Gli stregoni si spostavano raramente verso il nord nelle terre elfiche; dopo delle ostilità avevano deciso di vivere ognuno la propria vita, secondo le proprie leggi e tradizioni e convocare assemblee solo in caso di urgente bisogno. In origine c’erano stati dei problemi tra elfi e stregoni riguardo lo smistamento di territori nelle regioni meridionali che avevano guadagnato in seguito ad una guerra contro gli orchi provenienti dai lontani deserti dell’est. Riuscirono difficilmente ad arrivare ad un accordo, dopodiché vollero mantenere la pace ignorandosi a vicenda. D'altronde l’orgoglio era una caratteristica comune sia tra gli elfi che tra gli stregoni. Questi ultimi erano in buoni rapporti con altre creature come i lupi mannari, per i quali creavano pozioni e antidoti che alleviavano i dolori delle trasformazioni. Invece odiavano i vampiri; l’immortalità era una delle cose che contraddistingueva gli stregoni e il fatto che fosse anche un privilegio dei vampiri li infastidiva e per di più trovavano ripugnante che si nutrissero di sangue. Ophelia Darkgem però aveva una visione tutta sua delle varie specie dal momento che non teneva conto dei giudizi e delle considerazioni della sua gente. Tutto quello che sapeva veniva dalle antiche leggende narrategli dai suoi nonni, che avevano lo stesso spirito umile e curioso, e dai racconti che leggeva nella biblioteca della sua città. A proposito degli elfi aveva letto di coraggio, forza, fierezza, oltre che di lealtà e gentilezza, e ora trovandosene davanti uno poteva confermare anche fascino ed eleganza. Meldon invece non si limitava ai libri, amava esplorare ed osservare da vicino. Era audace e anche lui, privo di pregiudizi, preferiva giudicare di persona. Se si doveva occupare della sorella minore quando non era possibile lasciarla alla zia Annael, si armava del suo arco e si muoveva di notte o di mattina presto. Ora erano ancora lì ad osservarsi quando la giovane strega interruppe quel contatto visivo.
“Vuoi assaggiare un infuso che sto sperimentando?” chiese mentre rientrava in casa, intuendo che non c'era nessun pericolo e quindi perdendo quell’aria da dura assunta all’inizio.
Meldon la seguì e con un filo di preoccupazione affermò: “non so quanto possa convenirmi bere qualcosa offerto da una strega appena conosciuta”.
Mentre avanzava si guardava intorno, studiando gli oggetti disposti e appesi alle credenze e alle librerie. C’erano tantissimi libri che gli fecero dedurre che era ancora un’apprendista e tanti amuleti e pietre che attirarono la sua attenzione. E sdraiato su un cuscino sonnecchiava un gatto a pelo lungo e nero. Notando che lo guardava, Ophelia lo presentò prendendolo in braccio e svegliandolo.
“Lui è Barnabeo! Non è molto amichevole quindi non offenderti se tenterà di graffiarti”.
Dopo averlo sventolato davanti all’elfo, lo rimise sul cuscino e allegra, prese una tazza per versarci quella miscela violacea che bolliva nel pentolone.
“Assaggia! Tranquillo è solo un infuso al mirtillo e miele con proprietà rilassanti e curative. Spero solo che non sia disgustoso come l’ultimo che ho fatto. Dovrebbe avere un gusto dolce con un leggero retrogusto più forte” continuò ansiosa.
Meldon che non faceva in tempo a dire una parola che subito lei ricominciava a parlare, accettò la bevanda per farla felice. Purtroppo percepì un gusto molto forte e acidulo, ma cercò di essere gentile di fronte quegli occhi verdi che lo fissavano speranzosi.
“Ehm sai credo manchi qualcosa che bilanci i sapori” affermò con una smorfia; così anche Ophelia assaggiò e rimase delusa dall’ennesimo esperimento fallito.
“Accidenti, non sarò mai in grado di creare nessuna pozione”.
Offesa si accasciò vicino Barnabeo e iniziò ad accarezzarlo. Meldon ruppe il silenzio, sentendosi in colpa per quello che aveva detto; tentò di rimediare. Iniziò a guardarsi intorno, volgendosi verso gli ingredienti sulle mensole e sfruttando le sue conoscenze di erbe e piante.
“Dai non è male, che ne dici di metterci della stevia rebaudiana? - così dicendo ne tirò un po’ fuori da un barattolo e lo aggiunse alla sua bevanda - senti, così è molto meglio”.
Ophelia assaggiò. Subito un piacevolissimo sapore di miele invase la sua bocca e progressivamente sentiva sempre di più un retrogusto di mirtillo. Era come se quella bevanda le stesse facendo un massaggio alle braccia doloranti per il trasloco e sentiva pian piano tornare la serenità dopo il precedente insuccesso.
“Funziona… - disse tra sé e sé - la pozione funziona!! Grazie, spero non ti dispiaccia che me ne prenda il merito” esclamò raggiante.
“No, figurati!” rispose Meldon, sollevato per il suo entusiasmo. Scese di nuovo il silenzio e da lontano si udì una voce femminile chiamare l’elfo.
“Meldon! Meldon dove ti sei cacciato?” continuava sempre più vicina.
Meldon sembrò riconoscere la voce. Si voltò cercando di percepire da dove provenisse.
“Mi dispiace devo andare - disse - è stato un piacere” quindi tornò sul sentiero. Ophelia lo guardò andarsene fino a che non scomparve dalla sua visuale.
“Meldon! Dov’eri finito, accidenti?” disse arrabbiata un elfo donna dai capelli castani e illuminati da riflessi dorati.
“Cos’è successo?” chiese, ignorando la domanda.
“Tua sorella mi sta facendo impazzire! Sai che la mia è già abbastanza per me” continuò con aria scocciata.
“Hai ragione, mi dispiace - cantilenò Meldon - immagino cosa possono aver combinato”.
Le andò in contro, le fece gli occhi dolci e sorrise. Quel sorriso che si fa quando si vuole essere perdonato per qualcosa, poi continuò: “andiamo, ti aiuto a mettere in ordine”.
Lei lo fissò severamente e poi concluse: “quegli occhi sbrilluccicosi non funzionano con me, Haereldir”.
Quell’elfa piuttosto tosta ed energica era Eruanna Lorien. Meldon, lei e suo fratello Narwain si conoscevano fin da bambini ed erano perciò come fratelli. Le loro sorelle più piccole giocavano sempre insieme e anche quel giorno avevano creato un gran caos nel piccolo soggiorno di casa Lorien. Meldon era troppo buono non riusciva a sgridarle, e poi quelle creaturine lo adoravano. Narwain era l’altro loro eroe, ma essendo troppo scontroso e arrogante cercavano di non farlo arrabbiare. Invece finché erano con Eruanna si comportavano in modo spericolato, e la povera elfa, esasperata, finiva sempre con alzare la voce. Perciò l’unica via d’uscita era far intervenire Meldon; si fidavano di lui e ogni sua parola era un ordine. Tra molte risa, scherzi e solletico, dopo un’ora riuscirono a far tornare la stanza alle condizioni originarie.
 
 
   Alisha Keene non era mai stata una ragazza avventurosa. Non particolarmente, almeno. E neppure quanto lo erano sua sorella minore Katie e il suo migliore amico Max, che avevano da sempre avuto uno spirito da avventurieri. La ragazza camminava lentamente in una strada secondaria di un quartiere di Londra, mentre osservava con sguardo perso una delle tante vetrine decorate a tema per la festa di Halloween imminente. In quel momento era talmente annoiata che non poteva immaginare che da quella sera le sue giornate non sarebbero più state le stesse. Alisha sbuffò. Mentre si dirigeva con aria svogliata verso il pub nel quale lei e i suoi amici erano soliti passare i pomeriggi, Max le si avvicinò e la prese sotto braccio. Le sue mani erano talmente fredde che Alisha riuscì a sentirne la temperatura anche attraverso la giacca. Max fu subito seguito da Charlie. Quest'ultimo era il più grande dei tre, mentre Max era il più piccolo. Alisha era loro amica da quando aveva circa l'età di undici anni e si era ritrovata per puro caso nella loro classe. Nonostante fossero amici inseparabili, Alisha, Max e Charlie erano forse le persone più diverse sulla faccia della terra: Alisha era dolce e garbata, Max era infantile e divertente, mentre Charlie era sempre serio e composto.
I tre camminarono sulle foglie secche per qualche minuto ancora fin quando non scorsero l'insegna del ‘Benbow Inn’; Alisha pensò ancora una volta a L'isola del tesoro. Dopo aver attraversato la strada, Charlie liquidò gli amici invitandoli ad entrare, dicendo loro che sarebbe rimasto a fumare una sigaretta in tutta tranquillità. A Charlie piaceva starsene un po' da solo, qualche volta. Estrasse la sigaretta fatta in casa e l'accese, ed Alisha entrò. Ovviamente nel locale faceva molto più caldo di quanto ci si aspettasse, ragion per cui Alisha, nel chiudersi la porta alle spalle, si tolse la giacca. Subito dopo si accorse che Max stava parlando a raffica e che lei aveva perso la prima parte del discorso, ma riuscì comunque a capire che avrebbe inseguito una ragazza che voleva invitare ad uscire, mentre questa si avviava sul retro. Alisha sistemò la frangetta ramata con una mano e si diresse al bancone dietro il quale si nascondeva il proprietario del locale per asciugare un bicchiere.
Steve era un paffuto signore di sessantacinque anni; il ‘Benbow Inn’ era di proprietà della sua famiglia da tre generazioni e Steve mandava avanti la baracca da trent'anni con orgoglio e rispetto. Alisha si sedette ad uno sgabello davanti al bancone che Max non era ancora tornato dal suo viaggio in avanscoperta e Charlie stava ancora fumando la sua sigaretta.
“Salve, Steve! - esclamò Alisha sfilandosi anche il cappello e la sciarpa - come sta oggi?”
Steve, al suono della voce della ragazza, si voltò e si aggiustò gli occhiali tondi sul naso.
“Molto bene, Alisha. Grazie”.
I due scambiarono quattro chiacchiere fin quando Alisha non ordinò una tazza di tè alla rosa canina. Charlie e Max erano ancora chissà dove. Poi la porta del locale si aprì e ne entrò un ragazzo apparentemente normale e che nessuno avrebbe notato se non fosse stato per l'inappropriata camicia bianca che indossava e che aveva le maniche dalle spalle scese e il colletto rialzato, infilata nei pantaloni. Steve lo fissò imbronciato mentre il ragazzo si avvicinava al bancone. Sulla testa aveva una grossa matassa di capelli castani e ricci e dall'aspetto sembrava che non potesse avere più di un paio di anni in più rispetto ad Alisha. Quest'ultima lo osservò mentre si sedeva al suo fianco. Aveva lo sguardo estremamente confuso e una solcata ruga di preoccupazione tra le sopracciglia.
“Una birra, caro?” chiese Steve all'improvviso, facendo sì che Alisha si risvegliasse dai proprio pensieri e portasse gli occhi azzurri e grandi verso quelli del ragazzo.
“Dite a me? - domandò lui indicandosi il petto. Sorrise, poi, leggermente come se quello che stava per dire fosse la cosa più ovvia del mondo. - Preferirei una coppa di vino, se non vi dispiace”.
Steve ed Alisha alzarono velocemente le sopracciglia verso l'alto realizzando che sì, quello era il ragazzo più strano che si fosse presentato al ‘Benbow Inn’ da qualche anno a quella parte. Riflettendo sul fatto che molto probabilmente un bicchiere di vino rosso sarebbe potuto andare bene, Steve scomparve oltre una tenda dalle decorazioni azteche che separava la zona del bancone da quella della cucina. Alisha ed il nuovo ragazzo rimasero, così, soli. Per un attimo Alisha ripensò ai suoi amici ed al fatto che molto probabilmente poteva essere accaduto loro qualcosa, visto che non si facevano vedere da un po'; ma scacciò quel pensiero subito dopo.
“Dovresti smetterla di dare del Voi a Steve... ti fa sembrare vecchio” osservò Alisha sghignazzando.
A quel punto il ragazzo si voltò verso di lei con uno sguardo inquisitorio ed Alisha deglutì rumorosamente perché all'improvviso si sentì intimorita. Un paio di profondi occhi castani la scrutarono per parecchi secondi.
“È solo una questione di educazione” rispose l'altro piccato.
Alisha si coprì la bocca per nascondere una risata mentre l'altro ragazzo si guardava intorno incuriosito con una strana smorfia sul viso.
“Comunque io sono Alisha” disse lei porgendo una mano che il ragazzo non strinse. Tornò, invece, a guardare oltre il bancone come se la cosa che gli importava di più fosse quella stupida coppa di vino.
“Dovevo immaginare che foste voi, signorina” e stavolta il ragazzo la osservò con la coda dell'occhio.
Alisha per un attimo desiderò che Charlie o Max comparissero da un qualunque posto e la portassero via, ma di loro non c'era più traccia. Come non ce n'era più di Steve e di qualunque altra persona nel locale. Era tutto spaventosamente vuoto, realizzò Alisha mentre si guardava intorno. Sussultò quando il ragazzo parlò nuovamente, con un bicchiere di vino magicamente comparso davanti a lui.
“Io sono Jeremy e sì, vi stavo cercando”.
Quella dichiarazione aveva un non so che di spaventoso, ragion per cui Alisha fece rapidamente per portarsi una mano al medaglione rosso che aveva al collo, ma venne all'istante bloccata dalla voce di Jeremy e dalla sua mano che ora le stringeva il polso.
“Io non ci proverei se fossi in voi” disse, quindi, lui.
Alisha, perciò, tirò indietro la mano e strinse anche l'altra in grembo, guardando in basso. Nessuna delle persone esistenti sulla terra conosceva ciò che significava quel medaglione per Alisha fatta eccezione per i suoi due migliori amici. Che quel ragazzo fosse una specie di mago? Alisha rimase per un po' in silenzio a pensare all'assurdità di quella situazione fin quando il suo cellulare squillò; Alisha lo estrasse dalla tasca e lesse il nome di sua madre sul display. In un primo momento fu tentata di non rispondere, ma successivamente si ritrovò a pensare che qualunque cosa sarebbe stata meglio di quel silenzio carico di imbarazzo che si era fatto spazio nel pub mentre Jeremy beveva il vino in lenti sorsi.
“Tesoro - disse gentilmente la madre di Alisha dall'altro capo del telefono - a casa c'è un uomo che chiede di te”.
Alisha rimase interdetta, ma non ebbe il tempo di formulare nessun pensiero a quel proposito poiché la telefonata si interruppe bruscamente.
“Bene - esordì, allora, Jeremy stirando per bene le braccia - Lincoln dev'essere arrivato”.
Alisha saltò giù dalla sedia improvvisamente mentre osservava Jeremy ricomporsi per uscire dal locale. La confusione governava ogni suo singolo pensiero e in tutto quel trambusto c'era anche una punta di terrore, riconobbe Alisha.
“Fermo un attimo! - gridò in direzione di Jeremy, stendendo una mano verso di lui per bloccare il suo braccio - che sta succedendo? Non so nemmeno chi sei!”
Jeremy rilassò le spalle e la guardò sorridendo per un attimo. Quel sorriso fece capire ad Alisha che da quel momento non avrebbe più dovuto fare domande per parecchio tempo.
“È ora di utilizzare il medaglione, signorina Keene” sussurrò, quindi, il ragazzo come se altre persone avessero potuto effettivamente sentirlo.
Alisha sussultò di nuovo. Non poteva credere a tutto quello che aveva sentito da quando quel ragazzo aveva messo piede al ‘Benbow Inn’.
“Come sai il mio cognome?” gridò indignata.
Jeremy non rispose e guardò ancora davanti a sé. Era tutto così strano. C'era una piccola parte di Alisha, però, che irrazionalmente la spingeva ad andare in fondo a quella storia; ragion per cui prese istintivamente la mano di Jeremy - che era estremamente fredda e ruvida - e la strinse nella sua mentre portava già l'altra verso il medaglione che ora pulsava di un intenso colore rosso.
“Ora sta fermo, per favore” consigliò Alisha, e nel momento esatto in cui le sue dita affusolate e pallide toccarono il rubino, i due ragazzi sparirono portandosi dietro una scia di vento. Quando Alisha e Jeremy scomparvero, Charlie entrò nel ‘Benbow Inn’, Max uscì dal retro e Steve approdò dalla cucina, ma di Alisha e quello strano ragazzo non c'era più traccia.
 
 
   Ely si ritrovava spesso a percorre con l'indice destro la superficie del suo polso sinistro dove una volta si trovava rappresentato il simbolo dello yin e dello yang. Il suo tatuaggio era una delle tante cose che aveva perso nella sua nuova vita. Ricordava perfettamente il momento in cui l'inchiostro nero era stato espulso dai pori della sua pelle ormai diafana. Il nero era colato macchiando la sua camicia bianca. Quel primo shock era stato seguito da un altro cambiamento quasi peggiore. Un paio di giorni dopo al mattino si era ritrovato completamente privo di peli sulle braccia e sulle gambe, aspetto positivo se non fosse scomparsa anche la sua barba. Spesso quando era all'università lui e i suoi compagni organizzavano veri e propri concorsi per le basette meglio tenute, ispirandosi alle usanze dei secoli passati in cui i veri uomini si giudicavano dalle loro barbe. Ely aveva le basette più invidiate dell'ateneo, accompagnate da un paio di baffetti che gli conferivano un'aria da truffante. Da due anni a quella parte era liscio come una palla da biliardo, eccetto per i capelli castani che dopo la trasformazione erano diventati lucidi e resistenti come non mai. Quando si guardava allo specchio non riusciva a concepire l'idea che nessun filo argentato del tempo avrebbe mai segnato i suoi capelli. La sua condizione di eterno ventiquattrenne gli dava le vertigini. Aveva sempre temuto la vecchiaia ma il semplice fatto che ne fosse stato privato lo inorridiva. Inizialmente aveva creduto che avendo perso la sua umanità sarebbe stato capace di vivere alla giornata senza preoccuparsi di mettere radici in un posto. Il suo unico problema era che non era riuscito ad abbandonare la sua vecchia vita ed accettare quella nuova. Sapeva di non essere più un essere umano, ma non aveva neanche la forza di pronunciare il nome di ciò che era diventato. Non era mai stato un tipo scettico. Vivendo in una città misteriosa come Praga aveva imparato a credere a cose che tutti ritenevano pura fantasia. Il suo amore per la sua città e la sua famiglia avevano fatto sì che rimanesse ancorato al passato, anche se mantenere le vecchie abitudini gli costava un dolore immane. Combattere contro i propri istinti è come nuotare contro corrente: è possibile ma molte volte lo sforzo può uccidere. Tanto valeva provare, continuava a ripetersi, tanto la morte non era una sua preoccupazione. Perciò Ely lavorava ancora nel ristorante di famiglia e viveva come prima in uno sgangherato appartamento vicino al ponte più grande della città insieme ai suoi amici. Questi ultimi sapevano la verità. Era stato impossibile nascondere la verità e un po' per paura e un po' per bisogno di condividere le sue pene con qualcuno aveva raccontato loro quello che era successo. Inoltre sarebbe stato complicato sgattaiolare fuori per andare a caccia e inventare sempre scuse per giustificare il fatto che non mangiasse né bevesse alcunché. I suoi amici non provavano repulsione nei suoi confronti, probabilmente perché non pensavano alle vittime che Ely lasciava dietro di sé. La verità è che anche Ely cercava di dimenticare quell'immane e macabro particolare. Dopo la sua trasformazione aveva provato a dare la caccia al suo creatore, ma nonostante fossero passati più di due anni non lo aveva ancora trovato. Perciò aveva imparato come sopravvivere esclusivamente grazie alla sua esperienza personale andando per tentativi. Aveva appreso a sue spese gli svantaggi di una caccia in luoghi affollati: la frenesia del cacciatore non veniva mai placata di fronte alla possibilità di un numero maggiore di vittime. La cosa migliore era individuare un bersaglio isolato. Per questo motivo, ancora inesperto e spaventato, durante il primo anno si era comportato da predatore, cacciando gli esploratori che si avventuravano nei boschi vicino alla città. Ely si disprezzava e molte volte si rifiutava di cacciare arrivando ai limiti estremi della sua sopportazione. I suoi amici capirono che Ely temeva la sua natura mostruosa e perciò lo avevano aiutato a trovare una soluzione che lo sollevasse dall'essere un assassino. Gli avevano suggerito di rubare le scorte di sangue dai numerosi ospedali della zona. Il piano funzionò alla perfezione. Inoltre avendo egli sviluppato un estremo limite di sopportazione era in grado di nutrirsi in modo saltuario. Diciamo che in qualche modo aveva trovato una certa stabilità. Nonostante tutti questi aspetti negativi scoprire di poter stare alla luce del sole aveva alleviato parte delle sue angosce. Almeno fino a quando una sera si era recato all'ospedale cittadino per rubare una misera quantità di sangue. Come in tutte le sue incursioni era notte fonda, un'ora prima del cambio dei turni, quel momento in cui nessun infermiere è troppo lucido. Si era lanciato a tutta velocità nei corridoi, ma passando davanti ai ricoverati del pronto soccorso un rumore aveva attirato la sua attenzione. Il ritmo di un cuore troppo accelerato. Quel cuore apparteneva ad una ragazza sdraiata in un letto in fondo al dormitorio. Ely, come se richiamato da quel suono si avvicinò.
 
 
   Quando approdarono dall'altra parte, Alisha cadde a terra con un tonfo ed il corpo di Jeremy atterrò di peso sopra di lei. Rimasero entrambi per un attimo storditi - Jeremy non era abituato a teletrasportarsi, mentre ad Alisha succedeva ogni volta che lo faceva - ed un attimo dopo il ragazzo si alzò pulendosi i pantaloni marroni sulle ginocchia. Quella che si ergeva davanti a loro era la casa di Alisha. Ormai il cielo si era fatto cupo e nel giardino di casa una cavalla dal manto nero ruminava l'erba scalciando innervosita. Jeremy le si avvicinò nonostante Alisha gli stesse già gridando di fare il contrario. La cavalla rimase intenta nel suo compito nonostante il ragazzo le stesse ormai accarezzando il dorso.
“Va tutto bene, Olimpia - sussurrò Jeremy al suo orecchio - va tutto bene”.
La cavalla nitrì leggermente e scalciò all'indietro. Alisha decise di avvicinarsi lentamente per lo meno per scoprire cosa ci faceva un cavallo nero nel suo giardino. Non che fosse la cosa più strana che avesse mai visto. Jeremy accarezzava ritmicamente la criniera nera, quando Alisha si fermò alle sue spalle.
“Il cavallo è tuo?” chiese, dunque.
“È una femmina. E si chiama Olimpia” rispose Jeremy.
Alisha notò che nella sua voce c'era qualcosa che assomigliava ad un velo di nervosismo. Decise di non pensarci e scrollò le spalle. Mentre si avviava verso casa vedeva dalle finestre la figura di sua madre camminare avanti ed indietro per tutto il salotto. Si chiese chi c'era ad aspettarla e che cosa quella persona c'entrasse con Jeremy, visto che lui sapeva il suo nome.
Aprì la porta con la sua copia delle chiavi e la lasciò socchiusa in modo tale che Jeremy potesse entrare non appena avesse voluto, o quantomeno non appena Olimpia avesse deciso di smettere di fare i capricci. Tolse le scarpe - come faceva d'abitudine - e le appoggiò affianco a quelle che probabilmente erano dello sconosciuto: un semplice paio di stivali marroni. Alisha prese un bel respiro e quando giunse in salotto fu sorpresa di vedere di nuovo Jeremy davanti a sé. Sbatté più volte le palpebre e si affacciò sul giardino per controllare che il ragazzo fosse lì fuori; e infatti Jeremy stava ancora accarezzando la chioma della cavalla. Alisha si voltò di nuovo.
“Salve, signorina Keene” disse l'altro Jeremy. Che quello fosse un altro dei suoi giochetti? Alisha non poteva dirlo. Quello di cui era sicura, però, era che la voce dell'altro Jeremy non era la stessa del vero Jeremy. Alisha era così confusa. Si premette la mano sulla tempia per un secondo. Vedendo che la ragazza non accennava a reagire, l'altro continuò: “io sono Lincoln e sono qui per parlarvi di una cosa”.
Ora Alisha riconobbe il nome che Jeremy aveva pronunciato al ‘Benbow Inn’ e notò anche che Lincoln aveva una cicatrice che prima non aveva visto e che gli attraversava la fronte per obliquo. Alisha si chiese come se la fosse procurata. Per il resto era identico a Jeremy, compresi i vestiti. Alisha si sedette sulla poltrona e porse gli occhi azzurri verso Lincoln, il quale sorseggiava tranquillo una tazza di tè del miglior servizio di sua madre. A proposito, lei dov'era? Alisha iniziò ad agitarsi.
“Dunque, oggi farete le valigie e verrete con noi, signorina Keene. Il resto vi verrà spiegato poi”.
Alisha boccheggiò per un attimo, ma rimase immobile. Notò solo allora che Lincol parlava nello stesso strano modo di Jeremy.
“Non capisco - disse solamente - cosa volete da me?”
Lincoln sospirò ed appoggiò la tazza sul tavolino con le movenze di un uomo d'affari. Si passò una mano tra i capelli che, guardandoli bene, erano leggermente più corti di quelli di Jeremy.
“Conoscete sir Alexander Gropius? domandò portando gli occhi profondi verso Alisha.
Quello sguardo le fece correre un brivido lungo la colonna vertebrale; scosse la testa velocemente.
“Lo scoprirete presto, signorina Keene”.
Alisha sbatté le palpebre un paio di volte.
“Che stai dicendo? Chi sei? Come conosci il mio cognome? E come faccio a fidarmi di te?”
Le parole le uscivano dalla bocca come un fiume in piena. Istintivamente guardò fuori dalla finestra alla ricerca di Jeremy e sbarrò gli occhi quando si accorse che una carrozza era comparsa nel vialetto. La testa iniziò a girarle. Tentò di alzarsi, ma non appena i suoi piedi toccarono terra le ginocchia cedettero ed Alisha rischiò di cadere rovinosamente a terra se Lincoln non fosse arrivato per prenderla al volo.
“Fidatevi di noi, signorina Keene”.
Per un attimo Alisha rimase imbambolata a fissare quegli occhi così magnetici, poi scosse il capo e cercò di ricomporsi.
“Chi è Alexander Gropius?” domandò con un sussurro ancora fra le braccia di Lincoln.
Quest'ultimo la aiutò a tirarsi su e si allisciò le parti in cui la camicia si era arricciata in piccole pieghe.
“Vedete, pensiamo che il mondo sia in grave pericolo. E non parlo solo di questo mondo. Sir Gropius non è un tipo con cui si scherza, sta tramando qualcosa e noi lo fermeremo”.
Alisha lo fissò a bocca aperta. Quello che stava dicendo sembrava così strano, a sentirlo. Si prese un attimo per pensarci; in realtà voleva decidere da che parte cominciare per fare domande. Era tutto così assurdo che anche la più semplice domanda sembrava stupida alle orecchie di una qualunque persona. Alisha sospirò.
“Perché proprio io?” chiese.
Lincoln sorrise. “Avete capacità che neanche immaginate, signorina”.
Alisha sorrise a sua volta. Lincoln era così identico, ma al tempo stesso diverso da Jeremy. Si stupì che in quella minuscola frazione di tempo fosse riuscita a carpire dei tratti della loro personalità. Decise che quello non era il momento di pensarci.
“Va bene, ma cosa dirò a mia madre?”
“Ci abbiamo già pensato noi, signorina. Di questo non dovrete preoccuparvi. Vostra madre vi crederà in viaggio per degli studi”.
Alisha aggrottò le sopracciglia. Era strano per una ragazza che non aveva ancora finito il liceo partire per un viaggio di studi. Ma d'altronde, cosa non era strano in tutta quella situazione? Charlie e Max avrebbero di sicuro sospettato qualcosa, se non altro perché quei due sembravano conoscere Alisha meglio di quanto lo facesse lei e riuscivano a riconoscere quando mentiva anche con un solo sguardo. Si sentì tremendamente nervosa.
Lincoln, nel frattempo, aveva finito la sua tazza di tè e si stava rinfilando gli stivali con l'eleganza di un aristocratico. Alisha sussultò quando vide Jeremy sul ciglio della porta osservarla con sguardo severo e braccia conserte mentre lei osservava il suo fratello gemello.
“La carrozza è pronta” annunciò, quindi, ed Alisha a quel punto capì che era tutto vero e che non si era immaginata nulla. Forse non era del tutto uno scherzo. Le ci vollero parecchi minuti prima che il suo flusso di pensieri si fermasse all'idea che sarebbe andata con loro. Salì a preparare i bagagli.
 
 
   Aveva immediatamente riconosciuto i segni della trasformazione nel corpo della ragazza. Era pallida, troppo pallida, ma sembrava in preda ad una fortissima febbre. Un rivolo di sudore le solcava il volto contratto in una smorfia di dolore. I medici evidentemente l'avevano riempita di morfina, così dall'esterno non si notavano i segni del fuoco che divampava dentro di lei. Ely non resistette all'impulso e prese la cartella medica che era inserita nella bacheca ai piedi del letto. Come c'era da aspettarsi nessun dottore era stato in grado di individuare ciò che stesse provocando quei sintomi. Ma Ely ne era quasi certo. Un solo particolare lo fece rabbrividire: secondo il profilo, la ragazza aveva riportato una grave ferita a seguito di un morso, probabilmente di un grosso cane. Ora, non poteva più trattarsi di un morso provocato da semplici canini, come quello che aveva trasformato Ely. Il ragazzo avendo ormai quasi compreso la verità, abbassò leggermente le coperte della ragazza fino a scoprirne le spalle. La spalla sinistra era stretta da una pesante fasciatura, che però non fermò il ragazzo. Con la delicatezza di cui era capace solo a seguito della trasformazione, iniziò a rimuovere gli strati fino a scoprire una zona di carne completamente dilaniata. Ely spalancò gli occhi. Quello era un morso di lupo, ma non di un lupo qualsiasi. Il suo primo pensiero fu che quella ragazza non dovesse essere lì al momento del risveglio. Sarebbe stato troppo pericoloso per gli altri pazienti. In fin dei conti non era compito suo, però se poteva evitare una strage preferiva farlo. Lei si sarebbe svegliata trasformata con i ricordi confusi e circondata da sconosciuti. Anche se non avesse avuto una reazione violenta, lo shock avrebbe potuto ucciderla. Doveva pensare in fretta perché a breve l'infermiera del turno successivo avrebbe svegliato quella che dormiva nel reparto in cui si trovava Ely.
Richiudendo la fasciatura in maniera approssimata, cercò di issarsi la bella addormentata sulle spalle. Perché nonostante la febbre e i sintomi della trasformazione era veramente bella. C'era ancora qualcosa di infantile nei suoi tratti, avrà avuto al massimo 18 anni. Era molto più leggera di quanto si aspettasse e nel sollevarla per poco non perse l'equilibrio, ma lei non si svegliò. Sembrò sprofondare ancora più nel suo sonno e nel dolore. Convulsamente si strinse a lui. Ely chiuso in quella morsa rinunciò alle scorte di sangue e si diresse a grandi falcate all'uscita. Una volta alla porta inserì nuovamente l'allarme e riaccese le telecamere che come ogni volta aveva spento. Soltanto all'aria pungente della notte si accorse che nonostante lui non sentisse il freddo la ragazza tremava a causa della febbre. Sostenendola con la forza di un solo braccio, con l'altro prese il cellulare dalla tasca e compose il numero del suo appartamento. Qualcuno rispose dopo numerosi squilli.
“Ced sono io. Scusa, ma ho bisogno che tu venga a prendermi. Sai perfettamente dove sono. Sbrigati”.
La macchina di Cedric comparve dopo un tempo che sembrò lunghissimo. Nel frattempo Ely teneva tra le braccia quella ragazza senza nome che tremava al freddo. Si sentì stupido a non aver preso anche una coperta, ma non ci aveva veramente pensato. Ormai aveva dimenticato le vecchie abitudini che aveva da umano. Quando dei fari gialli sbucarono in fondo alla strada Ely si nascose. Voleva assicurarsi che fosse il suo amico. Un ragazzo scese dallo sportello posteriore, ma non era Cedric.
“Mik, cosa ci fai qui?!”
“Ced credeva ti servisse una mano così mi ha portato. Cos'hai in braccio?”
Ely si avvicinò all'amico che accorgendosi della ragazza impallidì.
“Ely non sono complice di un rapimento, vero?!”
“Mik stai zitto e aiutami”.
Sotto gli sguardi sbigottiti di Mik e poi di Cedric, Ely si accomodò sul sedile posteriore facendo poi sistemare con l'aiuto di Mik la ragazza sdraiata con la testa sulle sue ginocchia.
“Ced dobbiamo sbrigarci. Non può risvegliarsi qui in macchina”.
Cedric mise in moto e partì a tutta velocità chiedendo però spiegazioni.
“Ragazzi non so chi sia, ma posso solo dirvi che è come me. Cioè quasi come me. Aveva bisogno di aiuto”.
I suoi amici sembrarono soddisfatti della risposta e preferirono rimanere in silenzio. Ely intanto aveva coperto la ragazza con un telo da mare che Cedric aveva in macchina. Lei intanto iniziava ad agitarsi sempre di più. Pregò che non si svegliasse proprio vicino ai suoi amici. Aveva paura per lei, ma ancora più che potesse fare del male a Mik e Cedric. Soltanto una volta aveva avuto a che fare con un licantropo e non era stato molto piacevole. Però guardando quegli occhi chiusi e le labbra piene contratte in una smorfia di dolore non riusciva a convincersi che una creatura del genere potesse essere un pericolo. La vedeva come una vittima. Arrivarono al loro appartamento in pochissimo e immediatamente si fiondarono tutti fuori dall'auto. Presero il vecchio ascensore che nessuno usava mai e si ritrovarono davanti alla porta 12e. Era stato sempre Ely a portare la ragazza mentre i suoi amici lo seguivano a fatica cercando di mantenere il passo. Fu il quarto coinquilino, Hazael, ad aprire loro la porta. Cedric lo spinse da parte intimandogli di fare silenzio. Qualche minuto più tardi Ely si ritrovò solo con la ragazza, mentre i suoi coinquilini si erano rintanati in cucina, un po' perché era stato loro imposto e un po' perché erano spaventati. Si consideravano ancora dei novellini per quanto riguardava il soprannaturale e prima di allora Ely non aveva mai portato a casa un suo simile, per di più una ragazzina. Il loro amico nel frattempo aspettava che quest'ultima riprendesse conoscenza. L'aveva sistemata nel suo letto e lì, completamente coperta fino al mento assomigliava terribilmente ad una bambina addormentata che lottava contro i brutti sogni. Ely stava ancora pensando a come si sarebbe dovuto comportare quando improvvisamente la ragazza si svegliò. Iniziò a gridare e cercava di sollevarsi senza riuscirci. Infatti Ely le teneva le mani sulle spalle evitando così che potesse scappare o aggredirlo. Aspettò che si calmasse e che smettesse di gridare.
“Non preoccuparti. Non ti farò nulla. Voglio solo aiutarti. Ricordi qualcosa?”
La ragazza puntò i suoi occhi in quelli di Ely.
“Autumn, Autumn”.
“Si so che siamo in autunno. Ricordi almeno il tuo nome?”
Ma la ragazza continuava a ripetere sempre la stessa parola. Allora si sentì bussare alla porta. Era Mik.
“Ely credo che si chiami Autumn, sai?”
Ely si diede dello stupido. Ringraziò il suo amico e lo rispedì fuori.
“Va bene ho capito. Autumn, io sono Ely. Ti ho trovato in ospedale e ti ho portato qui a casa mia. Lì non potevi stare. Come ti senti?”
Intanto Autumn veniva ritrascinata nel suo vortice di incubi e ricordi, incapace di distinguere gli uni dagli altri. Tutto il dolore che sentiva era la prova innegabile che qualcosa di grave le fosse accaduto, ma il non riuscire a ricordare la spaventava anche durante il sonno. Ely la vedeva agitarsi, ma non poteva fare nulla. Inoltre il mancato rifornimento della notte precedente iniziava a farsi sentire. Aveva la sensazione di una lama conficcata nella gola e tutti i suoi muscoli bruciavano. Si disse che avrebbe potuto affidare Autumn ai suoi amici per un paio d'ore. Loro sembravano consapevoli della grande responsabilità ma rassicurarono Ely che, dopo aver gettato un'altra occhiata alla sua stanza, si gettò in strada di gran carriera ormai incapace di resistere al richiamo del sangue. Essendo ancora molto presto la sua incursione non era stata ostacolata e si nutrì immediatamente assicurandosi però di prendere qualche provvista senza terminare le scorte ospedaliere per non dare nell'occhio e firmare la condanna a morte di molti malati. Non appena mise piede fuori dall'ospedale ricevette una chiamata da un'allarmato Hazael. Ely corse verso casa come non aveva mai fatto prima d'allora. Trovò Mik che andava su e giù per il corridoio davanti la porta dell'appartamento.
“Mik, cosa è successo? Vi ha fatto del male?”
“Poco fa si è svegliata. Ced era seduto accanto a lei e le stava bagnando la fronte con una pezza. Deve essersi spaventata e lo ha scaraventato fuori dalla porta. Poi si è chiusa dentro”.
“Ced e Haze?”
“Ced era terrorizzato così sono scesi in cantina. Sì, i nostri amici sono dei grandi uomini”.
“Mik vai da loro e fammi sapere se vi serve qualcosa”.
Mik annuì e si lanciò fuori dall'appartamento. Ely si diede un attimo per ricomporsi. Un cuore che ormai non batteva più poteva aver accelerato? Iniziava a pensare che magari aveva fatto una scelta sbagliata trascinando i suoi amici nel suo nuovo mondo. Era stato terribilmente egoista e ora avrebbe dovuto accettarne le conseguenze. Fece un altro respiro profondo anche se non aveva bisogno di aria e bussò alla sua porta.
“Sono Ely per favore aprimi. Voglio soltanto vedere come stai”.
Ely sentì i passi della ragazza andare verso la porta. Il fatto che si fosse avvicinata gli dimostrava che si fidava abbastanza di lui.
“Il tuo amico sta bene? Non volevo fargli male. Mi ha spaventata”.
Di tutto quello che avrebbe potuto dirgli, gli chiedeva notizie di Ced. Ely era sbalordito, e lo fu ancora di più quando sentì scattare la serratura. Nel tempo che lui impiegò per entrare, Autumn era già tornata sotto le coperte e lo fissava.
“Non preoccuparti. Ced sta benissimo, si è solo spaventato”.
“Aveva paura di me?”
“Come dargli torto. Non si aspettava di essere lanciato da una ragazzina. A proposito, quanti anni hai?”
“Diciassette. Comunque prima non capisco cosa sia successo. Ho dei ricordi molto confusi. A dire la verità non ricordo nulla prima del momento in cui mi sono svegliata qui”.
“Allora stai tranquilla. Cercherò di aiutarti. Dunque ricordi il tuo nome e la tua età. Qualcos'altro?”
Autumn nella sua mente vedeva solo buio. Si sforzava di pensare ad un luogo o ad un nome che potessero in qualche modo essere collegati a lei. Prima delle immagini della camera da letto, di Ely e degli altri ragazzi non c'era nulla.
“No. Cosa mi è successo? Secondo te come mi sono ferita?”
“Ti fa ancora molto male?”
Il rumore del campanello interruppe la loro conversazione. Evidentemente i suoi amici avevano deciso di rientrare. Ely fece cenno a Autumn di rimanere dov'era e andò ad aprire. Sulla soglia non c'erano né Mik né Cedri né Hazael, ma un omiciattolo dalla pelle viola alto poco più di mezzo metro. Ely gridò e fece un passo indietro. L'essere si intrufolò in casa.
“Ho un messaggio per il signor Ely Jed”.
 
 
   Il sole stava tramontando e Meldon e Brethil stavano terminando di cenare quando qualcuno bussò alla porta.
“Speriamo che sia zia Annael con un bel dolce” scherzò lui.
Aprì la porta. “Ophelia Darkgem! A cosa devo la tua visita?” una visita piuttosto inaspettata.
“Ciao, mi dispiace disturbare … hai dimenticato il tuo arco” disse in fretta, come se volesse giustificarsi.
“Ah, grazie! Hai analizzato una qualche traccia su questo per trovarmi?” domandò mentre spalancava la porta insistendo perché entrasse; anche se lei sembrava non averne nessuna intenzione.
“Sì… almeno in quello sono capace” affermò sempre col sorriso in volto, continuò: “preferisco andare, non tutti la pensano come te sulle streghe da queste parti”.
“Non dire sciocchezze, qui sei la benven…” non riuscì a completare la frase che Brethil comparì tra loro.
“CIAO! - esclamò eccitata - chi sei? Aspetta ma quella è una bacchetta! Sei una strega!”
“Sì,ciao! - disse imbarazzata - sono Ophelia - si accucciò all’altezza della piccola elfa - te devi essere Brethil … se i miei poteri magici non sbagliano”
Brethil assunse un’ espressione incredula e sorpresa, un sorriso immenso le si stampò sul viso e trascinò Ophelia dentro. Intanto Meldon sghignazzava consapevole della collana che la sorella portava con su inciso il suo nome.
Brethil la fece sedere su una poltroncina di vimini, entusiasta di aver trovato una nuova amica e iniziò a sparare domande a raffica. Ophelia era davvero stupita da quell’accoglienza. Anche se voleva farsi da sola un’idea delle altre specie, era stata comunque influenzata dai pregiudizi degli stregoni. Una volta trasferita avrebbe voluto stare alla larga dagli elfi, almeno per i primi tempi, e andare in città solo per estrema esigenza. Era una strega giovane e sbadata e preferiva non creare confusione in quello che era uno dei regni più tranquilli e soavi. Invece fu tutto il contrario di ciò che aveva previsto. La mattina aveva incontrato una creatura buona e gentile che era stata subito pronta ad aiutarla e ora si trovava nel suo salotto a chiacchierare animatamente con un’adorabile elfa che sembrava apprezzarla più di quanto nessuno avesse mai fatto, perlomeno dal primo incontro. Però era stato un caso conoscerli, infatti la giornata non era ancora finita. D’un tratto, come era solito fare, un altro giovane elfo varcò la porta e ovviamente si aspettava di trovare Meldon e sua sorella. Alla vista di un essere senza orecchie affilate rimase immobile e impugnò allarmato l’ascia che spuntava dalla cinta dei pantaloni.
“Brethil, allontanati” disse secco.
Salito al piano di sopra, Meldon tornò appena in tempo per assistere alla scena e riportare la situazione sotto controllo.
“Narwain, no! Va tutto bene, lasciala stare” esclamò mentre si fiondava verso l’amico incitandolo ad abbassare l’arma.
Brethil non si era separata da Ophelia che ora in piedi, era terrorizzata da quello sguardo minaccioso e freddo che la scrutava e che non sembrava avesse intenzione di mollarla.
“Dai, su” continuò Meldon vedendo che l’altro allentava la presa sulla lama. Chiuse la porta dietro di lui e lo portò su una di quelle poltrone di vimini.
“Si chiama Ophelia Darkgem, si è trasferita nel bosco dei Fauni. E’ innocua” disse calmo, come se stesse sussurrando. Ophelia li guardava preoccupata, e anche stupita da come era stata descritta. Innocua ... è il giusto effetto che deve fare una strega? Non era il momento di pensarci, temeva la reazione di Narwain, quell’elfo così diverso da Meldon, o forse era lui che stava fingendo e non lo aveva capito.
“Da quando ospiti delle megere in casa tua?” chiese impassibile mentre si sedeva, ancora riluttante.
Meldon fece per ribattere, ma Ophelia risvegliata da quell’offesa avanzò verso di lui con la bacchetta puntata, guardandolo dall’alto in basso. A quel punto Narwain si alzò e si mosse così velocemente che Ophelia non riuscì neanche a vederlo. Si trovò contro il suo petto e con l’ascia puntata alla gola.
“Smettetela! tutti e due!” intervenne infuriato Meldon mentre li separava e sfilava agilmente le armi dalle loro prese. Infilzò sia la spada che la bacchetta nel vaso di una pianta e mutò ogni tentativo di protesta con uno dei suoi sguardi impazienti e gelidi.
Ophelia si ricompose ed educatamente affermò: “piacere…”.
Narwain non fece di meglio. La cosa più gentile che gli uscì fu: “salve”, che detto con quell’ostilità sembrava volesse attaccarti da un momento all’altro.
“Beh, è già un inizio - sostenne Meldon che sapeva che avrebbero continuato a guardarsi in cagnesco ancora per molto - allora Narwain, ci sono novità dal Nido? E’ stata confermata qualcuna delle nostre previsioni?”
Narwain distolse finalmente lo sguardo dalla strega e si diresse verso la finestra.
“Ancora niente … ormai è passata una settimana. Credo che dovremmo accettare di esserci sbagliati … che noia” sbuffò.
“No. Non sbaglio mai lo studio del cielo” ribatté l'altro altezzoso.
“Che succede? Che previsioni?” intervenne Ophelia.
Meldon respirò profondamente e con voce ferma e precisa spiegò: “qualche giorno fa, nella fase crescente della luna, ho osservato il cielo per studiare gli spostamenti graduali degli astri, ma ho notato qualcosa di insolito. Poche stelle, poca luce. Non è mai un buon segno. Una strana atmosfera dominava la notte e ho sentito un grave presentimento. C’è qualcosa che non va, qualcosa sta per succedere … ma cosa? … e quando?” concluse abbassando sempre di più la voce come se stesse pensando tra sé e sé.
“A quanto pare stiamo per saperne di più” riprese Narwain spalancando la finestra e prendendo al volo un piccolo rotolo di pergamena.
 
La minaccia di un malvagio attacco ai nostri regni è sempre più vicina. Tutti gli aiuti possibili saranno ben accetti e necessari. Appuntamento al quartier generale, il Nido. In fede,
Ben Werefkin


 
Note della autrici:
saaaalve, Mondo! Se siete arrivati fin qui in questa noiosa mattinata di sabato significa che la storia non deve essere tanto male, il che ci riempie di gioia. Volevamo fare alcune precisazioni: la prima è che questa storia è totalmente frutto della nostra immaginazione e non si riferisce a nessun personaggio realmente esistente; la seconda è che ci scusiamo in anticipo se qualcosa non dovesse quadrare (nei filoni o anche nella parte grammaticale), ma purtroppo essendo in tre (ed anche principianti, tra l'altro) le idee ci si confondono molto spesso; la terza è che per scrivere solamente questo capitolo ci abbiamo messo tutte noi stesse, quindi la nostra speranza è che qualcuno lo trovi almeno un minimo interessante.
Detto questo vi lasciamo al resto di questa emozionantissima mattinata con la speranza che qualcuno si faccia sentire.
A presto :)
   
 
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