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Autore: rotondum    17/01/2015    1 recensioni
«Mi piaci», gli bisbiglia all’orecchio e Gianluca sente un groppo alla gola mentre affonda di più le dita nella stoffa della sua maglietta.
Sono passati quattro mesi e Marco non gli ha ancora detto “ti amo”.

[Marco/ Gianluca]
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gianluca Zanardi, Marco Maseratti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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empty train (like you)



Fa freddo; è l’unica cosa a cui riesce a pensare mentre si chiude dietro la porta di casa. Si stringe un po’ di più nella sciarpa che ha tirato su fin sopra la punta del naso e da’ un’occhiata veloce alle strade deserte del quartiere. 
Sono le sei e cinquanta di mattina e l’aria gelata degli inizi di novembre gli punge la pelle, gli penetra fin dentro le ossa e lo fa tremare più del solito. Gianluca ha sonno e tutto ciò che vorrebbe fare è tornare sotto le coperte, ma sa che non è possibile perché a casa c’è sua mamma che urla e lo accusa, sta’ zitta e poi ricomincia, gli sbatte in faccia la sua (pessima) pagella e continua a gridare. Allora si limita a camminare in silenzio mentre un sospiro gli sfugge dalle labbra.

 

Il treno è deserto come al solito, ma a Gianluca non dispiace. La mattina è più irritabile del solito e gli starnazzi dei liceali contribuirebbero solo ad innervosirlo più di quanto già non sia. Si siede in uno dei tanti posti vuoti e chiude gli occhi, nella speranza di recuperare un po’ del sonno che l’ennesima notte insonne gli ha tolto; ma nemmeno passano tre minuti che sente le porte del vagone aprirsi e non riesce a trattenere un sospiro esasperato perché già teme che la sua quotidianità possa venire stravolta – chi vede entrare è un ragazzo della sua età, i capelli rossi scompigliati e la giacca aperta: si guarda attorno confuso e stravolto, sembra di ritorno da una maratona e mentre Gianluca rimugina sul fatto di non aver mai incrociato quegli occhi smeraldini prima d’ora non si accorge che lo sconosciuto gli si è avvicinato e lo sta guardando dall’alto. E’ la sua (inutile) domanda a riscuoterlo dai pensieri e a costringerlo ad usare la sua voce. 
«E’ libero il posto?».
Gianluca si concede di assottigliare gli occhi e far passare qualche secondo prima di rispondere; vorrebbe chiedergli se è cieco e non vede che ci sono solo loro sul veicolo o perché sente proprio la necessità di sedersi vicino a lui e vorrebbe dirgli che la risposta è scontata, ma si limita a schiudere le labbra in un «sì» a malapena sussurrato. 
Il ragazzo gli sorride sereno e si siede proprio mentre una voce metallica annuncia la partenza del treno. Il resto del tragitto lo passano in silenzio.

 

Il ragazzo che ha visto stamattina è un nuovo studente. Gianluca lo viene a sapere dalle alle sue compagne di classe che ne parlano già alla prima ora: “chissà se è carino”, “mi hanno detto che ha i capelli rossi”, “allora avrà anche le lentiggini!”. 
Ma quei sogni ad occhi aperti vengono stroncati sul nascere dall’insegnante di fisica il quale annuncia loro che il ragazzo è già stato trasferito in un’altra terza. Gianluca riesce a captare qualche esclamazione delusa, ma non ci vuole molto prima che altri discorsi sostituiscano la novità. 
A lui non interessa niente di tutto ciò, si limita a chiudere gli occhi per cercare di scappare – da cosa, poi, non ne ha idea. Se da piccolo erano i mostri sotto al letto a spaventarlo adesso è la vita che tenta in ogni modo di sopprimerlo ed è una tale contraddizione che a volte non sa più cosa pensare. Appoggia solo il volto sul banco e si concede un sonnellino, cullato dalla roca voce del professore.

 

«Mi chiamo Marco».
E’ la nona mattina quando Marco gli confessa il suo nome. Gianluca lo sa perché le ha contate, tutte le volte in cui il ragazzo è salito a pochi secondi dalla partenza e tutte le volte in cui ha continuato ostinatamente a chiedergli il permesso per sedersi di fianco a lui; è diventata una routine che, anche se si costringe a pensare il contrario, in realtà non gli dispiace, perché se a prima vista Marco gli è sembrato fin troppo rumoroso si è rivelato intenzionato a rispettare il suo sacro silenzio e a lasciarlo in pace. 
«Non te l’ho chiesto». Sa di risultare scontroso e si chiede se l’essere insopportabile non sia nei suoi geni, perché altrimenti non si spiega perché certe risposte gli escano spontanee.
Ma Marco non si lascia scoraggiare e sorride. 
«Lo so, ma dai, ci siamo solo io e te, quindi pensavo – beh, andiamo anche nella stessa scuola, quindi potremmo conoscerci meglio…?». Ridacchia con le guance imporporate, Gianluca non sa dire se per il freddo o per la paura di aver fatto una figuraccia.
Passa circa mezzo minuto durante il quale continua a chiedersi se approfittarne o chiudersi nella sua corazza come sempre ha fatto e sempre farà, buttare l’occasione e un possibile nuovo legame. Abbassa lo sguardo. 
«…Io sono Gianluca».
«Posso chiamarmi Gianlù?».
«No».
«Okay, Gianlù».
E mentre Marco ride, Gianluca non sa dire se quel sorriso sarà la sua salvezza o la sua tomba.

 

Marco è in terza D, a due classi di distanza dalla sua. Lo sa sempre grazie alle sue compagne che non perdono tempo durante gli intervalli a sgattaiolare in gruppo davanti alla porta dell’aula e a chiamare il suo nome ridacchiando stupidamente. Gianluca si morde il labbro inferiore e una strana morsa gli attanaglia lo stomaco mentre guarda il ragazzo dai capelli rossi rivolgere a delle stupide Barbie con tre chili di fard lo stesso sorriso che gli rivolge la mattina in treno da quelle che ormai sono tre settimane – nemmeno a dirlo, ha continuato a contare i giorni come una dannata ragazzina alla prima cotta. 
Non ha detto a nessuno che l’onore di prendere lo stesso treno del nuovo studente spetta a lui perché in quel caso tutte gli sarebbero addosso e lo sommergerebbero di domande e a Gianluca proprio non va, di stare al centro dell’attenzione. 
Marco col passare del tempo ha iniziato a diventare sempre più popolare e adesso non passa giorno senza che qualche ragazza gli dia il proprio numero. Gianluca non ne è stupito perché un ragazzo bello e allegro come lui non ha nulla da invidiare a nessuno, se l’è ripetuto fin dal primo giorno in cui l’ha visto. Eppure, mentre continua ad osservarlo ridere e parlare con qualcuno che non è Gianluca stesso, uno strano peso all’altezza del petto lo assale e non può far altro se non distogliere lo sguardo e sentirsi schifosamente in colpa.

 

«Hai la ragazza?».
Marco lo guarda con gli occhi sgranati perché tutto meno che quella domanda si aspettava da Gianluca. Apre le labbra e cerca di trovare una risposta che si adatti ma le richiude senza aver emesso alcun suono e passa qualche secondo prima che se ne esca con un «eh?» dubbioso. 
Solo in quel momento Gianluca si accorge di quanto possa suonare fraintendibile un quesito del genere se posto così nel bel mezzo del nulla e arrossisce un pochino senza perdere tempo per correggersi. 
«Insomma, ero solo curioso… sei abbastanza popolare».
Marco inclina un po’ la testa e lo continua a guardare con gli occhi liquidi, causa i numerosi sbadigli emessi poco prima. Il treno è partito da qualche minuto e sono a malapena le sette e mezza, ma Gianluca riesce ad intravedere con una punta di sollievo che il cielo nuvoloso fuori dai finestrini ha già iniziato a schiarirsi – insolito, considerato che è dicembre e fa un freddo cane. 
«E’ perché ieri alcune tue compagne sono venute a parlarmi?».
Il ragazzo annuisce leggermente e aggiunge qualcosa: «mi chiedevo se avessi accettato di uscire con qualcuna di loro». Evita di dar voce al fastidio che lo assale anche solo pensando a quella non tanto remota evenienza. 
Ma Marco ridacchia senza distogliere lo sguardo che invece il ragazzo dai capelli neri sembra proprio intenzionato a non incrociare. 
«No, non esco con nessuna. Non sono interessato».
E allora Gianluca si chiede quali possano essere se non le belle ragazze gli interessi di un diciassettenne nel pieno degli ormoni adolescenziali, ma evita di esporgli i suoi pensieri e resta in silenzio mentre l’altro prende a canticchiare felice un motivetto che non ha mai sentito prima.

 

Gianluca è grato per aver preso la maggior parte delle sue caratteristiche da proprio padre. Le urla sono troppe acute, gli perforano le orecchie e sembrano intenzionate a volergli manomettere l’udito. E’ così fastidiosa, pensa mentre si sbatte la porta di camera sua dietro le spalle e le grida si fanno un po’ più ovattate ma non spariscono del tutto. Gianluca ha portato l’ennesima insufficienza a casa e sua madre non ci ha messo molto ad alzare la voce e prendere a lanciare qualsiasi cosa le fosse capitata sotto mano – “sei un fallito”, “non andrai da nessuna parte”, “cosa ho sbagliato con te?”. Sono parole che ha sentito dire così tante volte che ormai non fanno neanche più male. 
Si butta sul proprio letto con un tonfo e abbassa le palpebre. Tutto ciò che vuole fare è cercare d’isolarsi da quella che sembra essere una routine quotidiana, ma non è così facile come si costringe a pensare. Gli manca suo papà che non vede da un mese ma infondo non può biasimarlo per essere scappato via; la mamma è riuscita a scocciare anche lui e del fatto che aveva un’amante Gianluca ne era già a conoscenza da tempo. 
Fuori è buio e non c’è traccia di stelle. E’ maledettamente stanco, come ogni sera; vorrebbe dormire e cullarsi in un mondo fatto d’illusioni, ma il sonno non sembra minimamente intenzionato a volerlo nemmeno sfiorare e il ragazzo è costretto a sorbirsi quelle urla ancora per un po’, finché tutto non si calma e il silenzio piomba in casa veloce e inaspettato.

 

«Gianlù, non hai dormito stanotte?».
A volte si chiede se Marco lo faccia apposta solamente per irritarlo. Eppure quegli occhi spalancati brillano di vera curiosità e le sopracciglia inarcate gli danno quell’aria un po’ preoccupata che Gianluca non sopporta. L’esasperazione lo coglie. “Non già di prima mattina”, pensa senza un apparente motivo. 
«Da che cosa l’hai capito?», chiede, un velo di sarcasmo mal celato che cola insieme a un’occhiataccia; ma Marco non si fa intimidire e si ostina a non distogliere gli occhi.
«Vedi? Sei più acido del solito. Mi rispondi male. E poi hai le occhiaie». Allunga le dita fino a sfiorargli una guancia; quel contatto inaspettato causa brividi a fior di pelle al ragazzo dai capelli neri. I polpastrelli di Marco sono gelati e prima o poi glieli farà ingoiare, quei dannatissimi guanti che si ostina a non indossare. Si scansa e il rosso è costretto a ritirare la mano senza smettere di fissarlo.
«Non è successo niente», borbotta Gianluca, un un lieve rossore che gli colora le guance e una strana morsa che inizia ad attanagliargli le viscere. E’ il freddo, è il freddo.
«Hai litigato con tua madre, Gianlù?».
Sì, Marco lo fa definitivamente apposta. Altrimenti non si spiegherebbe come diavolo faccia ad azzeccare ogni sua dannata situazione – in poco più di un mese gli avrà accennato poche volte alla situazione in casa sua abbozzando a grandi linee il rapporto con sua madre, eppure non è sembrato faticoso indovinare. E’ davvero un libro così aperto, Gianluca? 
Apre le labbra pronto e sicuro per ribattere, ma ciò che ne esce stupisce entrambi – è un singhiozzo, basso e inequivocabile, ed è solo in quel momento che Gianluca si accorge di avere gli occhi lucidi. Si affretta a portare il dorso della mano per asciugarseli velocemente. Un altro singhiozzo. 
Gianluca non piange in pubblico da quando aveva cinque anni e non inizierà a farlo adesso; eppure Marco lo abbraccia comunque e Gianluca sente il suo respiro caldo contro la pelle del collo. E’ talmente inaspettato che non sa come reagire; si limita a restare immobile e prima che possa dire qualcosa Marco ha già sciolto l’intreccio e lo guarda sorridendo. 
«Domani vuoi venire a casa mia?».
Inarca le sopracciglia. «E’ tua abitudine invitare a casa persone che conosci da malapena quattro settimane?». 
Ride. «E’ che ogni volta che ti sto vicino mi sembra di conoscerti da una vita, Gianlù». 
E mentre Marco gli afferra una mano, Gianluca ringrazia che nel vagone non ci sia nessuno a guardarli.

 

La camera di Marco è allegra come il proprietario, non riesce descriverla in nessun altro modo. Le pareti sono di un arancio elettrico e di un bianco panna, il letto coperto di rosso è grande abbastanza per due persone, gli scaffali appesi ai muri sono pieni di fumetti e videogiochi (la maggior parte sono titoli sconosciuti) e Gianluca non riesce a smettere far vagare la testa come se in tutto questo tempo avesse vissuto in una grotta. In effetti ed è tantissimo tempo che non visita una casa che non sia la sua e l’enorme differenza lo spiazza come non mai. 
Quando Marco si è lasciato prendere dal momento e l’ha invitato non credeva facesse sul serio; e invece il giorno dopo, finite le lezioni, se l’è ritrovato sull’uscio della porta della propria aula, un sorriso sornione sul viso e un “andiamo?” sul fior delle labbra. 
Di solito per tornare a casa Gianluca prende un autobus diverso, ma questa volta è stato costretto a seguire il rosso che l’ha preso sottobraccio come se fosse un bambino sperduto e l’ha trascinato per le vie della città ridendo e parlando, fino a raggiungere una porta color crema che ha aperta senza esitazione. 
Sono a casa!”, ha urlato senza contegno, ma quando non si è udita risposta ha ridacchiato come l’idiota che è sussurrando qualcosa che Gianluca ha compreso come un “mi sono scordato che i miei sono a lavoro”.
Il sorriso non sembra voler sparire nemmeno adesso che sorpassa il ragazzo spaesato con estrema tranquillità. 
«Beh?», ridacchia e Gianluca sussulta sul posto prima di far vagare gli occhi sul pavimento.
«E’… grande. E ci sono tanti colori».
Marco scrolla le spalle. 
«Mi piace tutto ciò che è allegro. A te no, Gianlù?». 
«Suppongo di sì».
«Che significa “supponi”?».
«Non mi ci sono mai soffermato a pensare», taglia corto Gianluca, infastidito dalla raffica di domande. 
«A tutti piacciono le cose allegre», aggiunge Marco e gli da le spalle mentre fruga tra gli scaffali pieni di CD e libretti.
«Dai, vieni qua. Ti piacciono i videogiochi?».
«No».
«Beh, fatteli piacere perché a casa mia non c’è nient’altro da fare in due. Che ne dici di andare sul classico?».
«Non me ne intendo».
«Super Mario?», e, con un sorriso sulle labbra, tra le dita sta già facendo girare la confezione del gioco.

 

E’ da quattro giorni che non viene a scuola. E’ gennaio e l’aria continua ad essere gelida ma il cappello e la sciarpa sono rimasti a casa; il vagone è sempre vuoto ma questa volta non c’è Gianluca a fargli compagnia. 
Marco è preoccupato e non lo nasconde a se’ stesso; il treno non è ancora partito e si mordicchia il labbro inferiore immaginando le porte aprirsi all’improvviso, Gianluca spuntare e guardarlo con il fiatone e le guance rosse e che borbotti un “sono in ritardo”. Batte i polpastrelli sulla proprio coscia e, quasi a rispondere alla sua muta preghiera, sente un rumore sordo e dei passi e Gianluca è lì davanti a lui, ma è decisamente diverso da ciò che aveva immaginato. 
Il ragazzo ha le guance rosse come rubini ma Marco dubita fortemente sia per il freddo. Una delle due è gonfia e l’occhio destro è nero e livido; alle mani i guanti sono strappati ed è troppo tardi quando si accorge di fissarlo un po’ troppo insistentemente con occhi sgranati. Una strana morsa gli attanaglia lo stomaco. 
«Gianlù», lo chiama Marco alzandosi e raggiungendolo con pochi passi, «cosa è successo?».
Gianluca non risponde. Lo scansa bruscamente e lo sorpassa mentre il treno li fa sballonzolare un po’ e poi parte senza aspettare. 
Marco si risiede vicino a lui ma non distoglie lo sguardo ansioso. 
«Gianlù, che hai? Che è successo?».
«Non sono affari tuoi», ringhia Gianluca.
«Gianluca, che cosa è successo?».
Marco sa di risultare fastidioso ma non si arrende facilmente; è preoccupato e vuole aiutarlo con tutto ciò che è in suo potere. Gianluca gira la testa di lato e Marco riesce ad esaminare meglio il gonfiore sulla sua guancia. 
«Gianlù. Chi ti ha picchiato?».
«Marco, basta».
«Gianluca».
«Ho detto basta!», e questa volta alza la voce e si alza lui stesso, fissa il ragazzo con sguardo addolorato e quando i suoi occhi azzurri si riempiono di lacrime Marco può giurare di sentire il proprio cuore spezzarsi. Si alza anche lui.
«Gianlù…».
«Perché non pensi mai ai cazzi tuoi, Marco?! Perché devi sempre insistere?!». Il pavimento del vagone si sta riempiendo di macchioline umide e scure. 
«Lasciami in pace!».
Non ha bisogno di dire niente – non c’è n’è mai stato bisogno. Gli avvolge il polso tra le dita e lo tira a se’; poi lo bacia, e Gianluca crede di poter morire in quell’esatto momento. 
Le labbra di Marco sono terribilmente morbide e calde, è esattamente come se l’era immaginate in precendeza e non può fare altro che spalancare le palpebre e allargare le pupille mentre un ciuffo di capelli rossi e scompigliati gli solletica il volto. Poi ricambia. 
E’ tutto così naturale che si stupisce che Marco non l’abbia fatto prima, perché non c’è imbarazzo ne’ timidezza; solo un pizzico di paura che Gianluca non riesce a collocare da nessuna parte (è perché sono entrambi ragazzi? Ma chi vuole prendere in giro, qualche domanda Gianluca se l’è fatta quando ha notato che nessuna ragazza è mai riuscita ad accendere il suo interesse in diciassette anni di vita). Quando si staccano non sa quanto tempo è passato perché tutto ciò che i suoi sensi riescono a riconoscere è Marco. Marco che adesso lo sta guardando in attesa di qualcosa, che cosa non lo sa precisamente nemmeno lui, il respiro che gli si infrange sulla pelle. 
E allora Gianluca manda al diavolo la logica e lo abbraccia più forte che può. 
«Marco», singhiozza, e il ragazzo lo stringe forte a se, «Marco, Marco, Marco».
«Gianluca».
Non crede di aver mai avuto così caldo in una mattina di febbraio.

 

«Ho paura, Marco».
Il tocco di Marco è estremamente delicato. Gli sfiora la guancia con gentilezza mentre i suoi occhi verdi brillano nell’oscurità della stanza. 
«Di che cosa, Gianlù?».
E’ una sera di febbraio e Gianluca non ha ancora capito niente. Non neanche cosa sono (amici? Conoscenti? Amanti? Quest’ultima opzione lo fa tentennare un po’). Si limita a tremare sotto le sue dita e lasciare che Marco lo tocchi, lo accarezzi, lo stringa con un qualcosa che non è mai riuscito ad identificare – di certo non è amore, è un po’ troppo presto per quello – e a porsi mille e più domande. 
«Non lo so», dice a bassa voce prima che le loro labbra s’incontrino e gli tolgano il respiro come succede ogni volta.
«Non sono… abituato. A tutto questo».
Il ragazzo dai capelli rossi gli sorride, gli affera una mano e gli bacia il palmo aperto. 
«Possiamo abituarci insieme. Ti starò vicino, Gianlù».
E mentre Gianluca pensa che, Dio, è così stomachevolmente romantico, arriva un altro bacio e questa volta si lascia un po’ più andare e gli circonda le spalle con le braccia. 
«Tua madre sa che sei qua?».
«No».
«Devi tornare a casa?».
«Non m’importa», e mentre lo dice pensa che, cavolo, Marco l’ha proprio cambiato – non sa dire se in bene o in peggio, sa solo che quel sorriso gli manda in tilt tutti i sensi.
«Mi piaci», gli bisbiglia all’orecchio e Gianluca sente un gruppo alla gola mentre affonda di più le dita nella stoffa della sua maglietta.
Sono passati quattro mesi e Marco non gli ha ancora detto “ti amo”.

 

«Credimi, avrei voluto dirtelo prima, però…».
No che non volevi, pensa. E io non volevo sentirtelo dire
E’ iniziato marzo da poco quando Gianluca sente per la prima volta spezzarsi qualcosa dentro alla vista dell’espressione da cane bastonato del ragazzo; è un Marco a cui non è decisamente abituato e non crede di volerlo fare proprio adesso. 
«Da quanto lo sai?», chiede immediatamente, mentre sente la rabbia montare.
Marco abbassa lo sguardo. 
«Da prima che mi trasferissi».
E’ esattamente la risposta che Gianluca temeva di ricevere. Avrebbe potuto mentire, ma non l’ha fatto perché sa che Marco è sincero e non lo vuole ingannare – eppure non può fare a meno di pensare che l’ha già fatto, l’ha ingannato senza volerlo e questo non riuscirà mai a perdonarglielo. Cerca di darsi un contegno, ma la voce che gli esce è rotta e un po’ isterica. 
«Cinque mesi, Marco», e avanza di un passo verso di lui, «sono cinque mesi che sai di dovertene andare e non hai neanche pensato di accennarmi la cosa».
Marco sbatte le palpebre. 
«Ci ho pensato, Gianlù. Non hai la minima idea di quanto dispiaccia anche a me. Ma non posso farci niente, avrei finito soltamente per–».
«Per fare cosa?!», urla, e sa che non dovrebbe essere così brusco perché non se lo merita, non se lo merita affatto.
«Cosa avrei dovuto fare, Gianlù?». La voce di Marco si sta rompendo. «Non… progettavo nemmeno io che sarebbe finita così. Cosa avrei dovuto fare?».
In realtà Gianluca ha un bel po’ di idee in testa. 
Avresti potuto starmi lontano. Avresti potuto non farmi innamorare di te. Avresti potuto non baciarmi. Avresti potuto anche evitare di illudermi
Però non gli dice nessuno di queste cose. 
«Non lo so, Marco». Si stupisce quando si scopre a piangere sentendo lacrime calde scorrere sulle guance. «E io cosa dovrei fare, adesso?».
Il vagone è deserto come al solito.

 

Gianluca non ha voluto sentire ragioni; non vuole il numero di cellulare di Marco e questo un po’ lo addolora, ma se è la sua decisione sa di non poterci fare niente. 
E’ pomeriggio e alla stazione alleggiano tante voci diverse mentre la folla sembra non badare a loro e li supera senza difficoltà. Gianluca guarda gli occhi verdi di Marco e si rende conto che è la prima volta che li vede così vuoti – così tristi, così cupi. E’ anche la prima volta dopo un po’ di mesi che il cielo sopra le loro teste è così azzurro da sembrare una pozza d’acqua. 
«Mi dispiace», dice Marco.
Sono passate due settimane dalla sua sfuriata e le acque si sono calmate, anche se solo in apparenza, perché entrambi non negano di aver passato quei giorni in preda ad angoscia e tristezza. Marco gli ha comunicato qualche giorno fa la data della sua partenza. 
«Ti amo», risponde Gianluca e Marco fa un sorriso che cela talmente dolore che quasi lo fa arrossire.
«L’hai detto per primo», sussurra, e Gianluca scuote la testa.
«Penso che ormai sia troppo tardi».
«Non è mai troppo tardi».
«Non uscirtene con pensieri filosofici, fai solo ridere».
E Marco ride davvero, e Gianluca fa di tutto per gustarsi al meglio quella che probabilmente sarà l’ultima volta che riuscirà a sentirla; il rosso si china a baciarlo e non in quel momento non gli importa niente nemmeno dei vecchietti che si sono voltati a guardarli e di una coppia di ragazzi che li indicano e bisbigliano. 
«Ti amo anch’io, Gianlù».





 

Gianluca guarda il treno partire e rimane lì fermo imbambolato con il vento che gli scompiglia i capelli per qualche minuto, poi prende un grande respiro per non scoppiare a piangere e alza gli occhi al cielo. 
E’ il 21 di marzo ed è il primo giorno di primavera.










 

(note inutili e noiose)
Oddio, sinceramente non ho niente di speciale da dire. Questa fanfiction in realtà è nata grazie al Secret Santa ed è tutta dedicata (con un mostruoso ritardo) ad Alle che aveva voglia di MarcoGianluca, ma poi ho deciso di pubblicarla perché è tipo la cosa più lunga che la mia testolina sia mai riuscita a produrre e inoltre non mi facevo viva da mesi.
Ho usato uno stile davvero diverso da quello che uso di solito, ma per l'idea che avevo in mente mi sembrava più adatto e quindi spero di non aver fatto un casino ;A; questi due sono magnifici e sono felice di essere riuscita a partorire qualcosina anche su di loro <3
Grazie a chiunque abbia avuto il coraggio di leggere fin qui e chiunque avrà voglia di lasciare un commentino, a me fa sempre tanto piacere *v* *sparge amore*
A presto (si spera)!

asia.

  
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