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Autore: Ardespuffy    22/11/2008    3 recensioni
Sottovoce gli uomini nascono e mutano.
.1. Brian. Con la paura di lui tra i denti.
Da soddisfare, immancabilmente.

.2. Matthew. Con un pensiero di vetro.
Costruire l'idea di lui.

.3. Di nuovo. Sfuggire a un calco ideale.
Comunione di pareti.

[Brian Molko * Matthew Bellamy]
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Muse, Placebo | Coppie: Brian.M/Matthew.B
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Backstage.'
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C’è questo ricordo, nato fra le lenzuola per errore

E  u n  b a c i o  s p o r c o  s a   

c o m e  u n  m i l i a r d o  d i  u o m i n i .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è questo ricordo, nato fra le lenzuola per errore.

Eravamo agli inizi, col gruppo. Non potevo ancora vantare un truccatore tutto mio, né tanto meno solevo figurarmi il giorno in cui ne avrei avuto uno.

Mi ero messo in testa di collaudare una nuova matita per occhi, dunque. Nella mia fervida immaginazione da poco più che adolescente ero convinto mi avrebbe regalato lo sguardo perforante che andavo allora disperatamente cercando.

Non ottenni null’altro che una perforante irritazione.

Immagino sia stata una reazione allergica dovuta a qualche componente del colore. Quel pungere vivo e bollente, acuto da accecare, diluito nei veli di lacrime stranite e umiliate; l’intorpidimento sordo delle palpebre, mai tanto pesanti e tanto calde, come terrificanti ghigliottine a serrare il raccapricciante spettacolo delle iridi sgomente. Non potrei dimenticarlo in alcun caso, ritengo. Né lo strazio in sé, né l’idea strana che si portò dietro, e ancora latita nei meandri del me che vive in musica.

Bruciava come solo una ferita può fare, come solo uno squarcio, come solo un’immensa eruzione di sangue umano.

Continuavo a toccarmi e scoprivo nuove ondate di fluido torrido, quasi sperando, allora, nel conforto logico della conseguenza attesa. Perché è pura logica che un dolore tanto vivo si rovesci all’esterno, in visibili scie di un rosso che parli da sé e faccia parlare, vistoso come sognavo d’essere e altrettanto perforante.

Non giunse mai. Quelle detestabili lacrime ingannevoli furono la mia dannazione in più d’un senso.

Ancora recalcitro nell’affidarmi alle cure dei make-up artists – che oggi, benedetti cicli del tempo, farebbero follie per il privilegio di concentrarsi sui miei occhi. E permango nella delusione mai sopita di ferite che non sanno sanguinare, di ferite inutili e discrete.

Ho dovuto scoprire che ne esistono di tipi innumerevoli.

Tuttora non mi stanco di odiarne il silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Provo ad inspirare. Sarebbe più semplice, senza il dolce peso che mi ostruisce lo stomaco.

In verità Matt è sottile. Talmente magro e stretto, sopra ogni cosa, da contrastare curiosamente con l’allungarsi del mio corpo fra le lenzuola. Sono sempre stato piccolo io stesso, nient’affatto imponente; dev’essere questo che m’impedisce d’abituarmi alla sua presenza.

Me lo tiro addosso, letteralmente.

È strana la sensazione che dà. Riesce a farmi sentire una madre, un coniglio e una puttana tutt’insieme, e a scucirmi un sorriso adirato per questo.

Lascio la presa sul suo braccio, deciso a rubarmi un momento d’oblio. Peccato per quel gomito sporgente che mi penetra bruscamente le carni, all’altezza dell’esofago, mozzandomi contemporaneamente il fiato e strozzandomi un gemito sul fondo della gola.

Fortuna che non è così goffo anche quando scopa.

Matt non può semplicemente ricadermi addosso e mettersi tranquillo, concedendomi un benedetto istante di quiete. Nossignore. Deve sentire il bisogno impellente di affondare gomiti e strattonare lenzuola e divincolarsi, in genere, strusciando quel corpicino duro e stretto in modi spesso poco ortodossi.

Mi fa diventare matto; – mi fa ridere; – a volte mi commuove.

Eccitante, persino. Lo è. Negarlo non sarebbe giusto, benché la più nobile delle azioni perda tutta la sua nobiltà se non supportata dalle giuste ragioni.

La tragica inconsapevolezza dietro ogni suo singolo atteggiamento, questo lo svaluta immensamente. Mi fa impazzire. Mi fa impazzire la grandezza del valore che assume poi, ai miei occhi asciutti, contro ogni rigor di logica.

Dunque tutto quel muoversi e sfiorare resta accidentale, benedetto ragazzo, e lo spoglia d’ogni intenzione suggestiva.

Abbandono il pensiero in fretta, più del dovuto. Su di me, fra le coltri agguantate con malagrazia, Matt continua a vivere – e mi distrae a sufficienza.

La sua pelle è una mappa curiosa di gradi, più calda in certi punti e più intensa negli altri, profumata a intermittenza. Un velo di sudore ricopre la fronte, le tempie, le curve fini tra le spalle, la linea del ventre. Il bacino. Le gambe no, quelle restano fredde e lontane, avvinte alle mie nell’abbraccio della coperta.

Mi sta gelando, ma non lo faccio presente.

Pigramente, con casualità, scorro lungo i versanti del suo corpo, scoprendo i fianchi ossuti e le costole, quasi visibili oltre la pelle tesa. Lo avverto rilassarsi al tocco, istantaneamente, mentre dita leggere d’aria giocano all’amore con la sua schiena.

Non riesco a mantenermi casto troppo a lungo. L’innocenza mi fa difetto da sempre, almeno da quando il sempre d’oggi ha avuto inizio.

Lo vizio e illudo, prima di spingermi con la stessa dolcezza irreale a sfiorargli le natiche. Traccio larghi cerchi distratti, per poi insinuarmi nella fessura scura senza forzarla.

Posso distinguere la tensione montargli in tutto il corpo, nel tremore della spina dorsale. Resiste per una manciata di secondi, più stoicamente di quanto avrei creduto – devo dargliene atto. Poi il saltellare smaliziato dei miei polpastrelli tanto vicini alla sua apertura diventa troppo promettente, troppo allettante perché possa concedermelo ancora. Lo avverto spostarsi con uno sbuffo seccato, come se avessi in qualche modo distrutto il suo giocattolo del cuore, e tuttavia restarmi addosso, fra le gambe schiuse per inerzia. A prendersi il calore che posso dargli in risarcimento.

È un compromesso; lo tengo per me.

Ritiro prudentemente le dita, tornando a concentrarmi sulle venature fini della sua schiena, ora nuovamente rilassata, mentre si adagia pesantemente contro il mio torace.

È strano. Di solito non sembra tanto accogliente. Nessuno è mai riuscito a farlo sembrare tanto accogliente, questo fisico da ragazzina, eppure Matt vi si adatta con tutti i suoi spigoli alla perfezione. Ne consegue la più improbabile delle armonie.

Pian piano riprende a muoversi, con una cautela che m’intenerisce, dopotutto. La guancia affondata su uno dei pettorali, le cosce che vanno scaldandosi fra le mie; i capelli ancora umidi, irresistibilmente profumati, di quella fragranza tutta speciale che sa di uomo dopo il sesso.

Una definizione quanto mai incompleta, lo ammetto.

Chi diavolo sei tu, Bellamy? Un ragazzino nel corpo d’un uomo, o un uomo chiuso nel guscio d’un adolescente?

Certe volte fatico così tanto anche solo a domandarmelo.

Ciò che inizialmente non mi raggiunge se non come lo strusciare anonimo di pelle calda quanto è calda una pelle qualunque, fa in fretta a mutare nella percezione netta del suo braccio che mi scorre in su, protettivo e bisognoso, lieve e tanto importante, tutt’insieme – è questo tutt’insieme, può esserlo, lui, lo è. Non capisco come faccia. A darmi tutte queste sensazioni sovrapposte. O parallele. Tutte ordinatamente in file disgiunte e tutte presenti e vive e tangibili.

Io, tanto monocromatico e tanto tranquillo.

Semplicissimo anche nell’isteria. Persino nell’arte.

E tutto a un tratto che cos’è questa esplosione di luce e colore all’altezza del petto, me lo spieghi? Cosa, eh? Cosa?

Mi accorgo un attimo più tardi dei movimenti che compie. A sostenerlo nella scalata intrepida del mio busto non ha che la sola forza delle dita – dita da pianista, dita lunghe e agili e immensamente energiche, decise, allenate. Robuste e fiere e maschili e materne. Sanno di latte e di metallo. Io le adoro, Matt, le adoro.

Resto a fissarle, incuriosito dalla forma aliena ed estranea che sono. Mi si arrampicano tenaci come piccoli ragni affamati su per le costole, superando il capezzolo senza interesse né malizia. Trainano il braccio pressoché inerte, infaticabili lavoratrici quali figurano nel libro paga del corpo.

Sorrido al pensiero, ma più al frusciare timido dei suoi peli contro il mio dorso glabro.                 

E non so cosa succeda, di colpo. Corrode in modo dissacrante, massacra e sfinisce. Una pulsione urgente da soddisfare con la paura di lui allacciata fra i denti.

Porto il braccio destro a circondarlo, quello sinistro a premere un fianco.

E stringo. Stringo come non ci fosse un domani, come non ci fosse un letto, un condom, un lenzuolo, un mondo da cambiare e un mondo da scrivere, un dono da scartare, un anno per crescere, un bacio senza sesso e un sesso senza baci, un angelo e un bullone, un vascello, un sogno, un’invenzione.

Tira su col naso. Lo fa talmente piano, talmente bene, con intelligenza; ma me ne accorgo ugualmente.

Non si premura di fornire una replica più chiara, Matt. Non lo fa mai, non ci riesce – il suo corpo parla nei toni che sa, calibrando i fiati e lo sgorgare e il fluire, e la lubrificazione dei modi e dei timbri. Una macchina perfetta che funziona da sé in una disfunzione massima e costante:  incomprensibile, impenetrabile, vuota ed estremamente estetica.

Finisce così com’è iniziata. Allento la presa bruscamente, esagero. Non avevo previsto che le mie braccia ricadessero ai lati del letto con quella forza, non proprio. Così non vanno bene, sanno d’un artefatto che non passa inosservato. E questa è per dirne una. Avrei il mio bel daffare se scegliessi di delineare nel dettaglio i tratti dell’ansia che sale come nausea, ma lascio che muoia senza essere udita. La condanno senza appello né equo processo.

Personalmente vengo assolto, però, lo so; lo apprendo dal silenzio che Matt sembra drappeggiarci tutt’intorno.

Mi fa rabbia quanto straordinariamente bravo sia in queste cose. Supera momenti simili senza scomporsi e senza scoprirsi. Cerca persino di non mettermi a disagio, ci prova sul serio. Se lo colpisce o se opta per un netto taglio auto-inferto, non permette che traspaia. Non vuole che io capisca. L’ho accettato. Ci sono parti di lui – un gran numero di parti, un numero illimitato e spaventoso – che devono allontanarmi per necessità, perché sono programmate a farlo. E ci sono parti che mi respingono con razionalità. Nel nome di un bene maggiore e comune ad entrambi.

Non l’ho realmente accettato. L’ho compreso.

Sono sceso a patti persino con me stesso, stuprando le convinzioni degli altri e raggiungendo il mio equilibrio. Ho preso il suo corpo e l’ho usato perché custodisse in maniera almeno un po’ graziosa la proiezione di qualcosa che ho espulso per sopravvivere.

È venuto tutto a galla, inevitabilmente. Quando quella specie di giornalista con velleità da strizzacervelli in erba mi ha interrogato sull’intera Questione Bellamy, allora io ho provato esattamente a spiegarglielo. A spiegarle cosa succede quando hai vicino qualcosa che non vuoi realmente o che non ti vuole, e allora finisci col crearti qualcosa di migliore a partire dai bisogni, dal talento e dalle immagini. Nasce in te, cresce, si sviluppa fino allo svezzamento. Allora sì che puoi gettarlo fuori, e proiettarlo, come nella legge dell’imprinting, sul primo corpo che capiti a tiro – e bada bene sia quello giusto, o tutto il lavoro architettato con amore nella gestazione andrà perduto.

Matt è un contenitore efficiente e delizioso, il più delle volte. Le sue piccole ribellioni non mi turbano, al più persuadono.

Ho provato esattamente a spiegare tutto questo. Ci ho provato in una rubrica tv con una stupidissima pettegola troppo furba che accavallava le gambe per provocarmi.

Dopo, i telefoni hanno squillato per un po’.

E mi manda fuori di testa, sul serio, perché Matt non ne ha parlato. Non vi ha neppure accennato di striscio, né per sbaglio; non con la casualità ipocrita del suo manager, né con la ferocia isterica della mia.

Ha lasciato correre e ora prova a dormirmi addosso.

Tira su col naso. Posso sentirlo.

Le sue dita giungono alla meta anelata. Forti e superbe fino alla fine, s’inerpicano su per l’ultima curva, quella del mento, dove accettano di svenire e riposarsi. Sembrano perdere di botto tutta la vita che sanno; mi muoiono sulla pelle inondandola di colpa.

Forse non significa nulla, certo. Forse non è che il filare di un fuso o mille croci in campi di vetro.

Per un momento afferro la voglia astrusa della sua voce.

Svanisce in una fretta crudele.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli occhi non sanguinano. Ed è terribilmente ingiusto, quando avrebbero tanto da ledersi a vicenda, per quanto vedono ogni giorno.

Di tutte quelle sciocche ferite secche la più lieve è sempre distesa sotto i tendini e i lacci del corpo che sostengo. Curiosamente è anche l’unica a dolere in privato.

Posso amarne il peso nel momento del bisogno, e poi gettarlo via come un tubo da cui aspirare l’aria.

Stringere e respingere nominano i nuclei in tumulto sotto le palpebre. Per reagire e agire e manifestare, e uscire fuori e rompere gli schemi, e mantenere la sacralità dello squilibrio.

Come una madre, un coniglio e una puttana che vivono insieme senza scontrarsi.

Quale sia il loro segreto, non ho che da immaginarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte uno di tre per quella che sarà una saga di autentici trip mentali.

Cerchiamo di non correre. Per ora mi limito a spiegare brevemente il contenuto dietro questo primo capitolo, narrato – o meglio, vissuto – da un Brian particolarmente ermetico.

Contesto: in un Mondo Ideale dove Placebo e Muse hanno smesso di ignorarsi, fans e mass media notano qualcosa di ambiguo nei rapporti tra i frontmen delle due bands. La cosa si trascina nel silenzio finché Brian ammette, in quel suo modo contorto che chiamerò semplicemente “teoria dell’imprinting”, la storia che ha con Matt. I telefoni squillano e i rispettivi managers impazziscono, ma Bells non fa una piega. Il momento in cui questo scorcio di introspezione vuole coglierli è un classico afterglow, l’attimo dopo il sesso, con un Brian combattuto e stranito che si ritrova ad amare l’altro per un brevissimo istante. E a fare i conti con le ferite inutili dispiegate nell’incavo tra i loro corpi uniti.

Disclaimer: non solo i personaggi di cui si parla non mi appartengono, ma neppure lo fanno i lyrics d’apertura. (E un bacio sporco sa… come un miliardo di uomini.) Tratti da La Vedova Bianca degli Afterhours. 

A grandi linee non c’è altro da aggiungere. Il concetto di imprinting proviene dall’etologia, la scienza che studia il comportamento degli animali: quando viene al mondo, un esemplare di qualsiasi specie tende a riconoscere e a identificare immediatamente il primo ente cui è posto dinnanzi. Una serie di autorevoli comportamentisti ha condotto degli studi sui pulcini, riportando risultati singolari a favore della teoria.

Quindi, ecco, l’amore di Molko è come un pulcino.

Detto così suona veramente sciocco ^_^ .

Attendo chiunque voglia continuare a seguirmi al prossimo capitolo, immerso invece nel mondo di Meffiu. Grazie di cuore alle mie lettrici abituali – Stregatta, narcissus_kiss e nainai, su tutte – e a quelle che lasceranno un commentino a questa sega mental… inaugurazione di fic.

 

Vostra, in mente e spirito. <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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