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Autore: Kourin    18/01/2015    5 recensioni
“Ho sognato di andare in Francia. Invece probabilmente non lo farò mai. Si è trattato di un'illusione.” Taro fece una pausa, cercando di padroneggiare il tono di voce che sentiva farsi innaturalmente cupo. “Ho sognato anche di vincere le Olimpiadi,” proseguì. Poi tese la mano e, ignorando il freddo che gli artigliava il braccio disse: “Matsuyama, vorrei essere davvero io a vincerle.”
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Taro Misaki/Tom
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sogni



L'aroma del legno di cedro e l'odore dello zolfo si mescolavano in vapore leggero che si dissolveva al contatto con l'aria invernale. Quando gli spifferi gelidi arrivavano a sfiorare la pelle nuda, improvvisi brividi scivolavano sotto il sapone. Erano però troppo deboli per raggiungere il cuore inerme, ebbro della gioia per la vittoria ottenuta nelle qualificazioni olimpiche.
Tarō rideva, come aveva fatto tante volte insieme ai suoi compagni di squadra, insieme ai compagni delle tante squadre che aveva conosciuto nella sua strana esistenza di figlio di un pittore.
In quel periodo la felicità durava il tempo di una tela e si completava quando Ichirō Misaki vi apponeva la sua firma. Poi la vita ricominciava con nuovi colori, odori e legami destinati a loro volta a raggiungere l'apice della bellezza prima di venire sigillati per sempre da un tocco di nero profondo. Come il solco lasciato dal dolore, sempre diverso, di un addio.

I colori del passato sfumarono risalendo verso il soffitto del bagno termale, finché davanti agli occhi di Tarō non rimase che il volto di Matsuyama aperto in un sorriso schietto e limpido, come se non fosse mai scesa la sera.
La luce tenue emanata dalle lampade tradizionali scolpiva solchi d'ombra sul suo corpo adulto. Sul torace le gocce d'acqua si scindevano sui capezzoli per continuare a scendere lungo l'addome. Aveva la pelle d'oca, ma non se ne curava.
Tarō l'aveva visto innumerevoli volte negli spogliatoi, in mezzo al vociare continuo degli altri ragazzi, senza notare nulla all'infuori dell'ordinario. Nel silenzio di quella sera, invece, Matsuyama tornava ad essere un albero attraversato dai raggi del sole, una roccia levigata dall'acqua, un fiore che si fletteva al soffio del vento: tutti dettagli di un dipinto realizzato più di dieci anni prima nella selvaggia Hokkaidō, che nemmeno la firma di Ichirō Misaki aveva saputo incatenare per sempre.
Tarō stava iniziando ad accorgersi solo ora della loro presenza. Per troppo tempo s'era perso a rincorrere quel cielo del Fuji troppo azzurro, troppo lontano, troppo diverso da lui che, dopotutto, era sempre appartenuto alla terra.
Matsuyama gli chiese se gli poteva lavare la schiena e Tarō annuì, pensando in cuor suo: “E' proprio vero che le persone abili a capire gli altri hanno difficoltà a comprendere se stesse.

Hikaru lavò la schiena di Misaki con particolare attenzione. Non come se fosse la schiena di un compagno di squadra, non come se fosse la schiena della sua ragazza. Gli sembrava di stare vibrando la corda di un arco, arma che in realtà lui non sapeva maneggiare e che quindi toccava con il timore di colpire il bersaglio sbagliato.
Quando ebbe finito, osservò quasi con sollievo l'acqua scivolare sulla pelle, trascinando via ogni traccia di schiuma.
Misaki si avvolse l'asciugamano intorno alla vita e si alzò in piedi. La cicatrice che gli attraversava la gamba strideva in maniera orribile sulla sua figura, come uno strappo.
In quel segno, Hikaru percepiva il significato della parola 'rimpianto'. Non sapeva definire altrimenti la sensazione amara di non essere stato accanto a Misaki in quel momento così difficile. “Non come avrei potuto.
“Salta all'occhio, vero?”
Lo sguardo di Hikaru si rialzò. Nonostante quello che aveva passato, il volto di Misaki si ostinava a rimanere bambino.
“La cicatrice, intendo.”
“Scusami, è che è davvero evidente, ora che ti ho davanti.”
“E' un segno. Un confine.”
“Che cosa intendi?”
“La differenza tra il Tarō Misaki debole e quello forte.”
“Per me sei sempre stato forte.”
Misaki scosse leggermente il capo, come a dire che non era vero. Prima che Hikaru potesse aggiungere qualcosa, aveva già spostato lo sgabello e iniziato a lavargli la schiena. Il tocco era gentile, come ci si poteva aspettare da un ragazzo abituato da sempre a mettere a proprio agio il prossimo.
Hikaru non si arrese alla sensazione che le proprie parole fossero scivolate nel vuoto. “Se non ti avessi incontrato, non sarei mai arrivato così lontano nel calcio. Sono titolare della nazionale, presto giocherò alle Olimpiadi. Che tu lo voglia ammettere o no, sei stato tu a condurmi in questo sogno.”
Come ebbe terminato sentì la spugna scivolare lungo le vertebre del collo fino a fermarsi sotto alle scapole, dietro al cuore. La mano di Misaki si strinse, l'acqua saponata si raffreddò all'istante.
“Lo definisci... sogno?”
“Sì. Che c'è di strano? Si tratta del sogno della nostra squadra, ne parliamo sempre.”
“Non sono abituato a sentirti parlare di sogni,” rispose Misaki mentre riprendeva a sfregargli delicatamente i lombi.
Hikaru iniziò a sentirsi infastidito. Giocando con i ragazzi della Nazionale non aveva potuto fare a meno di ampliare il suo vocabolario e, forse, anche le proprie aspirazioni. “Si vede che frequentare per troppi anni la gente di Nankatsu mi ha fatto male,” replicò con una risata che suonò strana alle sue stesse orecchie.
“E' che la gente di Nankatsu ha frequentato per troppi anni Tsubasa.”
Hikaru si girò mentre anche Misaki si stava voltando. Gli afferrò la spalla, ma le dita scivolarono e in mano gli restò solo un po' di schiuma. Misaki reclinò il collo e, lasciando intravedere solo la metà di un sorriso, disse: “Ora possiamo uscire, no?”
Hikaru si risciacquò, prese l'asciugamano e lo seguì mentre il pavimento di legno cigolava sotto ai piedi scalzi.
Non c'erano altri ospiti nella struttura: l'unica presenza oltre a loro due pareva essere il vento, che sibilava quietamente attraverso la piccola porta che dava sul bagno esterno. Quando fu il momento di aprirla, Misaki sembrò esitare.
“Se non ti sbrighi, una volta fuori saremo già morti di freddo,” lo esortò Hikaru.
“Morire di freddo? Tu?”
“Sì, io. Ma perché diavolo voialtri pensate che io non possa sentire freddo? Sono un essere umano, sapete?”
Misaki rise, finirono per spingere la porta insieme. Nevicava, ma quell'attimo di calore bastò a proteggere i loro corpi mentre scendevano lungo i gradini che conducevano alla pozza.

Quando fu immerso nell'acqua calda che sapeva di minerale, a Tarō non importò più del vento o del gelo: non potevano nulla contro il calore che nasceva dal profondo della terra, cullato dal suono delle cascate che solcavano le montagne.
I fiocchi di neve si ritrasformavano in vapore, il vapore attraversava i rami spogli di un acero dormiente e risaliva verso il cielo, libero di tornare ad essere neve.
“Matsuyama,” esordì. “Secondo te che differenza c'è tra un sogno e un'illusione?”
Matsuyama si concentrò, quindi rispose: “Il sogno è una cosa che si può realizzare, l'illusione invece è una cosa che resta per sempre intangibile.”
“E perché resta... intangibile?”
“Perché è concretamente al di fuori delle possibilità di quella persona.” Matsuyama reclinò il capo all'indietro, come se volesse appellarsi a ciò che stava al di là delle nubi. “O forse perché non è scritta nel suo destino. Chi può saperlo?”
Tarō fece emergere la mano destra dalla superficie dell'acqua e lasciò che alcuni cristalli si posassero sul palmo. “Tsubasa sogna sempre e non s'illude mai. Per anni ho creduto di essere uguale a lui in tutto e per tutto,” affermò prima di serrare le dita in pugno. “Mi sbagliavo, mi ero illuso,” disse riaprendo il palmo tornato vuoto.
Iniziò a nevicare più intensamente. I fiocchi apparivano rossi alla luce delle lanterne, come petali in balia di una tempesta primaverile.
“Ho sognato di andare in Francia. Invece probabilmente non lo farò mai. Si è trattato di un'illusione.” Tarō fece una pausa, cercando di padroneggiare il tono di voce che sentiva farsi innaturalmente cupo. “Ho sognato anche di vincere le Olimpiadi,” proseguì. Poi tese la mano e, ignorando il freddo che gli artigliava il braccio disse: “Matsuyama, vorrei essere davvero io a vincerle.”

La stanchezza della partita e il calore dell'acqua avevano sciolto completamente i muscoli di Hikaru. Non potevano tendersi o scattare, così come la mente non riusciva a reagire davanti allo sguardo intenso di Misaki che, paradossalmente, gli ricordava proprio Tsubasa.
“Spiegati meglio,” disse. “Sai che Tsubasa rientrerà. Sai che, come sempre, gli consegnerò la fascia da capitano. La vittoria, allora, diventerà il sogno di tutta la squadra.” Toccò il polso di Misaki e lo guidò gentilmente nel calore dell'acqua termale, prima di aggiungere: “Se non vuoi che lo chiami sogno, lo chiamerò obiettivo. Non sono certo di saper cogliere la differenza.”
Misaki, tornato al suo fare docile, annuì. “Quando eravamo ragazzini, io e Tsubasa facemmo una promessa. Lui mi disse che il suo sogno era vincere la Coppa del Mondo, io gli rivelai che miravo all'oro delle Olimpiadi.” Trasse un respiro, indietreggiò per appoggiare la schiena alle pietre che delimitavano la vasca. “Alla fine Tsubasa mi promise che avremmo vinto le Olimpiadi insieme.”
Hikaru non riuscì ad evitare che i suoi pensieri iniziassero a colare a picco. Non disse nulla e lasciò che anche il suo corpo affondasse, finché gli occhi non toccarono il margine dell'acqua: era proprio lì che si originava il vapore e tutto perdeva nitidezza.
Avrebbe dovuto concentrarsi sul discorso, invece stava scandagliando il passato nel tentativo di ricordare che cosa avesse promesso quand'erano stati bambini. “Non trovo nulla di grande, nulla di importante,” si rammaricò.
Misaki si mosse in un impercettibile inchino, come se volesse scusarsi della situazione. “La medaglia olimpica mi sembrava l'obiettivo più concreto che potessi raggiungere, in un paese dove non esisteva nemmeno il campionato professionistico.” Le parole che pronunciava giungevano ovattate, intercalate da un dolce sciabordio. “Tu probabilmente avrai da ridire, ma ti assomigliavo.”
Ti assomigliavo, ti assomigliavo,” ripeté tra sé Hikaru. Riemerse, rialzò lo sguardo.
Il volto di Misaki era in chiaroscuro, ma i lineamenti restavano ben riconoscibili nella luce calda che li accarezzava. Negli occhi castani, sicuri del proprio talento ma anche del proprio destino, Hikaru ritrovò il tempo in cui aveva posseduto la certezza di poter fare qualsiasi cosa.
Si appoggiò anch'egli al bordo della vasca. Da quel punto poteva vedere la cascata che si riversava nella pozza vicina. Al contatto con le irregolarità della roccia, l'acqua si separava in fili cristallini che finivano per intrecciarsi e confluire nuovamente nella corrente.
“Io non ti assomiglio affatto,” affermò, però Misaki non rispose. Benché non si stessero guardando in faccia, Hikaru sapeva che stava ridendo in attesa della sua prossima mossa.
“Va bene,” concesse. “A volte, in effetti, sei incosciente come me.”
“Immaginavo che avresti detto qualcosa del genere, sei prevedibile.”
“Posso aggiungere che ad entrambi piace il ramen. Ricordi? Il sabato dopo l'allenamento lo ordinavamo in coro.”
“Poi entrambi volevamo vedere Kamen Rider.”
“Quando si vedeva.”
“E' vero, a Furano la televisione non si vedeva un granché bene.”
“Quando te ne fosti andato ci rimasi malissimo.”
“Anche io, per quanto fossi abituato a spostarmi di continuo. Non fu un addio come gli altri.”
“Averti ritrovato potrebbe essere la realizzazione di un sogno.”
Misaki tacque, forse sorpreso. Poi chiese: “Quindi... mi trovo in un tuo sogno?”
“Chissà,” ridacchiò Hikaru.
“Matsuyama, io penso che senza di te non sarei arrivato a qualificarmi ai giochi. I miei nervi non erano così saldi da poter gestire la squadra.”
Hikaru appoggiò la mano sulla spalla di Misaki ed esclamò: “Andiamo, vuoi farmi credere che siamo pari?”
“Solo che insieme potremmo essere forti davvero, senza illuderci.”
“Così forti da vincere le Olimpiadi...” mormorò Hikaru.
“Così forti da vincere le Olimpiadi,” confermò Misaki appoggiando la mano sulla sua.
Un refolo di vento spazzò via il vapore. Tornarono a guardarsi negli occhi, per un attimo tutto fu nitido.

Fuori la neve continuava a scendere fitta. Il manto bianco sembrava voler annientare le poche luci disposte lungo l'unica via che attraversava il villaggio.
Prima di uscire Tarō aveva legato bene la sciarpa di lana che gli aveva regalato suo padre. Poi aveva abbottonato uno ad uno gli alamari del cappotto. Non c'era davvero modo che potesse sentire freddo.
Dopo che ebbero mosso alcuni passi nel biancore, non poté fare a meno di volgersi verso Matsuyama. Camminava al suo fianco, silenzioso. Aveva occhi lucidi, capelli spolverati di cristalli, guance arrossate come quelle di un bambino.
Davanti la neve stava cancellando la strada, ma Tarō non aveva bisogno di vederla: il suo posto era lì, in quella terra. Non in un'illusione, non in un sogno.
Perché io sono Tarō Misaki.
Grossi fiocchi gli si scioglievano sul viso e poi scorrevano fino ad inumidire le labbra. Sapevano di zolfo e di cedro. E di sale.







 
  
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