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Autore: Sibylla    19/01/2015    3 recensioni
E se Kate non avesse mai accettato la proposta di matrimonio di Castle? E se il destino non si fosse ancora arreso, a differenza di loro stessi?
Dal prologo:
"Erano già passati due anni. [...]
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero e più di un forse. E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio desiderio di fuga.
[...]
Da quel giorno non aveva mai più visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro, Più stagioni
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Get lost in the beauty

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)



Il tramonto non lo aveva mai particolarmente affascinato.
Quella sensazione di fine e di indefinitezza insieme lo aveva sempre lasciato piuttosto indifferente; talvolta aveva persino trovato irritante l'idea di tanto sfarzo solo per annunciare la fine dell'ennesimo, ordinario, giorno.
In passato, nel pieno di alcuni dei suoi periodi più neri, avvolto dalla propria spirale di debolezze e sconforto, quella luce così calda e abbagliante non era stata che una violenza, una beffa al buio del suo animo.
Solo poche volte si era ritrovato a contemplarlo e a viverlo appieno, e quasi sempre c'era stata di mezzo una donna: in fin dei conti era pur sempre un uomo di mondo, un amante dell'amore, e conosceva bene il valore aggiunto all'attrattiva romantica di un tramonto ben gestito.
Ma era tutto qui.
Potendo scegliere, lui preferiva l'alba.
E non solo per la luce fredda che svuota il cielo, da riempire ogni giorno con mille nuovi propositi e aspettative, né per la fragile quiete che porta con sé. Amava l'alba per queste e altre cose insieme, che ne facevano il perfetto coronamento di un momento ancor più perfetto: la notte.
Era nella notte che i crimini più efferati e le passioni più brucianti si consumavano, e i segreti più oscuri venivano rivelati, affidati sottovoce al più nero dei silenzi.
Alla notte aveva commissionato gran parte del proprio successo, dedicandole libri e fervidi racconti, e tra le pieghe della notte in cambio lui si era guadagnato un riparo per i momenti peggiori.
Sì, lui di gran lunga preferiva la notte.
Guardare il tramonto infrangersi sulle nuvole attraverso l'oblò di un aereo, quella però era tutta un'altra storia.
E quella sera di nuvole intorno a lui ce n'erano tante, troppe forse: ed ognuna era orlata di una delicata luce rosea.
Dopo tutto era uno scrittore, un cultore dell'arte: sapeva riconoscere la bellezza quando la vedeva. Anche in un tramonto.
E quel tipo di bellezza era rara, e violenta.
Poche altre cose al mondo avevano quella stessa graffiante semplicità. Ancor meno donne potevano vantarla: nella vita eri fortunato se riuscivi a incontrarne anche solo una così lungo il cammino. Lui, un tempo, era stato fortunato. Ma, com'è noto, la fortuna gira.
Di tramonti così, invece, in certi periodi poteva bearsi anche ogni mese.
E ogni volta era come la prima.


A rompere l'idillio venne la voce gracchiante del capitano, che dall'interfono invitava i signori passeggeri ad allacciare le cinture in vista dell'atterraggio.
Nel regolare la fibbia metallica si lasciò distrarre dalla spia rossa che aveva preso a lampeggiargli insistente sopra la testa, e quasi non si accorse dell'arrivo dell'hostess, sobbalzando quando la sua chioma rossa si insinuò prepotentemente nel proprio campo visivo.
«Mi scusi signore, dovrebbe chiudere il finestrino. Stiamo per atterrare»
Castle annuì, celando dietro un affabile sorriso il sussulto di qualche istante prima, sorriso che gli fu prontamente ricambiato insieme a un lieve rossore sulle gote.
Con le dita ancora appese al perno di plastica del finestrino, attese che la donna si fosse allontanata a sufficienza per poi riaprirlo indisturbato.
Ormai era diventato un gesto automatico, spesso portato a termine per puro istinto di ribellione all'ingiusta regola che gli impediva di gustarsi il panorama proprio nel momento in cui questo acquisiva maggiore interesse.
Ogni volta si riprometteva di chiedere il perché di tale regola, e ogni volta puntualmente se ne dimenticava: magari in tutti questi anni aveva attentato alla sicurezza propria e degli altri passeggeri senza saperlo... Non che questo l'avrebbe fermato con sicurezza dal farlo. Specie oggi, che si preannunciava un raro spettacolo di luci rosee e grattacieli dai riflessi laminati.
Nel pieno della discesa, le nuvole avevano già preso a diradarsi, rivelando qua e là frammenti della città sotto di lui, e man mano che l'aereo scendeva di quota poteva scorgere sempre nuovi dettagli: le chiazze verdi dei parchi, le saette variopinte che erano le macchine... finché anche gli uomini non si svelarono ai suoi occhi.
Improvvisamente una morsa alle budella attentò al suo stomaco, quando si rese conto che in quel groviglio ancora confuso di forme e colori c'era anche Kate.
D'istinto chiuse il finestrino, chiedendosi come questo piccolo dettaglio potesse essergli venuto in mente soltanto adesso. Eppure, non era proprio per questo che aveva mostrato tanta esitazione nell'accettare l'invito a Washington?
Non che fosse un dramma rivederla, ci era ormai abituato e inevitabilmente col tempo era andato avanti, lasciandosi alle spalle quella storia. Tuttavia aveva pur sempre trascorso cinque, densissimi, anni in compagnia di quella donna e conosceva perfettamente l'effetto che aveva su di lui, quindi per esperienza sapeva che era sempre meglio evitare d'incontrarla quando possibile.
Perché dopotutto lui era sempre un uomo, e Kate era sempre Kate.
E ogni tanto, quando la sua vena letteraria lo faceva scivolare in quei poetici momenti bui dell'esistenza che rendono tale uno scrittore, si ritrovava a incappare in scomodi ricordi del loro passato. Come stava accadendo adesso, per esempio.
A distanza di anni non facevano più così male in effetti, e lui aveva imparato a smettere di rimproverarsi di colpe che in fondo non aveva, ma era come con alcuni ritornelli di tormentoni musicali: gli entravano in testa, e magari li ripassava con gioviale nostalgia, ma erano pur sempre fastidiosi. Si riproponevano di continuo, ad ogni sosta del suo cervello -di numero non indifferente, oltretutto- e non riusciva a scacciarli per giorni, se non sostituendoli man mano con altri suoi ricordi, finché questi non si esaurivano o non giungevano reminiscenze più ingombranti da sopportare, che gli fornivano la determinazione necessaria ad alzare la guardia di fronte al potere delle libere associazioni.
Di questi ultimi, il più gettonato era chiaramente il ricordo della sua proposta, e della loro conseguente fine.
Per ovvie ragioni questo scenario aveva sempre conservato un certo potere irritante e, arrivato ad esso, Castle sapeva di stare sfiorando incautamente la linea rossa del pericolo e di doversi fermare.
L'ultima volta che aveva ritardato nel farlo, aveva finito per scaraventare un vaso Ming da 5000 dollari contro la parete del suo studio, e si era fermato solo perché le urla di sua madre di fronte ai cocci si erano fatte più forti delle voci nella sua testa.
Eppure non era tutta colpa sua, non si trattava di semplice autocontrollo, come le aveva candidamente ripetuto più volte Martha, e Alexis, ed Esposito e chiunque altro si fosse sentito in dovere di consigliarlo.
Se loro avessero potuto vedere quello che aveva visto lui, se la avessero vista piangere, lei che non aveva il diritto di versare alcuna lacrima perché segretamente gli aveva detto addio molto tempo prima di quel giorno, allora forse avrebbero capito.
Ancora adesso che il tempo, la rassegnazione, la scrittura e l'affetto delle persone care avevano ampiamente lenito il suo rancore, rivivere quel flashback gli procurava una scarica di adrenalina lungo la schiena.
Ancora adesso ricordava alla perfezione ogni più piccolo movimento: l'avvicinarsi della propria fronte alla sua e quello sfiorarsi, un tocco persino più intimo del bacio che non era riuscito a darle. Come se con quel contatto avesse potuto comunicarle tutto ciò che lei era stata per lui, e ciò che ancora era.
Ma era già finita, lo sapevano entrambi.
Ed era stato giusto così. Inevitabile.
Non c'era stato rimorso o rancore nel suo sguardo, -quello era venuto dopo insieme alla solitudine e al dolore- ma solo tenerezza per una donna che in realtà non aveva mai davvero avuto.
Quel muro non lo aveva che appena scalfito, e colei che aveva creduto di vedere dall'altra parte era stata solo una marionetta, i cui fili erano stati sapientemente tirati dalla donna nascosta al sicuro dietro la propria, impenetrabile, torre di mattoni.


«Signor Castle, da questa parte!»
Appena fuori dalla porta scorrevole a vetri, Castle non fece in tempo a muovere un altro passo nella zona arrivi dell'aeroporto che si sentì chiamare.
Scandagliando rapidamente la folla di parenti e chauffeur di fronte a sé, notò infine una tozza bionda sulla quarantina, di altezza normale ma troppo bassa per la propria massa corporea, che a forza di spinte e svicolate era riuscita a farsi largo tra la gente fino alla prima fila.
Nonostante la sua presenza fosse del tutto inattesa, individuarla non era stato certo difficile: a parte la stazza non indifferente, la donnina aveva preso a sbracciare come per liberarsi da uno sciame d'api, sventolando a mo' di ventaglio il cartello con su scritto il nome dello scrittore, con una veemenza decisamente non necessaria.
Leggermente intimorito, l'uomo prese ad andarle incontro con passo dubbioso, finché non le fu davanti. Solo allora notò il logo dell'Hartforth Hotel cucito sulla camicia.
«Signor Castle, è un onore incontrarla di persona, io adoro i suoi libri!»
«La ringrazio, signorina...»
Castle tese la mano verso la donna che, dopo qualche attimo di ammirata esitazione, gliela strinse, agitando l'intero busto piuttosto che il solo arto.
«Patricia, Patricia Belson!»
«È un piacere Patricia. Non vorrei sembrarle scortese ma posso sapere come mai è qui? Non ricordo di aver richiesto di essere prelevato all'aeroporto»
«Oh, è stata la signora Haas a farlo»
«Paula, ma certo...» soffiò Castle a mezza voce tra un sospiro e un'alzata d'occhi «Aveva paura che scappassi, magari»
L'ironia tagliente con cui il commento era stato fatto non era sfuggita a Patricia che, indecisa su come rispondere per evitare di impelagarsi in una discussione chiaramente scomoda, si limitò a sorridere candidamente, rasserenando di poco lo sguardo corrucciato di Castle.
Ora che la guardava meglio, con le labbra distese in un ampio sorriso e il volto paffuto illuminato dalla dentatura bianchissima e curiosamente perfetta, doveva ammettere che, sotto quegli strati di stoffa variopinta e quell'abbondanza di carne, si nascondeva una donna piacevole e forse, se opportunamente agghindata, piacente.
Inoltre il suo sorriso sincero e vagamente imbarazzato suonava rassicurante, lasciando presagire una piacevole, seppur non richiesta, compagna di viaggio.
L'entusiasmo iniziale andò comunque smorzandosi man mano che la coppia procedeva lungo l'aeroporto, con Patricia che, rotto il ghiaccio, rivelò la sua parlantina nonché il suo fare autoritario nell'impedire all'altro qualunque sosta o spostamento non precedentemente autorizzato da Paula, e Castle che si trascinava stancamente dietro di lei, con il trolley in una mano e risposte unicamente monosillabiche in gola.
Quando avevano infine raggiunto l'uscita, Castle sapeva già che Patricia aveva due figli, un marito sfaticato, un gatto grasso e un'improbabile passione per le barrette ai cereali. La sola cosa che salvò le sue orecchie dall'imminente suicidio fu il suono del proprio telefono squillargli nei pantaloni.
«Paula, proprio la donna a cui stavo pensando...»
«Richard, anche per me è sempre un piacere godere delle tue parole da migliaia di dollari, spero che il volo sia andato bene! Hai già incontrato Patricia?»
«Intendi il cane da guardia che hai mandato a prendermi?»
«Suvvia, non essere esagerato, l'ho fatto solo per rendere il tuo viaggio il meno faticoso possibile, e ti ho evitato l'impiccio del taxi. È deliziosa, non trovi?»
Prima di rispondere Castle lanciò un'occhiata in direzione della donna, che aveva con successo chiuso il portabagagli con la sua valigia all'interno e lo stava ora invitando a raggiungerla in auto, già seduta al posto di guida col solito sorriso a incorniciarle il volto.
«Sì, forse anche troppo. Ora devo andare, ci risentiamo domani»
La voce all'altro capo del telefono lo salutò di rimando, e un sospiro dopo Castle si incamminò verso l'auto prendendo posto accanto alla sua guida.


Quaranta minuti dopo Richard Castle aveva già raggiunto l'hotel, fatto il check in, scaricato cordialmente Patricia, rifiutato una cena, ed era giunto al termine di una rinfrancante conversazione telefonica con Alexis.
Vinto da uno sbadiglio, scambiò un ultimo saluto con la figlia, con l'augurio di una buonanotte e la promessa di richiamarla l'indomani, non appena terminata la presentazione del libro.
Chiuse la chiamata e con un tonfo distese le braccia all'indietro, lasciando che il cellulare rimbalzasse mollemente sul materasso.
Rimase così, in una posizione a stella marina che ricordava vagamente quella di una tortura in voga in passato, per quelli che sembrarono un'ora e invece furono solo venti minuti.
Troppo stanco per scendere al ristorante e rischiare d'intrattenere ulteriori interazioni sociali, chiamò il servizio in camera ordinando una bistecca, un'insalata e un buon bicchiere di vino rosso. Una doccia fu il passo successivo, che lo tenne occupato fino a quando il cameriere -un tipo lungo dall'aria assonnata- non si presentò alla sua porta con la sua cena.
Quando i piatti dinanzi a lui furono finalmente svuotati, il cielo era diventato ormai nero e la città oltre la sua finestra era stata completamente rivestita di Notte.
A passi lenti si avviò verso il letto, facendo il giro largo per poter passare accanto la vetrata e ammirare la sua amata notte in tutta calma. Sotto di lui, tra le fronde danzanti degli alberi e l'insegna di un supermercato aperto ventiquattro ore, vide sfrecciare un'auto della polizia, a sirene spiegate in mezzo al traffico onnipresente di Washington, il che per vie traverse e per le motivazioni più sbagliate, gli ricordò che gli toccava fare un'ultima telefonata prima di potersi finalmente concedere a Morfeo.


La mattina successiva arrivò troppo presto e non nel migliore dei modi: un'ustione da caffè alla lingua e un freddo pungente non avevano aiutato a rendere veloce o indolore il distacco da uno dei letti più comodi che avesse mai provato. Inoltre un'ora dopo si era aggiunta anche Patricia e la sua immensa mole di aneddoti e storie, cui Paula aveva apparentemente dato il compito di pedinarlo in ogni suo spostamento.
Fortunatamente lui era stato piuttosto abile a far perdere le proprie tracce all'angolo tra la Ronson e la Ventiquattresima, e giunti a metà mattina sembrava che la sua giornata dovesse infine iniziare a prendere una piega migliore.
Una volta liberatosi dall'impiccio della compagnia, Castle poté per prima cosa concedersi una lunga e solitaria passeggiata per la città, beandosi dei dettagli e degli scorci che la sua vena scrittoria era in grado di percepire, senza il rischio di venir distratto o di dover condividere le sue scoperte con qualcuno ad alta voce.
Quando fu sazio del paesaggio urbano e della sua fumosa frenesia, si diresse verso il quartiere di Capitol Hill.
Sullo sfondo di quei meravigliosi parchi, le sue orecchie godettero del conquistato silenzio -lì ancor più apprezzabile- e i suoi occhi si imbatterono sull'imponente edificio del Campidoglio, che tuttavia si limitò a osservare da lontano, avendo altre mire.
Raggiunse la sua meta una decina di minuti dopo.
La Biblioteca del Congresso era per lui una tappa obbligata ogni qualvolta si trovava a Washington, fin da quando da bambino vi si era recato la prima volta in compagnia di sua madre.
Era probabilmente un trito cliché -lo scrittore che visita la biblioteca- eppure non poteva farne a meno: sia il maestoso neoclassicismo degli esterni, che l'aria polverosa, quasi sacra, che si respirava all'interno riuscivano ad affascinarlo come pochi altri luoghi al mondo.
Com'era frequente quando si circondava di parole scritte, sia proprie che altrui, il tempo passò incredibilmente veloce, e quando infine uscì dall'edificio era già ora di pranzo: frettolosamente si recò in un ristorante e consumò un rapido pranzo, per poi tornare in hotel dove una doccia e un cambio abiti lo attendevano, in vista della presentazione del proprio libro di quel pomeriggio.


Ogni presentazione si svolgeva in modo pressoché identico.
Per prima cosa c'era qualcuno a presentarlo, poi arrivava lui accolto da una folla più o meno urlante -a seconda del genere e dell'età dei presenti-, seguivano un breve discorso, la presentazione del libro, la lettura di un breve estratto, i ringraziamenti del caso e, per ultimo, la firma delle copie.
Era però una monotonia piacevole: gli dava l'occasione di interagire con ciò che amava fare e con persone che amavano ciò che lui faceva, e occasionalmente lui.
Era buffo pensare a come centinaia di ragazze affermassero di essere innamorate di lui senza averlo mai conosciuto, solo sulla base di parole che lui metteva in bocca a personaggi fittizi e che non necessariamente condivideva. Eppure eccole lì, in fila, in trepidante attesa di una sua parola o di un suo autografo su cui poter fantasticare più tardi.
A questo Richard Castle pensava, mentre la penna correva veloce una pagina dopo l'altra, in un gesto -quello del firmare- ormai diventato automatico negli anni, ma mai totalmente disinteressato.
Del resto era sinceramente grato a quelle persone, anche se a volte si sentiva comunque solo nonostante loro.
Mentre il proprio sorriso e i propri occhi incontravano quelli sognanti della fan di turno, e una carrellata di volti sconosciuti gli sfilava dinanzi, l'ennesimo scomodo pensiero si affacciò alla sua mente, forte della cattiva strada che il suo cervello aveva imboccato il giorno prima in aereo.
Così, tra un autografo e un saluto, prese forma il ricordo di quel giorno in cui l'ennesima voce aveva chiamato il suo nome, ma stavolta a pronunciarlo era stata una bocca familiare, come familiari erano stati gli occhi, i capelli, e quella rughetta d'espressione tra le sopracciglia.
Quello era stato un periodo difficile per loro, e non uno fra i tanti ma forse il peggiore. Quello in cui lui, con l'ombra del suo sangue ancora tra le mani, era finalmente venuto a patti con i propri sentimenti, e lei lo aveva allontanato come sempre, ma con più forza.
Lo aveva sorpreso, negativamente, cacciandolo senza motivo -così credeva lui al tempo- dalla propria vita e rifiutando la sua presenza, e poi, quando si era ormai rassegnato al fatto di avere avuto a che fare con la solita donna caparbia, impaurita e meschina della sua vita, lei lo aveva sorpreso di nuovo. Nel bene stavolta.
Si era presentata di fronte a lui, a testa bassa come non avrebbe mai pensato di vederla, ma con la stessa determinazione di sempre negli occhi.
Quel giorno lui l'aveva ritrovata, o forse l'aveva scoperta per la prima volta, attraverso quella breccia che aveva creduto di vedere aprirsi nel suo muro.
Molte volte, dopo essersi lasciati, aveva immaginato di rincontrarla così, di ritrovarsela davanti inaspettatamente, identica a come l'aveva l'asciata ma forte di un nuovo coraggio. In ogni sua fantasia, in ogni scenario che la sua mente aveva costruito nel corso dei giorni successivi al loro addio -quando il cuore ancora sperava di riaverla- l'aveva sempre immaginata tornare da lui con tra le mani una nuova breccia sul proprio muro, come quella volta alla presentazione del libro: una nuova breccia che, insieme alla prima, gli avrebbe permesso di infilare entrambe le braccia attraverso la sua barriera di mattoni e afferrarla per non lasciarla più andare via, per non permetterle di avere paura e scappare da lui un'altra volta.
Chiaramente non era mai successo.
E col tempo si era convinto che in realtà quella prima fessura che aveva creduto di vedere era stato solo un abbaglio, o che se c'era stata davvero era stata prontamente richiusa in seguito, silenziosamente, senza che lui se ne accorgesse. Approfittando del fatto che lui -che giornalmente la studiava per accertarsi che la breccia fosse ancora lì- aveva poi smesso di controllare, rassicurato da quell'amore che lei finalmente si era concessa di dargli.


«Signor Castle, è stato un immenso piacere. Speriamo di riaverla al più presto qui, magari col suo prossimo libro!»
Quando l'ultima copia era stata firmata, le porte della libreria erano state chiuse, e Castle aveva creduto di poter finalmente godere di un attimo di respiro, il gestore dell'attività gli era letteralmente corso incontro inondandolo di ringraziamenti e complimenti che solo dieci minuti pieni e una copia con dedica per ogni membro della famiglia dell'uomo erano riusciti a fermare.

Esauriti gli ultimi convenevoli Castle fu finalmente libero e, alzato il bavero del cappotto, si addentrò nell'aria umida di pioggia di Washington. Per un breve istante valutò la possibilità di fermare un taxi, di cui le strade erano piene, ma la prospettiva di passeggiare tra i palazzi di Washington, con l'illuminazione stradale che lentamente cedeva il passo alla luce del sole nonostante fossero ancora le cinque del pomeriggio, lo convinse a desistere. Inoltre l'aria fresca sembrava un buon rimedio alla stanchezza, oltre che perfetta rinfrescarsi le idee.
Procedendo a passi lenti per godere più a lungo della città e della leggera brezza contro il suo viso, impiegò il doppio del tempo necessario per arrivare all'hotel.
Quando infine svoltò l'ultimo angolo e intravide in lontananza l'insegna dell'Hartforth si decise ad accelerare il passo: ora che la destinazione era stata raggiunta e il letto era a soli tre piani di distanza, infatti, tutta la stanchezza accumulata durante la giornata aveva deciso di potersi manifestare senza il rischio di controproducenti conseguenze.
Pertanto, quando Castle arrivò a un paio di metri dall'ingresso, fu proprio alla stanchezza che imputò la sagoma slanciata stagliata di fronte a sé, e sempre alla stanchezza attribuì la strana impressione che gli occhi di quella sagoma stessero puntando proprio a lui, con un qualcosa di bizzarramente familiare.

«Kate?»
Il nome uscì prima che il cervello potesse metabolizzarlo. Il tono interrogativo della voce a sottolineare quanta incredulità ci fosse nel solo immaginare l'eventualità che si trattasse di lei.
«Ciao, Castle»
La voce di lei arrivo a spazzare ogni dubbio, riportando a galla quella speciale irritazione che solo lei era in grado di procurargli.
Eccola lì, in piedi di fronte a lui, come aveva sempre immaginato: le mani in tasca, un sorriso sfacciatamente accennato sul volto in contrasto con l'imbarazzo disegnato nei suoi occhi, pur tuttavia illuminati dalla solita, meravigliosa, caparbietà di cui solo Katherine Beckett era capace.
Solo che stavolta era vero.



  
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