Get lost in the beauty
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come Home - One Republic)
Il
tramonto non lo aveva mai particolarmente affascinato.
Quella
sensazione di fine e di indefinitezza insieme lo aveva sempre
lasciato piuttosto indifferente; talvolta aveva persino trovato
irritante l'idea di tanto sfarzo solo per annunciare la fine
dell'ennesimo, ordinario, giorno.
In passato, nel pieno di alcuni
dei suoi periodi più neri, avvolto dalla propria spirale di
debolezze e sconforto, quella luce così calda e abbagliante
non era
stata che una violenza, una beffa al buio del suo animo.
Solo
poche volte si era ritrovato a contemplarlo e a viverlo appieno, e
quasi sempre c'era stata di mezzo una donna: in fin dei conti era pur
sempre un uomo di mondo, un amante dell'amore, e conosceva bene il
valore aggiunto all'attrattiva romantica di un tramonto ben
gestito.
Ma era tutto qui.
Potendo scegliere, lui preferiva
l'alba.
E non solo per la luce fredda che svuota il cielo, da
riempire ogni giorno con mille nuovi propositi e aspettative,
né per
la fragile quiete che porta con sé. Amava l'alba per queste
e altre
cose insieme, che ne facevano il perfetto coronamento di un momento
ancor più perfetto: la notte.
Era nella notte che i crimini più
efferati e le passioni più brucianti si consumavano, e i
segreti più
oscuri venivano rivelati, affidati sottovoce al più nero dei
silenzi.
Alla notte aveva commissionato gran parte del proprio
successo, dedicandole libri e fervidi racconti, e tra le pieghe della
notte in cambio lui si era guadagnato un riparo per i momenti
peggiori.
Sì, lui di gran lunga preferiva la notte.
Guardare
il tramonto infrangersi sulle nuvole attraverso l'oblò di un
aereo,
quella però era tutta un'altra storia.
E quella sera di
nuvole intorno a lui ce n'erano tante, troppe forse: ed ognuna era
orlata di una delicata luce rosea.
Dopo tutto era uno scrittore,
un cultore dell'arte: sapeva riconoscere la bellezza quando la
vedeva. Anche in un tramonto.
E quel tipo di bellezza era rara, e
violenta.
Poche altre cose al mondo avevano quella stessa
graffiante semplicità. Ancor meno donne potevano vantarla:
nella
vita eri fortunato se riuscivi a incontrarne anche solo una
così
lungo il cammino. Lui, un tempo, era stato fortunato. Ma,
com'è
noto, la fortuna gira.
Di tramonti così, invece, in certi periodi
poteva bearsi anche ogni mese.
E ogni volta era come la prima.
A
rompere l'idillio venne la voce gracchiante del capitano, che
dall'interfono invitava i signori passeggeri ad allacciare le cinture
in vista dell'atterraggio.
Nel regolare la fibbia metallica si
lasciò distrarre dalla spia rossa che aveva preso a
lampeggiargli
insistente sopra la testa, e quasi non si accorse dell'arrivo
dell'hostess, sobbalzando quando la sua chioma rossa si
insinuò
prepotentemente nel proprio campo visivo.
«Mi scusi signore,
dovrebbe chiudere il finestrino. Stiamo per atterrare»
Castle
annuì, celando dietro un affabile sorriso il sussulto di
qualche
istante prima, sorriso che gli fu prontamente ricambiato insieme a un
lieve rossore sulle gote.
Con le dita ancora appese al perno di
plastica del finestrino, attese che la donna si fosse allontanata a
sufficienza per poi riaprirlo indisturbato.
Ormai era diventato un
gesto automatico, spesso portato a termine per puro istinto di
ribellione all'ingiusta regola che gli impediva di gustarsi il
panorama proprio nel momento in cui questo acquisiva maggiore
interesse.
Ogni volta si riprometteva di chiedere il perché di
tale regola, e ogni volta puntualmente se ne dimenticava: magari in
tutti questi anni aveva attentato alla sicurezza propria e degli
altri passeggeri senza saperlo... Non che questo l'avrebbe fermato
con sicurezza dal farlo. Specie oggi, che si preannunciava un raro
spettacolo di luci rosee e grattacieli dai riflessi laminati.
Nel
pieno della discesa, le nuvole avevano già preso a
diradarsi,
rivelando qua e là frammenti della città sotto di
lui, e man mano
che l'aereo scendeva di quota poteva scorgere sempre nuovi dettagli:
le chiazze verdi dei parchi, le saette variopinte che erano le
macchine... finché anche gli uomini non si svelarono ai suoi
occhi.
Improvvisamente una morsa alle budella attentò al suo
stomaco, quando si rese conto che in quel groviglio ancora confuso di
forme e colori c'era anche Kate.
D'istinto chiuse il finestrino,
chiedendosi come questo piccolo dettaglio potesse essergli venuto in
mente soltanto adesso. Eppure, non era proprio per questo che aveva
mostrato tanta esitazione nell'accettare l'invito a Washington?
Non
che fosse un dramma rivederla, ci era ormai abituato e
inevitabilmente col tempo era andato avanti, lasciandosi alle spalle
quella storia. Tuttavia aveva pur sempre trascorso cinque,
densissimi, anni in compagnia di quella donna e conosceva
perfettamente l'effetto che aveva su di lui, quindi per esperienza
sapeva che era sempre meglio evitare d'incontrarla quando
possibile.
Perché dopotutto lui era sempre un uomo, e Kate era
sempre Kate.
E ogni tanto, quando la sua vena letteraria lo faceva
scivolare in quei poetici momenti bui dell'esistenza che rendono tale
uno scrittore, si ritrovava a incappare in scomodi ricordi del loro
passato. Come stava accadendo adesso, per esempio.
A distanza di
anni non facevano più così male in effetti, e lui
aveva imparato a
smettere di rimproverarsi di colpe che in fondo non aveva, ma era
come con alcuni ritornelli di tormentoni musicali: gli entravano in
testa, e magari li ripassava con gioviale nostalgia, ma erano pur
sempre fastidiosi. Si riproponevano di continuo, ad ogni sosta del
suo cervello -di numero non indifferente, oltretutto- e non riusciva
a scacciarli per giorni, se non sostituendoli man mano con altri suoi
ricordi, finché questi non si esaurivano o non giungevano
reminiscenze più ingombranti da sopportare, che gli
fornivano la
determinazione necessaria ad alzare la guardia di fronte al potere
delle libere associazioni.
Di questi ultimi, il più gettonato era
chiaramente il ricordo della sua proposta, e della loro conseguente
fine.
Per ovvie ragioni questo scenario aveva sempre conservato un
certo potere irritante e, arrivato ad esso, Castle sapeva di stare
sfiorando incautamente la linea rossa del pericolo e di doversi
fermare.
L'ultima volta che aveva ritardato nel farlo, aveva
finito per scaraventare un vaso Ming da 5000 dollari contro la parete
del suo studio, e si era fermato solo perché le urla di sua
madre di
fronte ai cocci si erano fatte più forti delle voci nella
sua
testa.
Eppure non era tutta colpa sua, non si trattava di semplice
autocontrollo, come le aveva candidamente ripetuto più volte
Martha,
e Alexis, ed Esposito e chiunque altro si fosse sentito in dovere di
consigliarlo.
Se loro avessero potuto vedere quello che aveva
visto lui, se la avessero vista piangere, lei che non aveva il
diritto di versare alcuna lacrima perché segretamente gli
aveva
detto addio molto tempo prima di quel giorno, allora forse avrebbero
capito.
Ancora adesso che il tempo, la rassegnazione, la scrittura
e l'affetto delle persone care avevano ampiamente lenito il suo
rancore, rivivere quel flashback gli procurava una scarica di
adrenalina lungo la schiena.
Ancora adesso ricordava alla
perfezione ogni più piccolo movimento: l'avvicinarsi della
propria
fronte alla sua e quello sfiorarsi, un tocco persino più
intimo del
bacio che non era riuscito a darle. Come se con quel contatto avesse
potuto comunicarle tutto ciò che lei era stata per lui, e
ciò che
ancora era.
Ma era già finita, lo sapevano entrambi.
Ed era
stato giusto così. Inevitabile.
Non c'era stato rimorso o rancore
nel suo sguardo, -quello era venuto dopo insieme alla solitudine e al
dolore- ma solo tenerezza per una donna che in realtà non
aveva mai
davvero avuto.
Quel muro non lo aveva che appena scalfito, e colei
che aveva creduto di vedere dall'altra parte era stata solo una
marionetta, i cui fili erano stati sapientemente tirati dalla donna
nascosta al sicuro dietro la propria, impenetrabile, torre di
mattoni.
«Signor
Castle, da questa parte!»
Appena fuori dalla porta scorrevole a
vetri, Castle non fece in tempo a muovere un altro passo nella zona
arrivi dell'aeroporto che si sentì chiamare.
Scandagliando
rapidamente la folla di parenti e chauffeur di fronte a sé,
notò
infine una tozza bionda sulla quarantina, di altezza normale ma
troppo bassa per la propria massa corporea, che a forza di spinte e
svicolate era riuscita a farsi largo tra la gente fino alla prima
fila.
Nonostante la sua presenza fosse del tutto inattesa,
individuarla non era stato certo difficile: a parte la stazza non
indifferente, la donnina aveva preso a sbracciare come per liberarsi
da uno sciame d'api, sventolando a mo' di ventaglio il cartello con
su scritto il nome dello scrittore, con una veemenza decisamente non
necessaria.
Leggermente intimorito, l'uomo prese ad andarle
incontro con passo dubbioso, finché non le fu davanti. Solo
allora
notò il logo dell'Hartforth Hotel cucito sulla camicia.
«Signor
Castle, è un onore incontrarla di persona, io adoro i suoi
libri!»
«La ringrazio, signorina...»
Castle tese la mano
verso la donna che, dopo qualche attimo di ammirata esitazione,
gliela strinse, agitando l'intero busto piuttosto che il solo
arto.
«Patricia, Patricia Belson!»
«È un piacere Patricia.
Non vorrei sembrarle scortese ma posso sapere come mai è
qui? Non
ricordo di aver richiesto di essere prelevato all'aeroporto»
«Oh,
è stata la signora Haas a farlo»
«Paula, ma certo...» soffiò
Castle a mezza voce tra un sospiro e un'alzata d'occhi «Aveva
paura
che scappassi, magari»
L'ironia tagliente con cui il commento era
stato fatto non era sfuggita a Patricia che, indecisa su come
rispondere per evitare di impelagarsi in una discussione chiaramente
scomoda, si limitò a sorridere candidamente, rasserenando di
poco lo
sguardo corrucciato di Castle.
Ora che la guardava meglio, con le
labbra distese in un ampio sorriso e il volto paffuto illuminato
dalla dentatura bianchissima e curiosamente perfetta, doveva
ammettere che, sotto quegli strati di stoffa variopinta e
quell'abbondanza di carne, si nascondeva una donna piacevole e forse,
se opportunamente agghindata, piacente.
Inoltre il suo sorriso
sincero e vagamente imbarazzato suonava rassicurante, lasciando
presagire una piacevole, seppur non richiesta, compagna di
viaggio.
L'entusiasmo iniziale andò comunque smorzandosi man mano
che la coppia procedeva lungo l'aeroporto, con Patricia che, rotto il
ghiaccio, rivelò la sua parlantina nonché il suo
fare autoritario
nell'impedire all'altro qualunque sosta o spostamento non
precedentemente autorizzato da Paula, e Castle che si trascinava
stancamente dietro di lei, con il trolley in una mano e risposte
unicamente monosillabiche in gola.
Quando avevano infine raggiunto
l'uscita, Castle sapeva già che Patricia aveva due figli, un
marito
sfaticato, un gatto grasso e un'improbabile passione per le barrette
ai cereali. La sola cosa che salvò le sue orecchie
dall'imminente
suicidio fu il suono del proprio telefono squillargli nei
pantaloni.
«Paula, proprio la donna a cui stavo
pensando...»
«Richard,
anche per me è sempre un piacere godere
delle tue parole da migliaia di dollari, spero che il volo sia andato
bene! Hai già incontrato Patricia?»
«Intendi il cane da guardia
che hai mandato a prendermi?»
«Suvvia, non
essere esagerato,
l'ho fatto solo per rendere il tuo viaggio il meno faticoso
possibile, e ti ho evitato l'impiccio del taxi. È deliziosa,
non
trovi?»
Prima di rispondere Castle lanciò un'occhiata in
direzione della donna, che aveva con successo chiuso il portabagagli
con la sua valigia all'interno e lo stava ora invitando a
raggiungerla in auto, già seduta al posto di guida col
solito
sorriso a incorniciarle il volto.
«Sì, forse anche troppo. Ora
devo andare, ci risentiamo domani»
La voce all'altro capo del
telefono lo salutò di rimando, e un sospiro dopo Castle si
incamminò
verso l'auto prendendo posto accanto alla sua guida.
Quaranta
minuti dopo Richard Castle aveva già raggiunto l'hotel,
fatto il
check in, scaricato cordialmente Patricia, rifiutato una cena, ed era
giunto al termine di una rinfrancante conversazione telefonica con
Alexis.
Vinto da uno sbadiglio, scambiò un ultimo saluto con la
figlia, con l'augurio di una buonanotte e la promessa di richiamarla
l'indomani, non appena terminata la presentazione del libro.
Chiuse
la chiamata e con un tonfo distese le braccia all'indietro, lasciando
che il cellulare rimbalzasse mollemente sul materasso.
Rimase
così, in una posizione a stella marina che ricordava
vagamente
quella di una tortura in voga in passato, per quelli che sembrarono
un'ora e invece furono solo venti minuti.
Troppo stanco per
scendere al ristorante e rischiare d'intrattenere ulteriori
interazioni sociali, chiamò il servizio in camera ordinando
una
bistecca, un'insalata e un buon bicchiere di vino rosso. Una doccia
fu il passo successivo, che lo tenne occupato fino a quando il
cameriere -un tipo lungo dall'aria assonnata- non si
presentò alla
sua porta con la sua cena.
Quando i piatti dinanzi a lui furono
finalmente svuotati, il cielo era diventato ormai nero e la
città
oltre la sua finestra era stata completamente rivestita di Notte.
A
passi lenti si avviò verso il letto, facendo il giro largo
per poter
passare accanto la vetrata e ammirare la sua amata notte in tutta
calma. Sotto di lui, tra le fronde danzanti degli alberi e l'insegna
di un supermercato aperto ventiquattro ore, vide sfrecciare un'auto
della polizia, a sirene spiegate in mezzo al traffico onnipresente di
Washington, il che per vie traverse e per le motivazioni più
sbagliate, gli ricordò che gli toccava fare un'ultima
telefonata
prima di potersi finalmente concedere a Morfeo.
La
mattina successiva arrivò troppo presto e non nel migliore
dei modi:
un'ustione da caffè alla lingua e un freddo pungente non
avevano
aiutato a rendere veloce o indolore il distacco da uno dei letti
più
comodi che avesse mai provato. Inoltre un'ora dopo si era aggiunta
anche Patricia e la sua immensa mole di aneddoti e storie, cui Paula
aveva apparentemente dato il compito di pedinarlo in ogni suo
spostamento.
Fortunatamente lui era stato piuttosto abile a far
perdere le proprie tracce all'angolo tra la Ronson e la
Ventiquattresima, e giunti a metà mattina sembrava che la
sua
giornata dovesse infine iniziare a prendere una piega migliore.
Una
volta liberatosi dall'impiccio della compagnia, Castle poté
per
prima cosa concedersi una lunga e solitaria passeggiata per la
città,
beandosi dei dettagli e degli scorci che la sua vena scrittoria era
in grado di percepire, senza il rischio di venir distratto o di dover
condividere le sue scoperte con qualcuno ad alta voce.
Quando fu
sazio del paesaggio urbano e della sua fumosa frenesia, si diresse
verso il quartiere di Capitol Hill.
Sullo sfondo di quei
meravigliosi parchi, le sue orecchie godettero del conquistato
silenzio -lì ancor più apprezzabile- e i suoi
occhi si imbatterono
sull'imponente edificio del Campidoglio, che tuttavia si
limitò a
osservare da lontano, avendo altre mire.
Raggiunse la sua meta una
decina di minuti dopo.
La Biblioteca del Congresso era per lui una
tappa obbligata ogni qualvolta si trovava a Washington, fin da quando
da bambino vi si era recato la prima volta in compagnia di sua
madre.
Era probabilmente un trito cliché -lo scrittore che visita
la biblioteca- eppure non poteva farne a meno: sia il maestoso
neoclassicismo degli esterni, che l'aria polverosa, quasi sacra, che
si respirava all'interno riuscivano ad affascinarlo come pochi altri
luoghi al mondo.
Com'era frequente quando si circondava di parole
scritte, sia proprie che altrui, il tempo passò
incredibilmente
veloce, e quando infine uscì dall'edificio era
già ora di pranzo:
frettolosamente si recò in un ristorante e
consumò un rapido
pranzo, per poi tornare in hotel dove una doccia e un cambio abiti lo
attendevano, in vista della presentazione del proprio libro di quel
pomeriggio.
Ogni
presentazione si svolgeva in modo pressoché identico.
Per prima
cosa c'era qualcuno a presentarlo, poi arrivava lui accolto da una
folla più o meno urlante -a seconda del genere e
dell'età dei
presenti-, seguivano un breve discorso, la presentazione del libro,
la lettura di un breve estratto, i ringraziamenti del caso e, per
ultimo, la firma delle copie.
Era però una monotonia piacevole:
gli dava l'occasione di interagire con ciò che amava fare e
con
persone che amavano ciò che lui faceva, e occasionalmente
lui.
Era
buffo pensare a come centinaia di ragazze affermassero di essere
innamorate di lui senza averlo mai conosciuto, solo sulla base di
parole che lui metteva in bocca a personaggi fittizi e che non
necessariamente condivideva. Eppure eccole lì, in
fila, in
trepidante attesa di una sua parola o di un suo autografo su cui
poter fantasticare più tardi.
A questo Richard Castle pensava,
mentre la penna correva veloce una pagina dopo l'altra, in un gesto
-quello del firmare- ormai diventato automatico negli anni, ma mai
totalmente disinteressato.
Del resto era sinceramente grato a
quelle persone, anche se a volte si sentiva comunque solo nonostante
loro.
Mentre il proprio sorriso e i propri occhi incontravano
quelli sognanti della fan di turno, e una carrellata di volti
sconosciuti gli sfilava dinanzi, l'ennesimo scomodo pensiero si
affacciò alla sua mente, forte della cattiva strada che il
suo
cervello aveva imboccato il giorno prima in aereo.
Così,
tra un autografo e un saluto, prese forma il ricordo di quel giorno
in cui l'ennesima voce aveva chiamato il suo nome, ma stavolta a
pronunciarlo era stata una bocca familiare, come familiari erano
stati gli occhi, i capelli, e quella rughetta d'espressione tra le
sopracciglia.
Quello era stato un periodo difficile per loro, e
non uno fra i tanti ma forse il peggiore. Quello in cui lui, con
l'ombra del suo sangue ancora tra le mani, era finalmente venuto a
patti con i propri sentimenti, e lei lo aveva allontanato come
sempre, ma con più forza.
Lo aveva sorpreso, negativamente,
cacciandolo senza motivo -così credeva lui al tempo- dalla
propria
vita e rifiutando la sua presenza, e poi, quando si era ormai
rassegnato al fatto di avere avuto a che fare con la solita donna
caparbia, impaurita e meschina della sua vita, lei lo aveva sorpreso
di nuovo. Nel bene stavolta.
Si era presentata di fronte a lui, a
testa bassa come non avrebbe mai pensato di vederla, ma con la stessa
determinazione di sempre negli occhi.
Quel giorno lui
l'aveva ritrovata, o forse l'aveva scoperta per la prima volta,
attraverso quella breccia che aveva creduto di vedere aprirsi nel suo
muro.
Molte volte, dopo essersi lasciati, aveva immaginato di
rincontrarla così, di ritrovarsela davanti inaspettatamente,
identica a come l'aveva l'asciata ma forte di un nuovo coraggio. In
ogni sua fantasia, in ogni scenario che la sua mente aveva costruito
nel corso dei giorni successivi al loro addio -quando il cuore ancora
sperava di riaverla- l'aveva sempre immaginata tornare da lui con tra
le mani una nuova breccia sul proprio muro, come quella volta alla
presentazione del libro: una nuova breccia che, insieme alla prima,
gli avrebbe permesso di infilare entrambe le braccia attraverso la
sua barriera di mattoni e afferrarla per non lasciarla più
andare
via, per non permetterle di avere paura e scappare da lui un'altra
volta.
Chiaramente non era mai successo.
E col tempo si era
convinto che in realtà quella prima fessura che aveva
creduto di
vedere era stato solo un abbaglio, o che se c'era stata davvero era
stata prontamente richiusa in seguito, silenziosamente, senza che lui
se ne accorgesse. Approfittando del fatto che lui -che giornalmente
la studiava per
accertarsi che
la breccia fosse ancora lì- aveva poi smesso di controllare,
rassicurato da quell'amore che lei finalmente si era concessa di
dargli.
«Signor
Castle, è stato un immenso piacere. Speriamo di riaverla al
più
presto qui, magari col suo prossimo libro!»
Quando l'ultima copia
era stata firmata, le porte della libreria erano state chiuse, e
Castle aveva creduto di poter finalmente godere di un attimo di
respiro, il gestore dell'attività gli era letteralmente
corso
incontro inondandolo di ringraziamenti e complimenti che solo dieci
minuti pieni e una copia con dedica per ogni membro della famiglia
dell'uomo erano riusciti a fermare.
Esauriti
gli ultimi convenevoli Castle fu finalmente libero e, alzato il
bavero del cappotto, si addentrò nell'aria umida di pioggia
di
Washington. Per un breve istante valutò la
possibilità di fermare
un taxi, di cui le strade erano piene, ma la prospettiva di
passeggiare tra i palazzi di Washington, con l'illuminazione stradale
che lentamente cedeva il passo alla luce del sole nonostante fossero
ancora le cinque del pomeriggio, lo convinse a desistere. Inoltre
l'aria fresca sembrava un buon rimedio alla stanchezza, oltre che
perfetta rinfrescarsi le idee.
Procedendo
a passi lenti per godere più a lungo della città
e della leggera
brezza contro il suo viso, impiegò il doppio del tempo
necessario
per arrivare all'hotel.
Quando infine svoltò l'ultimo angolo e
intravide in lontananza l'insegna dell'Hartforth si decise ad
accelerare il passo: ora che la destinazione era stata raggiunta e il
letto era a soli tre piani di distanza, infatti, tutta la stanchezza
accumulata durante la giornata aveva deciso di potersi manifestare
senza il rischio di controproducenti conseguenze.
Pertanto, quando
Castle arrivò a un paio di metri dall'ingresso, fu proprio
alla
stanchezza che imputò la sagoma slanciata stagliata di
fronte a sé,
e sempre alla stanchezza attribuì la strana impressione che
gli
occhi di quella sagoma stessero puntando proprio a lui, con un
qualcosa di bizzarramente familiare.
«Kate?»
Il nome
uscì prima che il cervello potesse metabolizzarlo. Il tono
interrogativo della voce a sottolineare quanta incredulità
ci fosse
nel solo immaginare l'eventualità che si trattasse di lei.
«Ciao,
Castle»
La voce di lei arrivo a spazzare ogni dubbio, riportando
a galla quella speciale irritazione che solo lei era in grado di
procurargli.
Eccola lì, in piedi di fronte a lui, come aveva
sempre immaginato: le mani in tasca, un sorriso sfacciatamente
accennato sul volto in contrasto con l'imbarazzo disegnato nei suoi
occhi, pur tuttavia illuminati dalla solita, meravigliosa,
caparbietà
di cui solo Katherine Beckett era capace.
Solo che stavolta era
vero.