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Autore: Kourin    19/01/2015    0 recensioni
Da ormai tre anni lavorava presso la clinica Hashimoto. Qui aveva avuto modo di studiare da vicino le malattie più difficili, più rare, che rendevano i suoi pazienti creature uniche. Guarirli non conduceva alla gloria, ma permetteva di conoscere un lato della genetica che era invisibile alla quasi totalità dei cittadini di Plant.
One-shot dedicata al giovane Gilbert Dullindall. Narra di un incontro forse dettato dal caso, forse voluto dal destino.
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fortuna
di Kourin



Gilbert era un coordinator. Di quelli riusciti molto bene, per giunta.
La sua passione era la genetica medica, scienza che aveva permesso la creazione della sua specie, alla quale stava dedicando la propria esistenza.
A detta di molti lo stava facendo nel modo sbagliato ma a lui, per il momento, andava bene così.
Da ormai tre anni lavorava presso la clinica Hashimoto. Qui aveva avuto modo di studiare da vicino le malattie più difficili, più rare, che rendevano i suoi pazienti creature uniche. Guarirli non conduceva alla gloria, ma permetteva di conoscere un lato della genetica che era invisibile alla quasi totalità dei cittadini di Plant.
Adenina, Guanina, Citosina, Timina. La vita si fondava sulla combinazione di quattro basi azotate, ma poteva bastare un solo appaiamento sbagliato per rendere la vita di un coordinator dura e difficile.
Per alcuni genetisti l'esistenza di individui con cromosomi imperfetti ma compatibili con la vita non era da ritenersi un male, poiché tutto poteva essere riconsiderato in una visione di più ampio respiro. Secondo tale corrente di pensiero, ciò che i più definivano errore non era altro che manifestazione della biodiversità e la biodiversità costituiva un vantaggio evolutivo: se una malattia sconosciuta avesse sterminato i coordinator perfetti, quelli imperfetti sarebbero divenuti i pochi eletti in grado di sopravviverle. In pochi anni la società si sarebbe ribaltata e queste creature avrebbero potuto acquisire lo status privilegiato di fondatori di un nuovo mondo.
Gilbert però non credeva a questa teoria. I suoi pazienti erano semplicemente un risultato della stupidità umana. Le aspirazioni di genitori incoscienti e l'arroganza di scienziati incompetenti avevano generato migliaia di esseri umani costretti a vivere nella schiavitù di terapie sperimentali. Gilbert trascorreva l'esistenza a curare tali presunte 'biodiversità' e sapeva quindi trarre le proprie conclusioni con cognizione di causa.
Il suo lavoro non consisteva nel rimuovere indesiderati riflessi cromatici dai capelli, ma nel ripristinare cascate enzimatiche inefficienti e nel riprogrammare interi sistemi immunitari alterati. Gilbert era piuttosto in gamba. Il novanta per cento dei suoi pazienti vedeva un miglioramento significativo nel quadro clinico, il cinquanta per cento otteneva il ripristino permanente delle funzionalità metaboliche.
Negli ultimi due giorni e nelle ultime due notti aveva monitorato costantemente le condizioni di un bambino a cui erano stati sostituiti alcuni geni coinvolti nell'attivazione dei linfociti. Quando il paziente si era finalmente stabilizzato, Gilbert aveva deciso di coricarsi. Erano ormai le tre del mattino.
La stanza riservata al riposo del personale medico era piuttosto piccola ma confortevole. Dalla finestra si poteva vedere il campus dell'università immerso nel cielo notturno di Februarius.
Gilbert non tirò la tenda. Preferiva che l'illuminazione artificiale degli edifici e delle stelle gli facesse compagnia, ricordandogli l'esistenza di quel mondo superficialmente perfetto ma intrinsecamente ignorante da cui si era volontariamente ritirato.
Non appena la schiena si adagiò sul materasso morbido, Gilbert scivolò in un sonno pesante: era così stanco che nemmeno i sogni potevano raggiungere le profondità in cui il suo inconscio si era tuffato.
Eppure, nel mezzo della notte, si era destato.
Era riemerso all'improvviso, come da un'apnea, e aveva spalancato gli occhi sul soffitto scuro. Nessuno aveva bussato alla porta, il telefono non aveva squillato, il cellulare era spento. Le dita ovattate del silenzio incombente premevano il suo torace, come per consigliargli di restare immobile. Nella stanza doveva esserci qualcosa. O qualcuno.
Gilbert attese che i suoi sensi di coordinator si facessero più acuti. Abituatisi all'oscurità, gli occhi iniziarono a scrutare gli aloni che le luci lontane proiettavano sul soffitto. Le orecchie udirono dapprima dei passi affrettati giungere dal corridoio sottostante, poi il debole ronzio di un'apparecchiatura elettrica e infine un suono lieve che proveniva dalla parete opposta della stanza.
Si trattava del respiro di una persona.
Gilbert raggiunse con il braccio la piccola torcia che teneva su comodino, si tirò a sedere e la puntò senza esitazione nell'angolo più buio.
All'inizio vide solo lo spigolo del muro spoglio, ma quando abbassò il raggio luminoso apparvero dei capelli biondi e arruffati. In mezzo alle ciocche spuntavano occhi azzurri. Le pupille erano contratte, le iridi sembravano enormi.
Glibert spense la torcia, la rimise al suo posto e sospirò. Si passò le mani nei capelli e premette i pollici sulle tempie per massaggiarsele. Quindi accese una piccola lampada, infilò gli zoccoli e andò incontro all'ospite inatteso.
Indossava il pigiama bianco che veniva fornito ai pazienti. Se ne stava rannicchiato ed immobile come un bambino impaurito, ma in realtà doveva già aver raggiunto i vent'anni. Il fatto che fosse stato scoperto non aveva sortito in lui alcun effetto.
Gilbert si inginocchiò. “Chi sei?” chiese a voce bassa, come per farsi sussurrare un segreto. Attese qualche istante ma, com'era prevedibile, non ci fu nessuna reazione.
Gilbert sfiorò il dorso della mano del giovane, rigida e serrata sul gomito. Cinse con delicatezza il polso madido di sudore per ascoltare il battito cardiaco. La frequenza era elevata, ma non destava preoccupazione.
Tirò leggermente, intenzionato a smuovere il braccio dalla sua ostinata posizione, ma si accorse che questo era trattenuto dalla manica del pigiama, a sua volta stretta tra i denti. Lasciò perdere e prese tempo scostando le ciocche di capelli che si erano appiccicate al volto del paziente. Nonostante lo stato di shock in cui versava, Gilbert non poté fare a meno di notarne la bellezza e sì ricordò di averlo già visto qualche giorno prima nella sala di attesa del terzo piano, intento a studiare.
Chissà di che tipo di creatura si trattava. Da dove veniva il suo DNA. Per quale motivo si trovava tra gli imperfetti.
Gli appoggiò le mani sulle spalle spigolose, massaggiandole. Quando la tensione iniziò a sciogliersi il giovane iniziò a sbattere le palpebre. Aveva l'aria innocente di un fanciullo svegliato all'improvviso. La mascella si rilassò, facendo uscire dalla bocca saliva e sangue. Gilbert poté afferragli le mani gelide, notando che le braccia portavano i segni delle flebo.
Quel paziente si stava accasciando come un burattino a cui fossero stati strappati i fili.
Secondo la prassi, Gilbert avrebbe dovuto avvisare la vigilanza. Gli infermieri avrebbero riportato il ragazzo nella sua stanza e gli avrebbero fatto un'iniezione di calmanti in attesa che sopraggiungesse il medico per la visita del mattino.
Però Gilbert ormai era sveglio. Se il giovane si era trascinato fin lì, forse c'era un motivo. Era davvero stupido per un uomo di scienza prendere decisioni facendo affidamento sul Destino, ma Gilbert era convinto nessuno sarebbe potuto arrivare dritto al cuore dei suoi studi seguendo le primitive traiettorie dettate dal Caos.
Decise di prendersi cura dello sconosciuto. Riuscì a farlo alzare e a togliergli la giacca del pigiama. Lo asciugò con un asciugamano pulito, gli pulì il viso, lo fece stendere sul letto e quindi gli si sedette accanto. Rimase in silenzio, contando le finestre illuminate della palazzina antistante. Ogni volta che un rettangolo si accendeva, Gilbert ricominciava daccapo partendo dall'alto. Ricominciò una, due poi tre volte. Al quarto tentativo stava per raggiungere l'obiettivo, ma dei colpi di tosse gli impedirono di completare la discesa che lo stava conducendo in un rilassante stato di ipnosi.
“Che aspetti a rimandarmi indietro?” rantolò il suo ospite.
“Non lo so. Forse sto aspettando di capire perché tu sia finito qui,” rispose Gilbert, osservando con delusione l'intera colonna centrale che si spegneva.
“Era una stanza come un'altra,” replicò lo sconosciuto con voce più nitida. Era una voce bella che non poteva certo appartenere ad un pazzo.
“Devo ritenermi fortunato allora?” chiese Gilbert voltandosi, accompagnando le parole con un sorriso.
“Sì, porto davvero fortuna alla gente, ho un sacco di esempi da raccontare.” Le parole, pronunciate in un tono che si stava facendo mellifluo, sembravano ansiose di sfidarlo.
“No, non ora per favore, sono davvero stanco,” replicò Gilbert scuotendo il capo.
Il paziente lo fissò con curiosità. Forse lo aveva già bollato come ingenuo, oppure stava valutando la sua pericolosità. Gilbert sostenne lo sguardo senza dargli modo di giungere ad una conclusione.
Il giovane infine rispose: “Per me è lo stesso,” e si girò dalla parte opposta.
Gilbert spense la luce e si stese nuovamente, stavolta sul fianco, la schiena contro quella del suo ospite. Si riaddormentò presto, più vulnerabile ai sogni di quanto non lo fosse stato prima.
Alle sette in punto, quando la sveglia suonò, il paziente non c'era più.


Gilbert si rese presentabile, prese un caffè bollente senza latte ed effettuò il consueto giro di visite. Il bambino di cui si era occupato negli ultimi giorni stava bene. Gli occhi color petrolio che erano stati causa indiretta del suo squilibrio immunitario erano un po' arrossati, ma vispi. Non fu facile liberarsi dalla stretta del padre che continuava a profondersi in ringraziamenti. Gilbert ripeteva che ci sarebbero voluti mesi per affermare con certezza il successo della terapia, ma parlare di statistica a quell'uomo era del tutto inutile. Non gli restò che sorridere pazientemente, e ringraziare a sua volta.
Con la scusa di essersi dimenticato di aggiornare alcune cartelle, si ritirò nel suo ufficio. Consultò il database per cercare informazioni sui pazienti ricoverati presso il reparto di malattie autoimmuni, ma del giovane che aveva incontrato quella notte non vi era traccia.
Gilbert non si sorprese più di tanto. Con tutta probabilità si trattava di uno di quei pazienti entrati su Plant con passaporto diplomatico e quindi esenti dall'obbligo di dichiarare alle autorità il loro profilo genetico. Di solito si trattava di semplici rifugiati scampati alle persecuzioni in atto sulla Terra, ma spesso tra loro si trovavano individui frutto di manipolazioni genetiche illecite.
Gilbert si lasciò andare sulla sedia, colto dalla stanchezza. Era giunta l'ora di tornare a casa.
Quando uscì venne travolto da una luce mattutina intensa che lo prese alla sprovvista, inchiodando la sua ombra all'edificio. Restò immobilizzato ed abbagliato, mentre il mondo esterno lo avvolgeva in un girotondo che sembrava volersi prendere gioco di lui. I dipendenti del turno del mattino arrivavano, altri se ne andavano, i furgoni delle consegne attraversavano il parcheggio.
Chi lo accusava di essersi perso nei suoi studi aveva ragione, ma non immaginava nemmeno lontanamente quanto un giorno sarebbe divenuta importante la sua conoscenza.
Plant stava fondando la sua società su pilastri ignoti e Gilbert, insieme a pochi altri, stava immerso nelle loro profondità per sondare la fragilità del materiale di cui erano composti. Era certo che una volta riemerso avrebbe portato con sé delle risposte vitali per il futuro della sua Patria.
Si avviò lungo il viale d'ingresso fiancheggiato da giovani alberi di ciliegio alla prima fioritura. Una fresca brezza primaverile gli accarezzò il viso, alcuni petali turgidi gli s'impigliarono nei capelli.
Gilbert ne prese uno tra le dita e si soffermò ad osservarne la forma apparentemente perfetta.
Non c'era tempo da perdere: la sua lotta per salvare Plant sarebbe cominciata alla prossima fioritura.




Note
Non sono una fan di Gundam Seed Destiny, di solito faccio finta che non sia mai stata realizzata. Però, all'inizio, c'erano alcune cose che mi piacevano. Una di queste era il personaggio di Gilbert Dullindall e il suo misterioso rapporto con quel ragazzo di nome Rey che parlava con la voce di Raww .
Ho ritrovato questa storia in una chiavetta: l'avevo scritta quasi per scherzo (non è un caso che Raww continui ad apparire dagli angoli bui delle stanze) ma dopo averla riletta mi dispiaceva lasciarla nel dimenticatoio. Et voilà, ve la rifilo con gioia ;)

Kourin
  
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