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Autore: Regen    20/01/2015    0 recensioni
Sono gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Due amici si ritrovano dopo anni su due fronti opposti: uno è ufficiale delle Camicie Nere, l'altro è a capo di una banda partigiana. Una sola giornata per ritrovare il valore di un'amicizia particolare e intensa incrinata dalla guerra.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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Mattino

 

 

La luce della tarda mattinata di quel lunedì di fine aprile era strana, insolita. Il cielo plumbeo minacciava pioggia, tuttavia alcuni raggi del sole primaverile facevano la loro timida comparsa attraverso le nubi violacee. Era il 1945, e l’Italia fascista contava ormai i suoi ultimi respiri.

Romano attraversò velocemente il cortile interno della caserma e si fermò di fronte al Capo Manipolo suo superiore.

“Sotto Capo Manipolo Damiani ai vostri ordini, signore,” si annunciò, facendo il saluto romano.

Il superiore rispose al saluto per poi volgere immediatamente lo sguardo ai militi radunati di fronte.

“Vi ho mandato a chiamare per assegnarvi una missione che reputo importante, Sotto Capo Manipolo. In questi anni ho avuto modo di osservarvi da vicino, e vi ritengo più che adatto a svolgere un compito simile in un periodo delicato come questo. In voi ho riscontrato una fedeltà ed una diligenza nei confronti della nostra Milizia che raramente ho visto altrove. Ciò che esigo da voi, dunque, è che conduciate questi uomini a setacciare la campagna a nord del paese alla ricerca di ribelli. Sono consapevole della nostra situazione nazionale e locale, Damiani, non prendetemi per folle; tuttavia, personalmente scelgo di lottare fino all’ultimo uomo piuttosto che arrendermi ai comunisti o agli inglesi. Siete d’accordo con me, non è vero?”

Romano diede un’occhiata ai ragazzi radunati sul cortile: ad occhio e croce non parevano più di una decina. Dovevano avere all’incirca sedici, diciassette anni, tutti militi dell’ultima ora, improvvisati come sicuramente era improvvisata la loro preparazione alle operazioni militari. In tempi passati, il loro addestramento sarebbe stato più lungo e migliore. Si trattava di una missione pressoché suicida contro bande intere di partigiani armati che ormai avevano conquistato quasi del tutto la regione. Romano trattenne un sospiro. Se il suo destino era di morire per il Fascismo, ebbene, l’avrebbe fatto con onore.

“Accetto la missione, Capo Manipolo Ferrarini.”

 

Le vetture sulle quali viaggiavano erano improvvisate quasi quanto i soldati. Cosa potevano saperne quei ragazzi della guerra? Romano sperava che non fuggissero via al primo cenno di sparatoria, altrimenti il loro disperato arruolamento non avrebbe avuto senso. No, quei ragazzi dovevano aver scelto di combattere e di morire, dato che, con ogni probabilità, sarebbe stata quella la loro sorte. Nei loro occhi animati dall’ardore patriottico gli parve di rivedere se stesso solo qualche anno prima, quando anche lui avrebbe scelto - no, attendeva - lo stesso senza esitare. Ed ecco che ora l’occasione gli si presentava davanti, servita su un piatto d’argento. Sorrise appena, prima di ordinare all’autista della vettura di fermarsi. Romano si reputava un fascista convinto: o l’Italia del Duce o la morte.

“Voi quattro, pattugliate il sentiero a destra. E voi altri, quello di sinistra. Mi raccomando, nessuno deve passare.”

Impartì gli ordini e si posizionò lui stesso al centro, davanti ai campi di granoturco dai quali in pochi mesi i contadini avrebbero raccolto la messe. Nella sua mente cercò di immaginare le azioni dei partigiani: sarebbe stato stupido da parte loro seguire la strada principale sulla quale passavano ancora indisturbati fascisti e tedeschi fuggitivi, quindi avrebbero preso necessariamente i sentieri che lui aveva ordinato di sorvegliare.

 

“Fascisti! Ci sono fascisti che bloccano i sentieri!”

Francesco si massaggiò lentamente le tempie. Erano due giorni che non dormiva e la stanchezza cominciava a farsi sentire, oltre che a rendere l’ansia più attanagliante. Da due mesi era a capo della banda partigiana che tanto infastidiva le Camicie Nere della zona. Il capo precedente, Giovanni, era stato fucilato sulla piazza del paese dopo aver tentato un assalto alla caserma locale. Francesco l’aveva avvertito che si trattava di una mossa azzardata, che i tempi non erano ancora maturi, ma niente, quello non aveva voluto ascoltare ragioni.

“Va bene, vengo tra un minuto,” asserì, accendendosi una sigaretta. Giusto il tempo di una sigaretta, un paio di minuti da solo, e sarebbe tornato in azione.

 

Il capo partigiano prese il cannocchiale dalle mani di Maria, la staffetta che ormai staffetta non era più, dopo essere stata scoperta ed interrogata dalle Camicie Nere. Solo dopo tre giorni era riuscita a raggiungerli, il volto tumefatto e rigato dalle percosse, rilasciata per insufficienza di prove per cortese intercessione del sindaco suo zio.

“Va bene, andiamo. Antonio, Oreste, Giuliano: seguite la formazione che vi ho indicato. Marco, Paola ed Adriano, invece, verranno con me.”

Nel mezzo dei campi coltivati si trovava una piccola altura, una sorta di collinetta artificiale costruita per migliorare il flusso dell’irrigazione. Al di là di questa si trovava il rifugio dei partigiani, che una volta era stato un semplice granaio.

Procedettero con lentezza e tentando di fare meno rumore possibile fino a pochi metri dal ciglio della strada. In mezzo al granoturco, però, nessuno dei membri dei due schieramenti seppe individuare il punto preciso in cui andò a cadere la prima sparatoria. Francesco e Romano seguirono l’udito, alla destra dell’uno e alla sinistra dell’altro.

Il partigiano gridò:

“Fuoco a volontà!”

Il fascista ebbe solo due secondi di tempo per ordinare:

“Tutti a terra! Prendete le granate!”

Ma quei due secondi non furono sufficienti. Presto, il Sotto Capo Manipolo si ritrovò a fronteggiare quattro partigiani con i fucili puntati contro i suoi soldati. Non vedendo altra soluzione disponibile, con lentezza alzò le mani in segno di resa.

“Le armi! Poi le mani di nuovo in alto, lentamente!” Impose uno dei partigiani, fissando tutti loro con uno sguardo pieno d’odio e di disprezzo.

I militi lasciarono scivolare a terra le armi per poi portare le mani in alto.

“Che umiliazione,” pensò Romano, “non siamo durati nemmeno un’ora”. Con una seconda occhiata ai partigiani che aveva di fronte, tuttavia, riconobbe un viso ovale, incorniciato da capelli biondi dal quale spiccavano due occhi azzurri come il cielo, e rimase quasi sgomento per la sorpresa.

“Francesco Cerioli… Sei proprio tu?”

Lo sguardo del capo partigiano, che fino ad allora aveva prestato attenzione più alle armi dei fascisti che ai loro volti, inquadrò quello del loro ufficiale.

“Ma tu… tu sei Romano Damiani!”

Occhi azzurri come il cielo estivo incrociarono occhi neri come la pece. Occhi azzurri come il cielo che Francesco avrebbe voluto essere di un Paese libero; occhi neri come la camicia che Romano aveva indosso. Vicini di casa e compagni di scuola elementare, vent’anni prima, in una città così vicina ma così lontana per via degli spostamenti della guerra.

“A volte il destino gioca degli strani scherzi, non ti pare?”

Il viso di Romano si aprì nell’accenno di un timido sorriso. La ferrea forza di volontà di Francesco, per una volta, vacillò. Conosceva quel giovane da sempre, ed ora faticava a credere di ritrovarselo di fronte proprio alla fine, dopo tante vicissitudini, e sullo schieramento opposto. Già, il destino giocava davvero strani scherzi. Perché, tra tutti, proprio lui? Lui che era stato il migliore amico che avesse mai avuto, lui che considerava come un fratello? Anzi, più di un fratello: il suo alter ego, la sua parte complementare.

“Capo… Ehi, capo?”

La voce di Paola lo richiamò alla realtà.

“Cosa dobbiamo farne di questi qui?” La ragazza partigiana indicò con un cenno del capo i militi a mani alzate, che si guardavano intorno spaesati.

“Portateli via.”

“Dove?”

“E che ne so? Portateli dove vi pare…!”

Stentò a riconoscere se stesso, solitamente così calmo e razionale, nel tono della sua stessa voce. Era inquieto, stanco, sorpreso: la tensione e migliaia di ricordi che riaffioravano dalla sua memoria lo facevano sentire agitato, come febbricitante. Quasi nemmeno si accorse che, nel frattempo, gli altri tre compagni li avevano raggiunti, puntando i fucili alle spalle dei fascisti rimasti.

Di fronte all’estemporanea paralisi del loro capo, a prendere in mano la situazione per primo fu Adriano.

“Va bene, ci penso io. Avranno quello che si meritano. Forza, camminate!” Ordinò ai militi, spintonandone un paio con il calcio del fucile.

Romano fece per seguirli, ma Francesco lo fermò: “No, tu no. Tu resti qui.”

“Ma io non posso abbandonare i miei soldati, sono il loro comandante,” protestò.

“Non me ne frega un accidenti delle vostre dinamiche di gerarchia. E presto non importerà più nemmeno a voi: il Fascismo è morto.”

“Ti sbagli. I grandi ideali non muoiono con una guerra. Aspettate!”

Un paio di partigiani si voltarono.

“Dove li state portando?”

Quelli gli risposero con un ghigno sardonico. I loro occhi arrossati dalla carenza di sonno parevano assetati di sangue. Un brivido di terrore attraversò il corpo dell’ufficiale: terrore non per se stesso, ma per i soldati che gli erano stati affidati.

“No! Non fucilateli, sono solo dei ragazzini!”

“Sì, dei ragazzini che avrebbero potuto scegliere meglio da che parte stare.”

Romano guardò Francesco, che nel frattempo non l’aveva abbandonato con lo sguardo nemmeno per un istante. Il Sotto Capo Milite sapeva che stavano andando incontro ad una missione suicida, ma non se l’aspettava così: avrebbe dovuto essere diverso, avrebbero dovuto combattere, e non arrendersi senza opporre resistenza; invece, nessuno dei suoi militi aveva fiatato, nessuno aveva avuto il coraggio di dire niente. Tutti zitti, muti, impauriti. Romano non avrebbe mai dovuto accettare quell’incarico, ed ora si sentiva in colpa. Doveva assolutamente salvare quei ragazzi che si erano gettati a capofitto in un qualcosa di più grande di loro.

“Francesco, ti prego. Lasciali tornare a casa dalle loro famiglie. Ti dò la mia parola d’onore che non imbracceranno mai più un’arma in vita loro. Te lo giuro. Se dovete proprio uccidere qualcuno, prendete me: io sono il loro comandante, io ho ordinato loro di seguirmi. Loro hanno solo eseguito degli ordini, non hanno alcuna responsabilità.”

“É il giuramento di una carogna fascista, capo. Non dargli retta, questi nemmeno sanno cosa sia, l’onore,” lo avvertì Oreste.

“Non è vero, e tu lo sai bene. Mi conosci, sai che non sono mai venuto meno alla parola data.”

“Certo, finché i tuoi commilitoni non torneranno con il doppio degli uomini e non ci faranno fuori tutti,” si intromise un altro partigiano.

Romano non sapeva più cosa fare. Era solo contro tutti. Tuttavia, percepì una lieve speranza quando vide Francesco voltare il capo verso i campi, meditabondo. Era in preda ad una lotta interiore non indifferente, lo vedeva anche nel modo spasmodico in cui stringeva il fucile. Sotto quella strana luce primaverile, il suo profilo appariva identico a come l’aveva visto l’ultima volta, quasi sei anni prima. Prima dei bombardamenti, prima della guerra vera e propria e prima che Francesco si trasferisse in un’altra città. Allora si era sentito tradito, abbandonato dall’unica persona che contasse veramente qualcosa per lui. Ma poi si era arruolato nella Milizia, e quello che aveva visto là, nel bel mezzo della guerra, delle persecuzioni e degli abusi, gli aveva fatto perdere il senso della realtà. Tuttavia, ecco che ricompariva all’improvviso, Francesco, sbucato dal nulla in mezzo al granoturco, con un fucile e il fazzoletto rosso al collo. Aveva provato quasi un tuffo al cuore, al cuore che credeva non essere più in grado di provare emozioni tanto violente. Anche in quel momento tanto critico, Romano stava lottando disperatamente contro le lacrime, ma lui era un fascista, e sapeva che i fascisti erano forti e non piangevano mai.

Francesco voltò il capo verso i campi, indeciso sul da farsi. Tra l’impulso di abbracciare stretto il suo vecchio amico e la fortissima tentazione di picchiarlo correva solo un sottilissimo filo. E poi c’erano gli altri, tutti gli altri, e quella stramaledetta decisione da prendere… Il suo cuore batteva all’impazzata. Si sforzava di non pensare al passato, ma quei giorni lontani affioravano di continuo dalla sua mente, offuscandogli gli occhi, la coscienza, il cuore, la ragione… tutto. Fu il suo inconscio a fargli muovere le labbra.

“Lasciateli andare.”

I suoi compagni lo guardarono sbigottiti, forse incerti di avere sentito bene.

“Ma…capo…”

Probabilmente Francesco avrebbe dovuto mordersi la lingua, ma ormai il dado era tratto, non poteva tirarsi indietro. Non poteva mostrarsi tentennane davanti alla sua banda, e soprattutto non davanti ai suoi nemici.

“Avete sentito quello che ho detto. La guerra è giunta al termine, troppe vite sono state sacrificate. Nel nostro Paese, in quello che costruiremo, questi ragazzi verranno puniti a sufficienza con il disprezzo e l’emarginazione. Ma l’Italia non ha bisogno anche del loro sangue.”

Per qualche istante, sulla campagna piombò il silenzio più totale. Ci fu silenzio tra i partigiani, che si ponevano mille mute domande riguardo all’ordine del loro capo, alla sua correttezza, a cosa fosse veramente giusto fare; e tra i fascisti, che con gli occhi spalancati per la sorpresa cercavano di capacitarsi di quanto avevano appena udito, sperando non fosse una qualche sorta di trucco.

“Se li lasciamo andare ora, questi qui torneranno, vedrai. E la prossima volta saranno più preparati. Suvvia, rifletti! Credi che se fossero al nostro posto ci lascerebbero andare?”

Francesco sospirò. Osservò ad uno ad uno, con calma, i volti delle Camicie Nere.

“Forse sì, forse no. Ma appunto per questo dobbiamo farlo noi, per dimostrare che non siamo assassini come loro. Se ad un passo dalla libertà ci macchiamo ancora di più le mani di sangue, che esempio possiamo dare all’Italia futura?”

Giuliano, il più giovane dei partigiani della banda, lentamente e quasi con timidezza ammise: “Credo che dopotutto il capo abbia ragione, ragazzi.”

“Sì, lo credo anch’io. Basta con i massacri di gruppo. Già ce se sono stati e ce ne saranno abbastanza in futuro. Un conto è combattere e difendersi, un altro conto è infierire,” si aggiunse Paola.

Con riluttanza, anche gli altri partigiani abbassarono le armi.

“Ammazzarli no, ma pestarli sì!”

Marco tirò un pugno al fascista più vicino, subito imitato dagli altri tre compagni. Nè Francesco né Romano dissero nulla, consci del fatto che, a quel punto, qualunque parola sarebbe stata ignorata. I militi cercarono di proteggersi come poterono, ma la rabbia e l’odio dei partigiani erano troppo forti in confronto alla paura e allo smarrimento che provavano loro.

 

“Sotto Capo Milite, signore, a nome di tutti vi ringrazio,” disse infine uno dei ragazzi, avvicinandosi a Romano con il labbro inferiore spaccato e un occhio pesto, dopo che i partigiani si furono sfogati. Ma Romano scosse la testa per poi volgere lo sguardo verso Francesco.

“Non è me che devi ringraziare.”

“Se mi permettete una domanda, signore… Cosa dobbiamo fare noi, ora?”

Il comandante sorrise mestamente. “Tornare a casa vostra. La guerra è finita, ormai.”

“Ma signore…! Saremo tutti considerati come dei disertori, e come tali puniti!”

Romano posò una mano sulla spalla del ragazzo e si sforzò di accentuare il sorriso.

“Non credo proprio che il Capo Milite Ferrarini abbia il coraggio di uscire per strada e di venirvi a cercare personalmente ad uno ad uno in tempi come questi. E gli uomini rimasti in caserma sono pochi e spaventati, non si schioderebbero di là per niente al mondo.”

“É per questo che hanno invece mandato fuori degli idioti come noi,” avrebbe voluto aggiungere ironicamente.

“Basta cianciare, carogne fasciste! Sparite, prima che ci ripensiamo!” Irruppe un partigiano spazientito.

Francesco sia avvicinò a Romano, ormai l’unico milite rimasto in mezzo a loro. Ovviamente, l’ufficiale in comando era stato obbligato a rimanere. Lui sì che sarebbe stato fucilato. I suoi compagni, dopo avere rischiato la vita ad avventurarsi in mezzo ai campi a causa sua, ne esigevano la morte. E a ragione, certo. Dopotutto, Romano non aveva nemmeno la scusa dell’età: era giovane, sì, ma non un ragazzino inesperto. Non si era arruolato nella Milizia in uno slancio di coraggio adolescenziale alla fine della guerra. A Francesco dispiaceva da morire di non potere fare nulla per evitarlo, dopo tutto quello che li aveva legati in passato. Tuttavia, la giustizia era giustizia, e persino l’amico aveva scelto di essere giustiziato al posto dei suoi commilitoni. Lo guardò, e l’altro gli restituì lo sguardo. Ripensò a tutte le bravate che avevano fatto insieme, a tutte le risate che avevano condiviso, alle liti, alle serate, ai progetti, e si sentì quasi mancare.

“Capo, dato che vi conoscevate prima della guerra, è giusto che te ne occupi tu,” gli disse Giuliano.

Francesco annuì, gli occhi sempre piantati in quelli di Romano. Anche lui annuì. Certo, non era esattamente un onore, ma nessuno dei due avrebbe voluto che fossero altri ad “occuparsene”. L’avrebbe condotto al limitare dei campi, lontano dalla strada: nonostante tutto, non meritava di morire abbandonato sul terreno polveroso, dove chiunque fosse passato in seguito l’avrebbe visto e ne avrebbe riso.

 

O partigiano, portami via…” Canticchiò inaspettatamente Romano durante il tragitto, quando ormai gli altri non potevano più sentirlo. Francesco lo immaginò sorridere davanti a sé, mentre procedevano verso il boschetto di pioppi. Nonostante stesse lottando per non piangere, il comunista si finse risentito.

“Ma che dici?”

“É la vostra canzone, no? Come si chiama…? Ah, sì, O bella ciao.”

Francesco scosse la testa, con un piccolo sorriso che contrastava con i suoi occhi velati dalle lacrime. Romano, che camminando davanti con le mani alzate fortunatamente non poteva vederlo, non era cambiato affatto: il suo senso dell’umorismo era ancora come lo ricordava, nonostante la situazione. Provò una punta di invidia.

“Ecco, siamo arrivati.”

Il fascista si fermò e si voltò. Voleva guardarlo negli occhi. Tuttavia, appena lo fece, un’onda di sentimenti e di emozioni si impossessò di lui, e allora cominciò a ricordare…

  
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