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Autore: Fireslot    20/01/2015    1 recensioni
Esiliato e inorridito nei confronti dell'umanità, un ubriaco Vash troverà la forza di fare un ultimo dono all'umanità?
«Sì, credo proprio che ne varrà la pena, Wolf.»
Genere: Avventura, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Si destò di soprassalto, unto di sudore. Il suo tanfo era insopportabile, lui stesso emise un grugnito di disgusto. Un incubo, di nuovo, sempre lo stesso, ogni maledetta volta che si assopiva. Brontolò un mugugno e si trascinò fiaccamente verso il tavolo, tastandone la superficie tentoni. Niente non c’era nulla là sopra. La testa martellava come se una batteria di mitragliatori stessero sparando contemporaneamente nelle sue tempie.
Si passò la sola mano callosa che avesse, screpolata e con le unghie completamente intrise di sporco, tra i lunghi e irsuti capelli color pece, massaggiandosi le vene rigonfie. Rimase intrappolata tra i nodi spessi, quindi la estrasse con uno strattone e si chinò sulle ginocchia. Gattonò sui tre arti, setacciando il pavimento tarlato alla luce sommessa proveniente dai fori delle pareti. Sentì un tintinnio di vetro che rotolava e allungò il braccio per afferrare la bottiglia. Cadde rovinosamente tra la polvere ma almeno l’aveva afferrata. Allungandola sulle labbra, percepì solo l’umidità della sua stessa saliva schiumosa. La scaraventò via e decise di barcollare verso la porta.
Quando la spalancò con il peso della sua spalla monca, la luce intensa gli investì gli occhi come una fiammata, confondendogli la vista per un istante. Attorno a lui, sempre lo stesso paesaggio: arido deserto roccioso e irregolare ospitava un centro cittadino a poche miglia dalla sua catapecchia. Lì avrebbe trovato altro alcol. Chiese al suo mal di testa se ne valesse la pena e lui gli rispose “prenditi una sedia e muori là sopra.” Eseguì il comando dell’emicrania e si accasciò sulla soglia a guardare il cielo, mai stato così azzurro.
Quando il sangue gli concesse un attimo di coscienza, cominciò a porsi vari problemi: quanto tempo era passato dall’ultimo momento di lucidità? Da quanti giorni aveva addosso quegli stracci maleodoranti? A quando risaliva la sua ultima doccia? Aveva abbastanza soldi per comprare altro veleno? Rispose solo all’ultima domanda scrutando nel buio della sua abitazione, stracolma di bottiglie rovesciate o in frantumi, tutte vuote. A occhio e croce, stimò di essersi ubriacato ininterrottamente per una settimana. Un uomo normale sarebbe morto con tutto quell’alcol in corpo, lui se l’era cavata con un infernale mal di testa, anche se il dolore gli fece pensare che morto sarebbe stato meglio. D’altronde, quelle casse di liquore dentro casa gli fecero ricordare quanto inutilmente stesse trascinando lo scorrere della sua vita, arresosi ormai alla crudeltà della natura umana. Aveva speso tutte le sue forze per mantenere una promessa fatta anni prima, senza concludere niente. Ogni giorno trascorso in compagnia degli umani lo aveva spinto sempre più a ricredersi sui suoi principi etici, sulla promessa fatta a lei, su quanto suo fratello avesse avuto ragione a chiamarli bestie. Anni e anni di cicatrici e sofferenze per non concludere niente, se non ad alimentare un mondo pieno di bestie corrotte e inutili, che ripetevano gli stessi errori ogni volta, senza imparare niente dal passato. La sua epiglottide gli solleticò l’esofago, chiedendo al suo padrone di riempire lo stomaco con qualcosa.
Era pronto ad alzarsi e barcollare verso la città ma, quando voltò il capo in quella direzione, vide una sagoma avvicinarsi tra i miraggi del calore. Ringraziò il cielo che qualcuno passasse in quella direzione. La figura si fece sempre più vicina, mostrando i lineamenti e la statura di un ragazzo molto giovane, forse quindicenne.
«Ehi, giovanotto! Potresti farmi una commissione?» biascicò con il palato appiccicaticcio si saliva, «Sono disposto a darti trenta doppidollari, se andassi in città e mi portassi una bella cassa di alcolici.»
Udì uno sbuffo e un brontolio: «Taci, vecchio puzzolente.»
«Suvvia, non essere scortese. Non sono affatto vecchio, solo un po’ peloso. Se poi mi portassi del buon rum, mi farei un bel bagno aromatico.»
Il ragazzo sbruffone non disse niente, si avvicinò sempre più alla casa e si inoltrò oltre la soglia.
«Ehi, che stai facendo? Fuori da casa mia! Mi hai sentito? Ehi!» l’ubriacone si alzò di scatto dalla sedia.
«Bleah! Questo posto puzza più di una latrina pubblica. Dio mio, da quanti secoli non passi uno straccio. Questo odore… quante volte avrai vomitato?»
«Non sono affari che ti riguardano, fila via!»
«Cristo, un vero porcile. Se penso a quanta polvere ho mangiato per asfissiarmi con questo odoraccio! Non hai nemmeno le finestre in questo buco?» borbottò lo sbruffone, dando un calcio ad una scatola di bottiglie vuote, che si rovesciarono per terra andando in frantumi.
«Ho detto fuori da casa mia!» urlò rauco l’ubriacone, sollevando dal tavolo una grossa pistola argentata e direzionandola verso il giovane. La canna tremava, come se lo sforzo di reggerla fosse troppo per i suoi bicipiti.
Il ragazzo lo degnò di uno sguardo: i capelli neri sistemati a caschetto lasciavano trapassare tra i ciuffi disordinati due ampie iridi castane, spalancate in un’espressione di sdegno.
«Falla finita, vecchio! Non hai mai ucciso nessuno, perché dovresti farlo adesso? Con quella mano tremante, poi.»
Dalla foresta lercia, due bilie di limpido verde si fecero strada nella penombra per osservare quel marmocchio sbruffone. La barba ispida gli chiese: «Come sai che non ho mai ucciso nessuno?»
«Conosci Lillian Bernardelli?»
Abbassò la pistola e restò imbambolato. La compagnia Bernardelli, quella dove anni prima lavorava Meryl Stryfe. Non udiva quel nome da parecchi anni. Dopo Meryl, niente e nessuno gli aveva scaldato il cuore come lei, l’unica donna che avesse amato davvero nella sua età adulta. Nel petto esplose una fitta di dolore, la consapevolezza della sua assenza doveva essere obnubilata dall’alcol ma le bottiglie erano vuote.
«Beh, io la conosco e mi ha raccontato la storia di sua nonna.» continuò il ragazzo.
«Meryl si era sposata?»
«Tu che faresti se la tua donna ti abbandonasse per decenni? La attenderesti con le mani in mano? Nossignore, si è sposata con il suo capo e ha messo su una bella impresa di famiglia.»
Ancora una volta, il suo petto crollò nel rammarico. Un altro stramaledetto errore, innamorarsi.
«Comunque,» “Che marmocchio fastidioso!” pensò l’ubriacone, standolo a sentire, «Lillian è la nipote della tua amica. Le ha raccontato di come si fosse innamorata follemente del Tifone Umanoide, prima che andasse a soffiare i suoi venti di distruzione dal lato opposto del globo. Insomma io mi sono fatto dire dove ti trovassi. Sono anni che ti cerco, Vash the Stampede!»
«Se è per la taglia, sbrigati a impacchettarmi e portami in prigione. Almeno il pasto è gratis.»
«Non dire stronzate, amico! La tua taglia è stata revocata più di un secolo fa!»
Con un cenno della testa, Vash lasciò trasparire come la cosa gli fosse sfuggita di mente, ricordando gli anni passati a scappare ininterrottamente ai cacciatori.
«Allora levati dai piedi, teppista. Non voglio umani nella mia proprietà.»
«Ma quale proprietà, ‘sto posto cade a pezzi! Non me ne frega niente né di te, né del tuo dolore e meno che mai dei tuoi giorni passati in coma etilico. Voglio che mi addestri.»
Calò il silenzio tra i due individui, una pausa nel loro burbero dialogo di cui approfittarono i suoni del deserto per farsi sentire.
Poi una fragorosa risata di Vash.
«Di tutte le idiozie che abbia mai sentito in vita mia, questa è la più grossa! E ho 253 anni!»
«Non me ne frega niente, addestrami!»
«Addestrarti a cosa? Sparisci, stupido, ho spedito all’ospedale più persone io che ogni disastro naturale questo pianeta sperduto abbia mai visto.»
«Per questo voglio addestrarmi con te! Voglio diventare un pistolero abile, il migliore che ci sia!»
«Scordatelo! Fuori di qui.»
«Sono disposto a pagarti. Con talmente tanti soldi che potrai acquistare tutti i saloon della città.»
Un’altra pausa necessaria a Vash per valutare l’offerta.
«E potrai comprarti valanghe di ciambelle.» lo stuzzicò il marmocchio, «Inoltre conosco una ragazza, Tina. Lei sa far girare la testa perfino ai Plant, se ben pagata.»
Quell’irritante ragazzaccio sapeva il fatto suo. Vash mugugnò una risata.
«Perché vorresti diventare tanto bravo?»
«Perché tu non fai più il tuo lavoro.» rimbeccò il giovane con asprezza.
«Che intendi?»
«Da quando sei sparito, i criminali e i despota spadroneggiano senza restrizioni per tutto il pianeta. Donne e bambini soccombono inermi ai loro piedi mentre vengono violentati e chiunque provi a ribellarsi fa la fine di un colabrodo, talmente pieno di buchi che nemmeno i genitori riescono a riconoscerli.»
«Non mi stupisco, è per questo che ho chiuso i battenti. Se davvero è così dura là fuori, come mai tu vuoi opporti?»
«Perché ho più cervello di tutti quei cretini là fuori! Perché ho due dita di pelo nello stomaco, necessarie per fare il lavoro sporco e assassinare queste mele marce. E soprattutto perché con un’arma in mano non mi ferma nessuno.»
Un ghigno compiaciuto: «Avrei detto perché sei arrogante come pochi.»
«Vedila come vuoi ma alla gente serve un eroe ora più che mai. Tu ci hai provato e hai fallito ma so che eri il migliore con quel cannone che stringi tra le dita. Insegnami a sparare come si deve e al resto penso io.»
«Non puoi reggere il confronto con me, marmocchio. Io sono un Plant, razza superiore. Tu sei solo un ometto.»
«Sarà, però io sono un ometto lucido e tu un vecchio ubriacone senza carica.»
Vash lo squadrò: «Come sai che sto esaurendo le forze?»
«Il tuo pelo.» controbatté il moccioso, indicandogli la chioma ispida, «Quando un Plant sta per esaurirsi, la sua peluria cambia colore. Più il nero avanza, più vicino è alla sua fine. In quella foresta che ti ritrovi in faccia c’è solo una ciocca bionda.»
Il Tifone si complimentò: «Hai una buona vista, falchetto dei miei stivali.» Con le dita sollevò una fascia di capelli dorati, solitari nel resto della sua chioma.
«Dovresti vedere come sparo bene! Posso centrare una pulce a cinquanta chilometri. Ti farebbe comodo, con quei pidocchi che ti ritrovi in testa.»
La pazienza di Vash si esaurì: «Molto bene, usciamo e vediamo che sai fare.»
Ad ampi passi accompagnò il piccolo avversario nella landa desolata, stringendo la pistola tra le dita. Notò che anche lui aveva un’automatica in pugno, una di quelle con quindici bossoli nel caricatore. Si voltò e gli disse: «Schiena contro schiena, venti passi. Ti giri e spari. Prova ad uccidermi, se ci riesci.»
«Mi servi vivo.»
«Ficcati in quella zucca vuota che non ti addestrerò! Questo è un duello mortale. Se vinci tu, sarai l’uomo che ha ucciso Vash the Stampede, un’impresa che nemmeno i dodici Gung-Ho Guns sono riusciti a compiere. Sarai temuto dal mondo intero, nessuno oserà toccarti con un dito. Venti passi.»
Il ragazzo ghignò, colmo di fiducia in sé stesso e nelle pessime condizioni del leggendario Tifone Umanoide. Si girò di spalle e sfiorò la schiena appiccicosa dell’ubriacone.
Uno… due… tre… quattro…
Lo avrebbe ridotto a brandelli, avrebbe potuto salvare l’umanità e sfidare tutti a testa alta.
Cinque… sei… sette… otto…
Sarebbe diventato l’uomo più temibile del pianeta, avrebbe portato la serenità tanto agognata.
Nove… dieci… undici… dodici…
Tutti i peccati del mondo sarebbero stati puniti.
Tredici…quattordici…quindici…sedici…
Altri quattro passi e avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Si concentrò, stringendo la presa sul manico.
Diciassette…
“Ci siamo” pensò.
Diciotto…
“Tieniti pronto, Vash.”
Diciannove…
“La vittoria è mia!”
Venti.
Si girò di scatto con la pistola alta, strinse appena il grilletto, pronto a far fuoco… ma percepì una ciocca dei suoi capelli separarsi dal cuoio all’apice della testa e due pallottole radergli le basette, a un soffio dai lobi delle orecchie. Con gli occhi sgranati dal terrore, come un uomo che guarda la morte in faccia, osservò inerme lo spettacolo del Tifone Umanoide, appena di profilo, che reggeva la pistola di traverso, osservarlo con la coda del suo occhio da demone. Uno spettacolo raccapricciante.
Cadde in ginocchio assieme alla sua pistola, che rimbalzò sul suolo con un tonfo. I punti lacrimali si gonfiarono di acqua salata pronta a sgorgare. Vash si stagliò davanti a lui.
«Non provare a piangere, teppista!» sbraitò l’ubriacone, «Se non hai la forza di ammettere la sconfitta, sparisci dalla mia vista.»
«Come…come…» balbettò, «come hai fatto? Io sono stato veloce…»
«Veloce? Tu quella la chiami velocità? Dio santo, lento come una lumaca, questo sei stato! Ho visto pistoleri sollevare armi gigantesche ed estrarle con una rapidità tale che ti avrebbe lasciato secco prima ancora che tu potessi estrarre il tuo giocattolo! Non avresti avuto il tempo di renderti conto di essere stato colpito! Sei un fallimento, sparisci prima che decida di farti fuori sul serio.»
Vash fece qualche passo in direzione della sua catapecchia.
«Farmi fuori sul serio?» strillò con amara rabbia il ragazzo alle sue spalle, «Che dovresti fare sul serio? Sei solo un ubriacone buono a nulla, non sei in grado nemmeno di uccidermi! Dici che sono lento? Beh, tu sei il più stupido della razza superiore! Il mondo là fuori sta subendo la più grossa crisi mai affrontata dal tuo scontro con Knives e tu resti qui a cazzeggiare! Ritorna da noi e combatti!»
«Non ne vale la pena.» rispose piatto Stampede, senza fermarsi.
«E allora addestra me e rendimi il più forte! Sarò io a salvare il mondo.»
Vash si bloccò. Non poté fare a meno di essere incuriosito dalla cocciutaggine determinata di quel ragazzo, sapendo però che la determinazione non sarebbe bastata. Si diede il tempo per riflettere. Cosa ci avrebbe guadagnato accollandosi quel moccioso? Solo seccature… d’altro canto il marmocchio avrebbe potuto rendersi utile.
Sospirò sperando che fosse una buona idea.
«Come ti chiami, marmocchio?»
«Nicholas Denis. Gli amici mi chiamano Wolf.»
Vash si voltò, con un’aria divertita disegnata in volto. Lo guardò per la prima volta come si deve e non poté fare a meno di riportare alla mente il volto del suo defunto migliore amico.
«Sì, credo proprio che ne varrà la pena, Wolf.»
   
 
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