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Autore: Annika Mitchell    20/01/2015    4 recensioni
Quella volta che si mise a ridere perché scoprì che darsi la mano non è un gioco speculare, ma ad incastro.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Prova a fidarti di me,
cosa ci manca?"
-Cesare Cremonini.


Mr. Grey Goose.

Gli piaceva vivere immerso nei segreti. Non perché fosse una persona falsa, costruita, ma perché credeva sinceramente che il modo più bello di vivere la vita fosse quello di cristallizzarla nell'intesa misteriosa che viene a crearsi tra due persone, nel momento in cui decidono tacitamente di tenere per loro, e loro soltanto, i momenti insieme.
Quando il segreto veniva tradito, quando quell'intimo gioco terminava, tutta la magia attorno a quei ricordi si spezzava, inesorabilmente. Rimanevano cocci di esperienze di cui gli pesava farsi carico.

Diceva bugie. Ma non erano quel tipo di bugie che finiscono per fare male perché “prima o poi la verità viene a galla”. Erano di quelle bugie che affiorano alle labbra di loro spontanea volontà, che si insinuano nelle menti e nei cuori di chi le dice, fino a diventare così reali che ci si convince siano vere. Lo diventavano sempre: maturavano in verità.
Le sue bugie diventavano vere ogni qual volta trovassero il modo di saltare fuori da quelle labbra così piene. Piene di baci rubati, a volte forzati, persino non ricambiati, solo una volta mai ricevuti.

Si nascondeva. Ma detestava quella parola. Era convinto che il suo fosse solo il modo più esatto di aspettare. Aspettava, con quella strana idea di mondo che aveva in testa, che lo portava a fuggire proprio quando si trovava dinnanzi a ciò che aveva tanto atteso. Forse era convinto che la vera sorpresa fosse celata nell'attesa.

«Sei bella», disse distrattamente una sera, rivolgendosi chissà se alla neve, chissà se alla luce della luna, chissà se alla canzone che suonava in radio.

Non stava mai zitto, perché il silenzio lo imbarazzava. Parlava sempre. E se proprio era obbligato a tacere, allora lasciava che gli occhi parlassero per lui. Quegli occhi che teneva quasi sempre socchiusi, come per paura di rimanere folgorato, un giorno o l'altro.
Era divertente ascoltarlo mentre si compiaceva della propria intelligenza, con quell'espressione stupida stampata sul volto.

Quella volta che si mise a ridere perché scoprì che darsi la mano non è un gioco speculare, ma ad incastro. Quella volta che mi misi a ridere, pensando a quanto fosse bambino. Quella volta che per poco non piansi, perché mi convinsi di essere un giocattolo che prima o poi si sarebbe rotto. Quella volta che mi disse una bugia dolorosa e feci finta di non accorgermene. Quella volta che per poco non pianse – per finta, mi disse poi.

«Hai mai sentito le farfalle nello stomaco?»
Si mise a ridere. Non mi diede mai una risposta.

Prendeva decisioni seguendo quello che gli piaceva chiamare istinto, che a volte sembrava semplice capriccio. Decisioni di cui a volte si pentiva, altre volte si stupiva. L'istinto spesso sbagliava, ma il capriccio, quello, non era altro che il suo modo per esprimere il desiderio.

Aveva quello strano potere su di me, come la kryptonite su Superman. Ma non mi piaceva dimostrarglielo, perché non potevo permettermi di fargli capire quanto vulnerabile mi rendesse quel particolare modo di guardarmi, quel modo curioso di increspare le labbra, quella ruga che gli compariva sulla fronte quando dicevo qualcosa di melenso.
Non gli piaceva quando cercavo di psicanalizzarlo. Nemmeno a me piaceva davvero provarci. Non si poteva analizzare, quella testa piena di immagini vorticose, sovrapposte e incoerenti.

Era un bastian contrario. Come quando gli chiesi di leggere un libro e non lo fece, lo pregai di non leggere ciò che scrivevo e mi chiese perché scrivessi solo cose tristi.

«Perché quando sono felice esco», rubai la frase a qualcuno.
«Ma perché devono finire tutte male, le tue storie?» chiese, con la lucidità di chi pensa che la vita sia già difficile di per sé, senza che ci sia il bisogno di sottolinearne la drammaticità nei racconti di fantasia.
«Non so scrivere i lieto fine», inventai.

Quella volta che si mise a ridere divertito, con la consapevolezza che le cose proibite fossero le più complicate da portare avanti. Gli piacevano le cose difficili, le sfide, le imprese titaniche. Perché gli piaceva vincere, principalmente. Viveva con l'agonismo cucito addosso e si meravigliava di chi si accontentasse di partecipare.

«Ma sei ubriaca?», mi chiese una sera. Ed io avrei voluto gridargli che era lui a rendermi mentalmente instabile, ebbra, confusa, felice e triste al tempo stesso, eccitata, incantata, accecata dalla gelosia, furiosa, intimidita, fragile: dipendente. Avrei voluto spezzare quel segreto, quel gioco che aveva perso qualsiasi fascino su di me, perché durato troppo. Ma mi limitai a ridere.

Come la prima volta che mi disse ti amo, e pensai a così tante cose tutte insieme che quasi mi scordai di rispondergli. Chissà se quella volta, almeno quella, fosse una verità nata come tale, e non maturata con il tempo.
 

«Alcune storie non sono fatte per avere una fine», mi mentì con un sorriso.

 

   
 
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