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Autore: Sery400    21/01/2015    3 recensioni
«Guardati, Ian» soffiai, ancora nel suo orecchio. «Stai per avere un orgasmo solo perché i nostri corpi sono a contatto e hai il coraggio di sposare un’altra?»
«Posso controllare le reazioni del mio corpo.»
«A me non sembra proprio.»
«Riuscirò a farlo. Ripeto, oltre ad un orgasmo, cosa puoi promettermi?»
Non lo disse con cattiveria, lo disse con voce spezzata, come se me lo stesse davvero chiedendo, come se davvero stesse sperando in una risposta che non avrei potuto dargli. Feci due passi indietro, respirai. «Di amarti.»
«Non è abbastanza.»
#Somerkey
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Somerhalder, Michael Malarkey
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note: ciao a tutti! Chi segue Wherever you will go, probabilmente si starà chiedendo perchè non ho ancora aggiornato, visto che avevo promesso di farlo oggi, e beh, il motivo e questa one shot. Mi è entrata nella mente e non sono riuscita a scrivere altro nei precedenti tre giorni. Così, vi do questa, nella speranza che possiate perdonarmi l'attesa della long.

Spero vi piaccia, aspetto le vostre recensioni:)


A Fede.
Happy B-day honey!











Stavo una merda. Stavo una merda da una settimana ed Ian lo sapeva. Sapeva che io ero a conoscenza di tutto e sapeva quanto stavo una merda. Probabilmente mi conosceva abbastanza bene da sapere che le borse sotto agli occhi non erano colpa di mio figlio, che ormai aveva quasi sei mesi, ma sua. Era tutta colpa sua se non dormivo, non rivolgevo la parola a nessuno da una settimana e a malapena mangiavo. Mia moglie era troppo impegnata con Marlon per accorgersi di ciò e sul set erano tutti troppo indaffarati. Ma Ian lo sapeva. Ian mi notava, mi osservava quando pensava che io non lo vedessi e distoglieva lo sguardo ogni volta che lo trovavo a scrutarmi. Ian mi conosceva troppo bene per credere alle menzogne che rifilavo agli altri. Ian sapeva l’effetto che aveva su di me e sapeva cosa gli sguardi pieni di dolore che gli riservavo, significavano.

 

Stavo una merda ed Ian sapeva perché. Ma non parlava. Non si era avvicinato, non mi aveva rivolto la parola, non aveva nemmeno provato ad avere un contatto con me. Non toccavo la sua pelle calda da quasi un mese e mi mancava così fottutamente tanto. Non toccarlo, ma lui. Lui mi mancava tanto da togliermi il fiato. E no, non il sesso. Quello non lo facevamo da tanto. Mi mancavano le parole dolci che mi sussurrava all’orecchio, le carezze durante le dormite che facevamo sul set ogni volta che avevamo una mezz’ora di pausa. Mi mancano i suoi abbracci, i suoi sguardi intensi e i suoi baci lenti, dolci, sofferti ogni volta. I ‘ti amo’ sussurrati nelle orecchie, come se a dirlo a voce troppo alta potesse diventare una realtà troppo grande da affrontare.
Dopo le vacanze, dopo quella notizia, era sparito tutto. Io sapevo perché, lui sapeva perché. Aveva messo fine a tutto ciò senza nemmeno parlarne con me, in un accordo tacito, che di accordato non aveva nulla. Perché io non ero pronto a lasciarlo andare, quando sembrava che lui invece non aveva avuto alcun tipo di problema.

 

Erano passate due settimane, il giorno in cui sentii di nuovo la sua mano sfiorare la mia.
Julie voleva parlare con tutto il cast e aveva convocato ognuno di noi in sala riunioni. Ian era come sempre in ritardo ed io sbiancai quando realizzai che l’unico posto libero rimasto era quello accanto a me. Ma avevo fatto finta di nulla. Non l’avevo guardato, né toccato, né gli avevo rivolto la parola. Mentre il mio cuore nel petto si dimenava come una bestia inferocita, cercai di focalizzarmi sulle parole di Julie, cosa che divenne impossibile fare, quando il dito indice di Ian accarezzò il dorso della mia mano, immobile sulla mia coscia.
Tutto il mio corpo si irrigidì e il mio respiro divenne pesante, mentre brividi di eccitazione mi percorrevano la schiena. Era passato troppo tempo dal giorno in cui la sua mano si era intrecciata con la mia, mentre mi augurava buone vacanze con il bacio più dolce che mi avesse mai riservato.
Portai la mano sul tavolo, cercando di controllare i battiti del mio cuore e ignorando totalmente l’uomo accanto a me.

 

Erano passati venti giorni, quello in cui i suoi occhi si erano posati sui miei in una supplichevole richiesta. Aveva sussurrato il mio nome ed io mi ero voltato dall’altro lato, impendendo a me stesso di fare qualsiasi mossa dettata dall’istinto.
Perché quel nome non lo sentivo uscire dalle sue labbra da più di un mese e aggrapparmi a lui, al suo corpo, alla sua voce, alle sue labbra e alla sua anima era tutto ciò che avrei voluto fare.
Ma lui aveva mandato a fanculo tutto con poche semplici parole e un fottuto anello, facendomi capire che era andato avanti. E allora che senso aveva, per me, continuare?

 

Ventidue giorni, quello in cui mi arrivò un messaggio nel cuore della notte –che stavo passando fissando il soffitto e domandandomi cosa diavolo fosse cambiato dall’ultima volta in cui aveva giurato di amarmi-, in cui mi chiedeva di aprirgli la porta di casa e lasciarlo entrare.
Quel “lasciami entrare”, che non aveva solo un significato materiale. L’avevo lasciato fuori dai miei pensieri, dal mio cuore e dalla mia mente, dalle mie idee e dal mio intero essere e a quanto pareva, a lui non stava bene così.
Fottuto egoista che voleva tutto senza dare niente.

 

Ormai era arrivato febbraio, quando Ian mi prese per un braccio prima che potessi entrare nel mio camerino e mi tiro a sé. Distavamo qualche centimetri e quella vicinanza, dopo mesi di zero assoluto, non riuscivo a sopportarla. Feci un passo indietro. «Ho da fare» sussurrai, prima di voltargli le spalle senza nemmeno guardarlo negli occhi e rifugiarmi al sicuro nel mio camerino, chiudendo a chiave prima che potesse entrare.

Bussò una, due, tre volte, poi parlò. «Michael devo parlarti.»

La voce che probabilmente voleva che sembrasse ferma e dura, sicura, uscì fuori come una supplica. Mi lasciai cadere, le spalle appoggiate alla porta e la testa tra le gambe, mentre lacrime uscivano copiose dai miei occhi e rigavano il mio viso, in silenzio. Sentii la sua voce chiamarmi un altro paio di volte, poi nelle mie orecchie risuonò il rumore dei suoi passi che si allontanavano da me.

 

Damon ed Enzo non avevano scene insieme da tempo. Era per questo che evitare Ian era così straordinariamente facile. Ed era per questo che quando lessi sul nuovo copione, una scena con l’uomo dagli occhi più belli di sempre, mi sentii crollare. Non riuscivo a respirare la sua stessa aria, figuriamoci girare con lui, guardarlo negli occhi e recitare battute ironiche, ridendo.
Non riuscivo a pensare a lui senza che il mio viso diventava il letto di un fiume in piena, pronto ad ospitare tutte le lacrime che sarebbero scese, figuriamoci passare con lui un pomeriggio intero.
Mi maledetti quando realizzai di aver dimenticato di chiudere la porta del mio camerino a chiave, quando Ian entrò senza nemmeno bussare.
Saltai sulla sedia, preso alla sprovvista. Poi il mio cuore si strinse in una presa mozzafiato, quando i miei occhi scuri incontrarono i suoi chiari. Terra e mare, una combinazione che mi faceva girare la testa.

«Dobbiamo parlare. Da quello che vedo hai letto anche tu il copione, quindi sai che è diventato inevitabile.»

Non risposi per un lungo tempo. Lunghi, interminabili, minuti, in cui il suo sguardo bruciò sulla mia pelle.

«Non mi viene in mente nulla che potresti dirmi» mormorai infine, con una voce che nemmeno sembrava la mia.

Cercò di fare un passo avanti, ma quando vide il mio corpo che si irrigidì, tornò al suo posto, a vari metri da me.

«Non avrei mai voluto nulla di tutto questo» ammise, senza riuscire a staccare gli occhi da me.

La forza che aveva lui io però non l’avevo mai avuta, così distolsi lo sguardo. Girai anche la schiena, riprendendo a fissare il mio copione senza realmente leggerlo.

«Michael.»

Ancora quel nome. Ancora il mio nome, uscito fuori dalle sue labbra nella supplica più dolce che io avessi mai sentito. Ancora il mio nome, ancora con la stessa tonalità di voce, ancora a provocare dentro di me lo scombussolamento più totale.

«Cosa pensavi sarebbe successo, Ian?» sbottai, mettendo nel suo nome più rabbia di quanta pensavo ne avessi dentro. «Che sarei venuto da te e ti avrei fatto le congratulazioni? Sposatela pure, la vita è tua, ma non puoi pretendere che a me stia bene.»

«Non sto pretendendo niente.»

Poche parole. Insufficienti. Prive di qualsiasi cosa possa aver avuto bisogno.

«Cosa vuoi allora? Vai via e basta. Vai da lei.»

Non riuscivo ancora a guardarlo negli occhi. Le pagine scritte sotto ai miei occhi sembravano così maledettamente interessanti in quel momento. Ma potei sentire i suoi passi, lui avvicinarsi a me. Lo ignorai.

«Mi manchi.»

Rabbrividii a quelle parole. Il mio cuore perse un colpo, prima di iniziare a battere forte impazzito. Fottuto stronzo egoista. Mi voltai, non aspettandomi i suoi occhi così vicini ai miei. Mi persi per un attimo in quel mare azzurro, senza preoccuparmi di lasciarmi la riva lontana alle spalle. Poi tornai in me.

«Non ti mancavo quando ti sei inginocchiato di fronte a lei e le hai chiesto di sposarla.»

«Il fatto che la ami non implica che tu non possa mancarmi.»

«Non puoi desiderare entrambi.»

«Lo sto facendo.»

Quel ragionamento non aveva un cazzo di senso. Non poteva aver voglia di sposare una e volere me. Non sposi una persona mentre pensi ad un’altra. Non avrei mai potuto accettarlo.

La vicinanza era di nuovo troppa, così mi alzai e mi allontanai da lui.

«La stanza è piccola, Michael, non puoi scappare.»

Aveva ragione. Ma. «Posso uscire.»

«Non lo farai.»

Aveva ragione un’altra volta. Non mi sentivo così vivo dal suo ultimo bacio. Non avevo alcun’intenzione di allontanarmi di nuovo, anche se lui mi faceva così fottutamente male. Era nocivo ciò che stava provando. Riusciva ogni maledetta volta a persuadermi, a convincermi che amava anche me, che voleva anche me. Ed io mi lasciavo andare. Tutto quello aveva portato a ciò che ero ora e non potevo permetterlo ancora. Non potevo lasciare che lui mi avesse di nuovo. Dovevo allontanarlo e permanentemente.
Peccato però che il mio corpo non riusciva a muoversi di un millimetro.
Al contrario del suo, che si stava avvicinando con fin troppa sicurezza.

«Ti desiro tanto quanto desidero lei» mi disse ad un centimetro di distanza. Non mi toccava, quello non si permetteva ancora di faro. «E mi manchi. Mi manca il tuo tocco, in qualsiasi istante del giorno. Toccami.»

Ed io lo feci, perché cazzo, quegli occhi mi stregavano ancora. Era come un mago, come uno di quelli che riuscivano a giocare con la tua mente e ti facevano fare qualsiasi cosa volessero loro. La differenza quella volta era che lo volevo anche io.
Misi le mani sui suoi fianchi e le sentii bruciare. La maglietta leggera che aveva era uno strato di tessuto troppo sottile. Riuscivo a percepire la sua carne. Mi stava girando la testa. Volevo scappare. Dovevo scappare.
Ma il mio corpo ormai faceva per conto suo, come ogni volta che ero in sua presenza. Le mie mani si spostarono sul suo addome, sui suoi addominali contratti. Non riuscivo però a staccare gli occhi dal suo volto, le labbra socchiuse, le palpebre abbassate.
Avrei potuto tirargli un pugno tanto forte da lasciarlo col fiato mozzato, ma non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Infondo, lo amavo. E nonostante tutto il dolore che mi aveva procurato e mi stava ancora procurando in quel momento, non riuscivo a far del male a lui. Bastavo io a soffrire.
Arrivai lentamente al suo petto, che si abbassava e alzava velocemente, sopra il suo cuore che batteva con forza. Si passò la lingua sulle labbra e mi resi conto che volevo baciarlo. Non potevo baciarlo.
Non c’era nessun tessuto a coprire il suo collo caldo su tanto avrei voluto posar le labbra. Sentivo le mie mani formicolare, trattenevo il respiro da minuti interi. Sospirai e realizzai che le mie gambe tremavano. Mi ricordai della nostra prima volta. Io lo stavo toccando nello stesso modo in cui facevo in quel momento e mi sembrò tutto un riscoprirsi.
Le sue braccia, che in precedenza erano rigide contro i fianchi, mi afferrarono in vita e mi attrassero a lui. Mi si mozzò il fiato. Le nostre labbra erano troppo vicine, i nostri occhi anche. Li aveva riaperti e ora mi osservava come non faceva da tempo. Come se mi volesse. Come se volesse me, il mio corpo, il mio cuore. Non mi guardava in quel modo dall’ultima volta in cui avevamo fatto l’amore.
Ero rigido, come ghiacciato, eppure mi sembrava di star per andare a fuoco.
Non vedevo altro che il rosso delle sue labbra e l’azzurro dei suoi occhi. Il mio sguardo faceva continuamente su e giù senza riuscire a fermarsi. Ian i miei occhi nemmeno li vedeva. Mi stava stringendo con tanta forza da farmi male, ma non replicai. Mi permisi di chiudere gli occhi e respirare il suo profumo.

«Non puoi scappare.»

«Non posso restare.»

Il suo fiato sulle mie labbra, parole intrise di verità. Sia le mie, che le sue. Come potevo allontanarmi? Anche se avessi voluto, e lo volevo, dove avrei trovato la forza di farlo? Ma come potevo restare, senza finire irrimediabilmente spezzato?

«Vai via» sussurrai deciso. «Vattene tu, dimostra di amarmi ancora quel poco per lasciarmi andare.»

«Ti amo ancora troppo per farlo.»

Lasciai andare il suo collo, feci un passo indietro. Le sue braccia tornarono lungo i fianchi.

«Ti stai per sposare.»

«Sì.»

«Non puoi amarmi.»

«Il fatto che non possa farlo non implica che non lo stia facendo. Mi è sempre piaciuto infrangere le regole.»

Mi girai, gli detti le spalle. Iniziai a respirare tanto velocemente da far rumore. Come poteva dirmi quelle cose? Come poteva farlo? Davvero non capiva quanto ci stavo male? Quando mi faceva schifo non sentirmi l’unico, come una volta?

«Vai via, ti prego.»

Poteva sentirmi piangere e lo sapevo, ma non mi importava.

«Hai una cazzo di moglie, Michael. E un figlio. Non puoi davvero avercela con me per volere anche io una famiglia.»

«Vattene cazzo» urlai tanto forte da spaventare me stesso.

Quella volta lo fece, senza ribattere.

 

Nei tre giorni seguenti lo avevo visto una volta, ma non avevamo parlato. I nostri sguardi non si erano nemmeno incrociati.
Quel venerdì avremmo dovuto girare insieme.
Avevo passato settantadue ore a prepararmi psicologicamente a far finta che andasse tutto bene, a dirmi che erano Enzo e Damon che dovevano interagire, non Michael ed Ian. E pensavo di esser pronto, lo pensavo davvero. Fin quando non mi alzai quella mattina con la testa che girava e il cuore che batteva impazzito.
Mi sentii un fottuto vigliacco quando scrissi a Julie di avere la febbre e di non riuscire a presentarmi sul set.
Puntuale come un orologio svizzero fu Ian, che quel pomeriggio suonò al campanello. Nadine era fuori con Marlon ed io avrei potuto benissimo lasciarlo fuori da solo.
Se non avesse continuato a suonare e urlare che sapeva fossi lì.

«Com’è non sei con la tua promessa sposa?» fu la prima cosa che dissi quando aprii la porta.

Non rispose, entrò senza essere invitato e si fermò al centro della stanza. «Se vuoi odiarmi okay. Non lo accetterei e non mi arrenderei mai, ma potrei capirlo. Però non puoi permetterti di inventarti cazzate per non girare insieme a me. Siamo colleghi di lavoro, è inevitabile vivere con me.»

«Mio Dio, sei davvero così stupido?»

«Scusa?»

«Pensi che non voglia girare con te perché ti odi? Pensi sia più difficile girare con una persona che odio, che con una che amo e che mi ha spezzato il cuore?»

Ian non sembro curarsi della parte del cuore spezzato, poiché, con occhi increduli, disse: «Non mi odi.»

«Se ti potessi odiare avrei risolto il problema.» Restammo in silenzio qualche secondo. Non un silenzio imbarazzante, ma uno fin troppo pieno di parole non dette. Non potevo farcela. «Ora va’ via.»

«No cazzo. Non vado da nessuna parte fino a quando non mi dici perché non posso avvicinarmi e baciarti come ho sempre fatto.»

«Perché sono un fottuto egoista, ancor più di te e non riesco a sopportare l’idea di vederti con quella.»

«Quella ha un nome.»

«Non mi interessa. Non mi interessa lei, il suo nome, la sua vita.»

«Io ho sempre sopportato di vederti con tua moglie, non puoi chiedermi di scegliere tra una vita segreta con te e una felice con lei.»

«Non puoi averci entrambi.»

«Non posso perderti.»

«O perdi me, o perdi lei. Sappiamo entrambi quale sarà la risposta. Ora, per favore, vai via da casa mia.»

Ian abbassò lo sguardo e uscì, perché sì, sapevamo tutti la risposta. Era ammetterla che faceva male ad entrambi più di qualsiasi altra cosa.

 

Passai il giorno seguente e piangermi addosso, la domenica a cercare di farmene una ragione.
Lunedì girammo insieme, poi scappai nel mio camerino e mi buttai sul letto a guardare il soffitto, trattenendo le lacrime per mezz’ora intera.

 

Mi sarebbe dovuta passare dopo un po’, era quello il piano. Ignorarlo, per poi farmela passare. Ma invece, più i giorni trascorrevano, più Ian mi mancava. Ed io mancavo a lui. Lo capivo dal suo sguardo basso, da come mi guardava quando le circostanze ci obbligavano a non poter far finta di niente. Lo capivo da come aveva accettato silenziosamente di lasciarmi libero.
Peccato che però, mi sentivo tutto, tranne che libero.
Perché libero mi ci sentivo quando vedevo Ian e lo abbracciavo, quando lo vedevo entrare di soppiatto nel mio camerino e sorridevo, per poi fai scontrare le nostre labbra e annegare nel blu dei suoi occhi. Libero mi ci sentivo quando mi stringeva tra le sue braccia e lasciava che mi addormentassi su di lui, cantandomi qualche stupida canzone all’orecchio. Libero mi ci sentivo quando potevo rivelargli tutti i miei sentimenti.
Gli avevo chiesto libertà eppure non mi ero mai sentito così in trappola, così in balia di me stesso.

 

Passammo due settimane senza parlarci, se non quando i nostri lavori ci obbligavano a farlo.
In casa non riuscivo a starci, con una moglie che voleva prendersi cura di me, quando tutte le attenzioni le avrei volute da un altro. Così, ogni volta che potevo, mi rifugiavo sul set e mi chiudevo nel mio camerino. Era lì che ormai studiavo i miei copioni e scrivevo la mia musica. Era lì che suonavo e cantavo a bassa voce. Era lì che, praticamente, vivevo.
Così, una mattina di fine febbraio, dopo essermi assicurato che Nadine poteva passare la giornata con Marlon, uscii di casa per andare a lavoro, nonostante non dovessi girare fino al pomeriggio. E fu quel giorno che crollai. Perché lei era lì con lui, che lo teneva per mano mentre parlavano animatamente con Kat. E lo guardava, riservandogli sorrisi dolci e innamorati che lui ricambiava senza difficoltà. Rimasi a guardarli per un paio di minuti senza riuscire a staccare gli occhi da loro. Quando una lacrime silenziosa sfuggì al mio controllo, corsi via. Non mi curai di far silenzio, di non farmi sentire, né vedere. Semplicemente, scappai. Da lui, da lei, da loro e da tutto ciò che era la causa del mio dolore.
Sbattei la porta e mi sedetti sul letto, i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, a raccogliere le lacrime e soffocare i singhiozzi che uscivano dalla mia gola.
Mi resi conto che qualcuno era entrato nel camerino solo quando il letto sprofondò sotto di me. Mi voltai di scatto solo per ritrovarmi ad annegare nel mare dei suoi occhi.

«Pure qui devi portarla? Non ti basta averla a casa, Ian?» gridai con rabbia, spingendogli forte il petto.

Lui rimase immobile. «Non pensavo venissi. Mi avevano detto che saresti stato qui in pomeriggio.»

Annuii. In fondo era solo colpa mia. «Non sarei dovuto venire.»

«Mi dispiace, Michael.»

Risi. Una risata che era tutto, tranne che felice. «Ti dispiace» ripetei. «Già, dispiace anche me. Mi dispiace di aver ceduto a te così facilmente. Mi dispiace di averti baciato, quella prima volta. Di aver lasciato che mi spogliassi, la volta dopo. Mi dispiace di averti fatto entrare così tanto a fondo nel mio cuore che nemmeno con tutto il dolore che mi stai facendo provare, riesco a farti uscire.»

Altre lacrime ora rigavano il mio viso. Lacrime che lui asciugò prima che avessi il tempo di fermarlo. «Vattene, vai da lei, si starà chiedendo dove sei.»

Cambiò argomento. «Quant’è che non dormi per più di tre ore consecutive?»

Non risposi. Non lo sapevo, troppo.

«Stenditi» ordinò.

Rimasi fermo un minuti intero, poi mi fidai. Mi stesi sul fianco destro, quello su cui ero abituato a dormire e fissai la parete bianca davanti a me. Due braccia forti mi strinsero da dietro e mi attrassero ad un corpo caldo con cui combaciavo perfettamente. Il modo in cui riusciva a calmarmi semplicemente abbracciandomi era un qualcosa che non mi sarei mai spiegato. Mi sentii improvvisamente protetto, al sicuro. In pace.
Tutto quello però duro un paio di minuti, poiché iniziai a sentire il suo respiro regolare sul mio collo e il suo pollice aveva iniziato ad accarezzare il mio e le libertà che si stava prendendo erano troppe rispetto a ciò che io sarei riuscito a controllare. Lo volevo. Lo volevo così tanto. Sarei rimasto in quella posizione per sempre, una volta. In quel momento stavo per avere un qualcosa simile ad un attacco di panico, che mi costrinse a girarmi e spingerlo via, facendolo quasi cadere dal letto. «Non ce la faccio» mormorai, mentre le lacrime che si erano placate, riniziarono a scendere.
Ian capì e si mise a sedere.

«Lasciami solo.»

«Michael-»

«Vai.»

Era arrivato alla porta quando improvvisamente realizzai che un’altra occasione così non l’avrei avuta. Che il suo odore nelle mie narici non l’avrei risentito per molto. Che le sue braccia intorno a me non mi avrebbero cullato per un lasso di tempo che mi avrebbe fatto impazzire.
Che non avrei dormito per altri tanti giorni.

«Aspetta» dissi in un sussurro.

Lui si fermò, ma non mi rivolse lo sguardo. Le sue spalle erano rigide e tese. Avevo voglia di andare da lui ed accarezzargliele per farlo rilassare.

«Rimani.»

Quando si voltò stava accennando un sorriso. Non malizioso, non soddisfatto o vittorioso. Felice. Tornò da me e mi strinse forte al suo petto, lasciando che mi inebriassi del suo profumo e della sua essenza. Mi accarezzò i capelli fino a quando non mi addormentai, tranquillo come non mi sentivo da mesi.

 

Avevamo dormito tutta la mattinata quel giorno. O meglio, io lo avevo fatto. Quando mi ero svegliato lui era ancora con me, che mi osservava. Non seppi mai se aveva chiuso gli occhi anche solo per un secondo.
Le cose però non erano cambiate da quel giorno. Non era cambiato nulla. Quello era stato un mio momento di debolezza e basta. Debolezza che si era fatta risentire, qualche volta. E ogni volta Ian era lì con me, ad approfittarne.
Perché io gli mancavo quanto lui mancava a me, ma le uniche volte in cui lo lasciavo avvicinare era quando mi sentivo talmente debole da non aver la forza di ribattere e quando il bisogno che avevo di lui si faceva così forte da impedirmi persino di respirare regolarmente.
Ci eravamo baciati due volte, in quei due mesi. E nulla era successo più di semplici baci. Affamati, bisognosi, appassionati, voraci, ma pur sempre baci. Nulla di più. Eppure lo volevo, eppure lo voleva. Ma non potevo permetterlo. Non sarei mai riuscito a guardarlo negli occhi senza pensare che quella sera sarebbe tornato da Nikki con ancora il mio odore addosso.
È per questo che maledissi l’alcool e quegli occhi azzurri che con troppo Bourbon nelle vene sembravano ancora più chiari, quella sera. Maledissi Ian quando mi portò a casa sua per non mostrare a mia moglie in che stato ero ridotto. Maledissi Nikki che proprio quel fine settimana doveva essere a Los Angeles a trovare la famiglia.
Ian mi spogliò e mi buttò sotto la doccia calda, seguendomi un minuto dopo per aiutarmi a lavarmi e a farmi tornare in me. Lui mi toccò quanto bastava, non approfittò della situazione nemmeno per un secondo. Non indugiò sul mio corpo più del dovuto e non mi sorrise per tutta la sera. Mi ricordò ancora una volta perché lo amavo così tanto. Mi portò a letto, mi aiutò a vestirmi e scrisse a Nadine.
Fu in quel momento, che maledissi me stesso. Perché una volta che si era messo anche lui sotto le coperte, dall’altro lato del letto, ero stato io ad avvicinarmi a lui e accarezzargli un fianco. Gli era venuta la pelle d’oca in un secondo e quello mi aveva portato ad accarezzare tutto il suo corpo come non facevo da mesi interi. Iniziai a baciargli la spalla nuda, il collo, poi –quando si girò- le labbra. Ci baciammo a lungo e nel frattempo io mi ero spostato sopra di lui. Lo sfregamento dei nostri corpi era un qualcosa che mi aveva fatto impazzire, ma fu quando sentii la sua erezione premere sulla mia che persi il controllo.
Facemmo l’amore senza riserve. Non ci privammo di attenzioni, di tocchi, di baci e sussurri. Mi sentii completo nel corpo di Ian, come se fosse riuscito a mettere insieme tutti i pezzi del mio cuore, che si era sgretolato giorno dopo giorno, sempre di più. E mi ero sentito al caldo tra le sue braccia, dopo, nonostante i nostri corpi fossero nudi.

 

La mattina dopo non ne fui pentito. Avevo guardato i nostri corpi stretto uno all’altro, le nostre gambe attorcigliate e avevo sorriso. Lo avevo baciato e mi ero permesso il lusso di far di nuovo l’amore con lui. E in fondo sì, pensai che le cose sarebbero potute, anche per un attimo, cambiare.

 

Ma non lo fecero. Non cambiò un cazzo, perché dopo nemmeno due settimane, mi arrivò l’invito al suo matrimonio.

Quando arrivai sul set lo strattonai fino al suo camerino e iniziai ad urlargli contro. «Ma fai sul serio? Non la molli ‘sta fissazione del matrimonio? Ti lasci baciare, accarezzare, scopare, da me e ancora vuoi sposare quella stronza?»

«Uno: non chiamarla stronza. Due: non è una fottuta fissazione. La amo, viviamo insieme da mesi, voglio sposarla. Non vedo nulla di sbagliato in ciò.»

«Non vedi nulla di sbagliato» ripetei sbuffando. «Forse di sbagliato c’è solo il fatto che te lo faresti mettere in culo da me anche ora e urleresti tanto da scordare anche il nome, della donna che dici di amare. Ma no, è un cazzo di dettaglio inutile questo, non è vero? In quale modo potrebbe influire sul tuo matrimonio?»

«Scommetto invece che tua moglie è contentissima del fatto che, e cito, me lo metteresti in culo anche ora.»

Sostenni il suo sguardo senza dire una parola. Chiunque sarebbe potuto entrare e percepire la rabbia, la tensione, l’amore. Avevo voglia di urlare ancora perché ne avevo bisogno, perché dovevo sfogarmi. Volevo dirgliene di tutte e di più, riservargli i peggiori insulti, dargli i cazzotti più forti che riuscivo a dare. Ma non feci nulla di tutto ciò.

«Non farlo» sussurrai solamente, mentre sentivo tutto il mio corpo crollare a pezzi.

«Per te? Cosa puoi darmi tu? Oltre a baci e sesso occasionale, in un futuro non immediato, cosa puoi darmi?»

Rimasi in silenzio perché, per quanto non volessi che Ian si sposasse, non potevo nemmeno impedirlo. Non avevo nulla da offrirgli io. Così abbassai lo sguardo.

«Dammi un valido motivo per farlo ed io mollo tutto, Michael.»

«Non dovrebbe già questo essere un motivo valido? Il fatto che molleresti tutto da un secondo dall’altro?»

«Non lo farei per nulla.»

Allora mi avvicinai a lui con determinazione, lo feci indietreggiare finché non arrivò con le spalle al muro e feci combaciare i nostri corpi. Bastarono qualche secondo in cui gli respirai nell’orecchio a farlo ansimare e a farglielo diventare duro. «Guardati, Ian» soffiai, ancora nel suo orecchio. «Stai per avere un orgasmo solo perché i nostri corpi sono a contatto e hai il coraggio di sposare un’altra?»

«Posso controllare le reazioni del mio corpo.»

«A me non sembra proprio.»

«Riuscirò a farlo. Ripeto, oltre ad un orgasmo, cosa puoi promettermi?»

Non lo disse con cattiveria, lo disse con voce spezzata, come se me lo stesse davvero chiedendo, come se davvero stesse sperando in una risposta che non avrei potuto dargli. Feci due passi indietro, respirai. «Di amarti.»

«Non è abbastanza.»

Mi avvicinai di nuovo, quella volta con calma, e gli misi le mani sul collo. Con i pollici accarezzai la sua mascella, poi, dopo essermi accertato dal suo sguardo che potessi farlo, baciai le sue labbra con un bisogno che non pensavo potessi avere. Lui mi prese per i fianchi e mi tirò a sé fino a farmi scontrare con il suo corpo, sul quale iniziò a strusciarmi senza che io avessi la forza di fermarlo. Le sue mani scivolarono sul mio sedere, che strinsero poi forte. Io mi lasciai sfuggire un ansimo nella sua bocca, che non avevo il coraggio di abbandonare. Perché sarebbe cambiato tutto da quel giorno in poi, lo sapevamo bene entrambi.

Eppure lui distanziò le nostre labbra –ma non i nostri corpi- e disse: «Ti voglio così tanto dentro di me.»

Mi strusciai con forza su di lui, ma non riuscii ad accontentarlo. «Dovresti tornare dalla tua ragazza.»

«L’avevo anche prima una ragazza, eppure questo non ti ha mai fermato.»

Era vero. E non avevo idea di cosa fosse cambiato. Forse prima vedevo Nikki come una delle ragazze di Ian, come una semplice conquista che divideva con me. Il fatto che l’avrebbe sposata aveva reso tutto più reale e ciò che era cambiato, era qualcosa dentro di me. Ma non potevo dire quello. «Non scopavamo prima.»

«Non scoperemmo nemmeno ora.»

Non mi dette il tempo di ribattere. Mi prese in braccio continuando a baciarmi e mi stese a letto, mettendosi sopra di me. La frizione delle nostre erezioni una sull’altra mi fece gemere sulle labbra di Ian, che il secondo dopo era sul mio collo. Lo baciò, succhiò, leccò, ma aveva imparato a non lasciarmi succhiotti. Mai. Infilò entrambe le mani sotto la mia maglietta, poi cercò di sfilarmela, ma lo trattenni. Mi guardò negli occhi e non servirono parole.

«Ti prego, Michael, non dirmi di no. Anche se sarà l’ultima volta, che se dopo non vorrai più aver nulla a che fare con me. Anche se cambierà tutto. Dimmi di sì.»

Ma io rimasi in silenzio, perché rispondere come avrebbe voluto lui non sarebbe stato possibile, ma mormorare quelle due lettere che avevo in gola avrebbe fatto troppo male.

«Lascia che almeno stia un altro po’ qui.»

A quel punto annuii, perché privarlo e privarmi anche di quello, sarebbe stato impossibile. Mi sono lasciato abbracciare e ho lasciato anche che mi baciasse lentamente il collo, perché già gli avevo impedito di fare sesso, non ci avrei negato anche quello.
Ma io Ian lo conoscevo bene ed era per quello che avrei dovuto sapere quanto era stronzo e infame. Perché quei baci non erano dolci, ma maliziosi, e quella posizione non era per rassicurarmi e farmi rilassare tra le sue braccia, ma per far crollare il mio autocontrollo già precario.
Strofinò la sua erezione sul mio sedere e mi morse il collo contemporaneamente. Dalle mie labbra uscì un gemito che non avrei saputo trattenere nemmeno se ci avessi provato. La sua mano iniziò a massaggiarmi l’addome, ferma però all’altezza dell’inizio del pantalone, quando in quel momento avevo un maledetto bisogno che scendesse più in basso.
Il secondo dopo ero a cavalcioni su di lui che gli sussurravo a denti stretti tutti gli insulti che conoscevo, mentre gli sbottonavo velocemente i jeans. Ci spogliammo con foga, tra un bacio e l’altro. Sapevo che era sbagliato, era tutto sbagliato, ma non riuscivo a staccarmi dalle sue labbra, dal suo corpo, dal suo calore e dal suo profumo. Ora che lo avevo nuovamente assaggiato, non riuscivo a smettere di desiderarne di più. Sempre di più.

«Non hai idea di quanto io abbia bisogno di te» dissi, senza riuscire a nascondere la necessità che avevo di appartenerci.

E durò poco, troppo poco per i miei gusti, troppo poco per i suoi. Durò poco perché nulla sarebbe mai stato abbastanza con lui, perché io non ne avrei mai avuto abbastanza di lui. Non smisi di baciarlo nemmeno dopo che tutto fu finito, non ci riuscivo. Steso accanto a lui, non smettevo di accarezzarlo, con le nostre bocche a contatto e i nostri respiri che si infrangevano l’uno sull’altro, i nostri odori ormai mischiati, indistinguibili.

«Quando hai detto di aver bisogno di me, non parlavi solo del sesso, non è vero?»

Ripensai a quella frase che era sfuggita dalle mie labbra, buttata fuori con impeto perché soffocata per troppo tempo. Sì, avevo bisogno di lui, ogni istante della mia vita, dal primo giorno in cui lo avevo conosciuto. Avevo bisogno di lui, tutto per me. Avevo bisogno che non sposasse Nikki perché io lo avrei amato di più, ne ero sicuro di quello. Ma non risposi, tacqui nuovamente perché in certi casi il silenzio parlava più delle parole. E lui non aggiunse nulla, perché sapeva che ammettere la verità avrebbe fatto troppo male ad entrambi. Continuò a stringermi ed accarezzarmi, continuammo a baciarci per un po’, fin quando non mi addormentai tra le sue braccia.

 

Ma Ian si sposò comunque e quel giorno toccai il ridicolo, senza riuscire a vergognarmici. Prima che salisse sull’altare mi ero spudoratamente aggrappato al suo smoking e gli avevo nuovamente supplicato di non farlo. Ma non avevo ancora motivazioni sufficienti a fermarlo. Così, con gli occhi lucidi, mi aveva accarezzato il viso ed era andato via.
Quando il prete annunciò il “se qualcuno dei presenti ha qualcosa da dire per impedire questa unione, parli ora o taccia per sempre”, gli occhi di Ian si fissarono nei miei e in quel blu ce ne erano fin troppe di motivazioni per mandare tutto all’aria. Il solo fatto che mi stesse silenziosamente implorando di alzarmi in piedi e dire qualcosa, sarebbe dovuto essere abbastanza.
Ma non lo era.
In seguito al “vi dichiaro marito e moglie” scappai via, le lacrime agli occhi, chiedendomi perché. Perché doveva andare così? Perché non ci siamo conosciuti in un momento differente? Magari in un momento in cui io non ero sposato? Perché le nostre vite erano così complicate e il nostro amore così sbagliato? Perché non riuscivamo a smettere di amarci?

 

Non vidi Ian l’intera settimana seguente e scoprì solo il secondo giorno che era in luna di miele. Volevo urlare fino a non aver più fiato e piangere fino a non aver più lacrime. Ma il matrimonio di Ian, come avevamo, in fondo, saputo entrambi dal principio, fu un disastro. Almeno ai miei occhi e ai suoi. Non meno disastroso del mio.
Passarono un paio di mesi prima che entrambi cedessimo. Un giorno, infatti, ci ritrovammo nudi uno tra le braccia dell’altro, a desiderarci, poi ad averci, senza più la forza di nascondere tutto ciò che provavamo. E quella fu solo una delle tante volte che avrebbero seguito. Ci trovavamo a fare l’amore e poi a piangerci addosso e maledirci. Entrambi sapevamo che stare insieme era sbagliato, ma era pure ciò di cui vivevamo. Così lo facevamo. Univamo i nostri corpi perché avere unite le nostre anime non era più abbastanza. E poi ci sentivamo mostri, malati dentro, ancora profondamente sbagliati, perché le nostre mogli non meritavano quello. Ma cosa potevamo farci? Ci avevamo provato a stare separati e non era esistita cosa più difficile. Eravamo arrivati a pensare che i nostri cuori erano dannati, costretti ad amare chi non potevamo avere. Ma forse, prima o poi, lo avremmo accettato e forse ce lo saremmo perdonato.

 

Ora eccoci qui, di nuovo, per l’ennesima volta, abbracciati sotto delle lenzuola che sanno di noi. Mi sollevo dal petto di Ian quel poco che basta per osservare una lacrima rigare il suo volto. Incrocia il suo sguardo con il mio e non ha paura di mostrarmi cosa prova. Di cosa dovrebbe vergognarsi, quando conosco la sua anima tanto quanto il suo corpo?
Poso le mie labbra sulle sue, curandolo e dannandolo allo stesso tempo.

«Non piangere» sussurro, accarezzandogli il volto in un gesto leggero, morbido, che sa di tranquillità.

«Ti amo così tanto.»

Affondo la testa nel suo collo e sospiro. Non dovrebbe farlo, non dovrebbe amarmi con questa intensità che sta distruggendo entrambi. Eppure rispondo. «Ti amo anche io, come non credevo possibile poter amare qualcuno.»
  
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