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Autore: HellWill    22/01/2015    0 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla.)
"Corse veloce, tentata di andare a quattro zampe per le reminiscenze di quella notte, ma si trattenne e continuò a correre sulle due gambe, scontrandosi dopo qualche minuto con Sin che, nudo, spuntò da un’altra direzione e la colpì da dietro.
«La devi smettere di rubarmi tutte le prede più succose!» protestò l’uomo, ridendo; Zever arricciò il naso e ghignò.
«Ti piacerebbe. Se non sei in grado di sfidarmi e prendertele da solo, allora non le meriti» ribatté, e Sin strinse gli occhi; restarono a fissarsi nella neve, nudi, mentre la loro pelle emanava letteralmente vapore(...)"
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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21 gennaio 2015
Being Replaced

Un ululato scosse il silenzio, facendolo tintinnare con mille onde di puro suono; un altro rispose, lontano, a tratti. Zever ansimò nella notte, e il suo fiato si condensò in calde nuvole di vapore; immerse il muso nella neve, e quella nuvola scomparve: ora era invisibile anche nel respiro. Il suo manto nero si confondeva nelle ombre, rendendola una macchina di morte.
«Hai sentito?» sussurrò la ragazzina che il lupo teneva d’occhio; l’uomo la strinse con un sorriso dolce.
«Non ti preoccupare, tesoro. Non siamo prede, abbiamo il fuoco».
Zever scoprì i denti, divertita; anche lei aveva il fuoco che le bruciava dentro… eppure quello non l’aveva mai salvata da nessun altro predatore, per quanto fosse già difficile che qualcheduno se la prendesse con un licantropo.
«Ho paura» sussurrò lei, stringendosi al padre, e Zever si scambiò un’occhiata con Sin che voleva dire “io prendo la piccola”, una silenziosa sfida, ma Sin la lasciò cautamente fare.
Zever mosse un passo verso il focolare, e i due esseri umani si irrigidirono; l’odore sinuoso della paura si insinuò nelle narici del lupo, che socchiuse gli occhi azzurri; il pelo grigio e nero ondeggiò ipnotico quando si preparò a balzare.
Uno strillo acuto squarciò il silenzio: Zever balzò sopra il fuoco direttamente sulla ragazzina, e l’uomo puntò il fucile, ma Sin gli era già addosso e in breve dei due non rimase nulla più che del sangue sparso sulla neve e delle ossa spolpate, che i due lupi disseminarono giocando a tirarle per le estremità, sfidandosi continuamente.
Poi trotterellarono via, attraversarono un torrente, per disperdere il proprio odore e pulirsi del sangue, e quando risalirono la riva opposta erano intirizziti e gelidi, con i cuori che battevano all’impazzata; corsero nelle ombre, inseguendosi e corteggiandosi, e se fossero stati umani avrebbero riso: invece si limitarono ad ululare più volte, per esprimere la propria felicità di essere al mondo, insieme, e la luna piena li ascoltò fredda e distante.

Quando Zever si svegliò, sentì il sapore di sangue e neve in bocca e rabbrividì, scossa da quella piacevole sorpresa; si stiracchiò a quattro zampe e si rese conto di essere umana solo dopo aver scosso i capelli, che le frustarono il viso. Allora si appoggiò ad un albero e si alzò lentamente, le giunture che scricchiolavano per la recente trasformazione; restò lì per qualche minuto, riabituandosi alla forma umana, e mosse le dita delle mani e dei piedi, preparandosi a correre per recuperare i vestiti: a sentir l’odore del terreno, l’albero cavo in cui li aveva nascosti con Sin era a qualche chilometro dal punto in cui si era svegliata.
Corse veloce, tentata di andare a quattro zampe per le reminiscenze di quella notte, ma si trattenne e continuò a correre sulle due gambe, scontrandosi dopo qualche minuto con Sin che, nudo, spuntò da un’altra direzione e la colpì da dietro.
«La devi smettere di rubarmi tutte le prede più succose!» protestò l’uomo, ridendo; Zever arricciò il naso e ghignò.
«Ti piacerebbe. Se non sei in grado di sfidarmi e prendertele da solo, allora non le meriti» ribatté, e Sin strinse gli occhi; restarono a fissarsi nella neve, nudi, mentre la loro pelle emanava letteralmente vapore; poi si baciarono con foga, quasi saltandosi addosso, e in breve fecero l’amore nella neve, incuranti del freddo. Subito dopo, entrambi si alzarono e, ridendo, si inseguirono fino al luogo in cui avevano lasciato i vestiti; con estrema riluttanza, se li infilarono: erano indispensabili se volevano tornare alla civiltà – non che lo volessero davvero.. era semplicemente loro dovere farlo – ed entrambi avevano bisogno di tornare a casa, a bere un caffè per eliminare la stanchezza della notte, nonostante il pasto caldo li avesse rinvigoriti.
Camminarono fino a casa, cercando di darsi un contegno e sistemandosi i vestiti a vicenda: Zever strinse la cravatta a Sin e gli pettinò i capelli color sabbia con una mano, nonostante le proteste; lui invece le abbottonò la camicetta, sorridendo canzonatorio, mentre si fingevano intirizziti e correvano dentro casa, che si trovava proprio al limitare della foresta. Afferrarono un cestino di funghi che avevano lasciato la sera prima sulla veranda e rientrarono in casa.
«Abbiamo raccolto i funghi! Oggi a cena si mangia italiano» annunciò Zever, posando pesantemente il cestino sul tavolo; i suoi quattro occupanti, con gli occhi gonfi di sonno e le teste ciondolanti, li guardarono irritati.
«È l’alba.. vi siete alzati prestissimo!» protestò uno, trattenendo uno sbadiglio.
«Avete l’aria di chi non ha dormito affatto» ridacchiò Sin, versandosi una tazza di caffè e osservando i quattro coinquilini con un sorriso sardonico.
«E voi avete l’aria di chi…» cercò di ribattere un altro ragazzo, ma poi evidentemente ci rinunciò, perché il pensiero era troppo difficile da articolare. «Comunque, ci hanno tenuti svegli i lupi».
Zever e Sin si scambiarono un’occhiata, e Zever si mise a pulire i funghi nel lavandino, tagliando loro la parte finale piena di terreno, mentre chiedeva.
«Lupi?».
«Sì, non li avete sentiti ululare?».
«Forse sognavamo cose troppo belle, per sentire i lupi» ghignò Sin, e si attirò le occhiatacce da parte di almeno tre dei quattro studenti.
«Tre studenti su quattro concordano sul fatto che sei un’idiota» ribatté Zever, sforzandosi di arrossire per far risultare evidente che stavano facendo altro quella notte, ma pur sempre a casa: nessuno doveva minimamente sospettare che erano stati fuori, o che avevano ucciso un padre con la figlia in campeggio.
I tre ragazzi se ne fregarono altamente, ma ora almeno Zever e Sin avevano un alibi.
«Beh, è stato un piacere.. io vado a farmi una doccia: fra un’ora devo essere a lavoro».
Sin posò la tazza vuota sul lavabo e riempì il collo di Zever di piccoli baci, mentre lei rabbrividiva e sorrideva istintivamente; poi uscì dalla stanza e la donna rimase con i quattro coinquilini che discutevano di particelle elementari e altri argomenti del loro corso di studi; l’università in cui studiavano era in una cittadina minuscola del Canada, e Zever sospettava che avessero costruito prima l’università e poi le case, dal momento che gli abitanti del luogo erano rari e che il 90% della gente che circolava nella città era composto da studenti. Lei e Sin si erano trasferiti lì nemmeno cinque anni prima, cambiando documenti e storia: dal momento che non invecchiavano, erano costretti a viaggiare spesso; e dato che entrambi lavoravano per il Governo U.S.A., i soldi non mancavano a nessuno.
Il Canada era il paese in cui era nata Zever: era nata nel 1807, e in quel momento erano nel 2007… a ragion di logica lei avrebbe dovuto avere duecento anni tondi, e invece si ritrovava ad averne vissuti più di duemila: viaggiando da un mondo all’altro, aveva vissuto in diversi contesti ed epoche – addirittura tornando in un mondo simile al proprio, in cui era stata osannata come maga che poteva prevedere il futuro, dal momento che sapeva tutto ciò che era accaduto nei decenni fra il 1980 e il 2010.
Per cui, tornando in un mondo la cui storia era all’anno 2007, Zever si ritrovava ad avere quasi tremila anni, vissuti fra un’avventura e l’altra… sempre meglio di Sin, che era piuttosto vecchio persino per lei: ottomila anni, vissuti dalle Ziqurrat agli iPhone, pur viaggiando fra i mondi come lei; Sin era nato nell’antica Babilonia e, da quando era stato morso da uno dei lupi di Licaone a ventiquattro anni, in uno dei suoi viaggi in Grecia, si era fatto adorare come divinità in Mesopotamia, Egitto e Turchia, viaggiando per farsi adorare continuamente da popoli diversi; questo aveva accresciuto enormemente il suo ego e, quando il Cristianesimo si era diffuso, Sin era fuggito in America, dove ancora lo avevano adorato come un dio per un’altro millennio, fino alla conquista dei suoi popoli – che pure aveva difeso con tutte le proprie forze. Erano però circa sei o sette secoli che Sin manteneva un profilo basso, ed erano trascorsi circa tre secoli dal momento in cui si erano incontrati.
Zever posò l’ultimo fungo nella zuppiera e sospirò, voltandosi: dei quattro studenti che ospitavano, tre erano già saliti, mentre il ragazzino gracile con i capelli neri e la maglietta con il teschio era rimasto davanti alla tazza di caffè, stropicciandosi gli occhi.
«Will, hai bisogno di qualcosa? Vuoi qualche biscotto?».
«Eh? Ah, no… stavo per salire a lavarmi» mormorò lui, trattenendo uno sbadiglio.
Zever sorrise e lo lasciò solo: si rimboccò le maniche della camicia a quadri – da vera boscaiola, insomma – e uscì a prendere la legna: accese in fretta il camino, dato che la casa era fredda e il fiato si condensava. Sin scese poco dopo, e uscì mandandole un bacio. Zever sorrise, senza presentimenti di alcun tipo: era solo vita, normale e piacevole, quella che a lungo aveva desiderato senza mai trovarla.

Quando Sin tornò, tuttavia, qualcosa di incrinò: Zever lo vide parlare con una ragazza dai capelli neri, fisicamente molto simile a lei stessa; i capelli neri e ricci le scendevano in morbidi boccoli sul aero, e Zever si toccò i capelli: non erano morbidi, solo neri e ricci. Da quella distanza non era sicura del colore degli occhi, ma sembravano azzurri, o verdi; le sue dita viaggiarono automaticamente agli occhi, come se al tatto potesse sentirne il colore, che sapeva essere di un amorfo e cangiante grigio-verde. La pelle era pallida e la ragazza era più bassa di Sin, proprio come lei; Zever sentì un nodo stringerle lo stomaco, mentre si sentiva lentamente sprofondare nel pavimento ogni secondo in più che Sin passava a parlare con la ragazza. Il suo istinto le diceva di balzare addosso a quella insignificante umana e sbranarla davanti agli occhi del licantropo, e poco importava che in quel momento fosse in forma umana; chiuse gli occhi, contando fino a dieci con disperata lentezza: se quando avesse finito Sin stava ancora parlando con lei, sarebbe andata lì e avrebbe morso il culo a quella ragazzina.
Riaprì gli occhi con lentezza e vide Sin che ritornava lentamente a casa.
“Non ti girare. Ti prego”.
La ragazza si avviò e Sin si girò a guardarla; rimase fermo per un istante, poi entrò velocemente in casa. Zever rimase a fissarlo e lui la notò solo dopo aver appeso il cappotto.
«Zever» disse, e sembrava sorpreso.
«Sin» senza rendersene conto, la sua voce vibrava di una rabbia terribile e alimentata dalla gelosia, ed era una voce pericolosa, per niente emotiva. Lui se ne accorse, perché assunse un atteggiamento difensivo, e Zever poté quasi immaginarlo in forma di lupo, con le orecchie all’indietro e il corpo teso, pronto a scattare per difendersi.
«Chi diavolo era quella?» ringhiò lei, e Sin sussultò.
«May?» sbatté le palpebre, poi sorrise. «Era solo un’amica, Zever! Una collega!».
«Una collega!» ringhiò lei, dandogli un pugno sul petto; nonostante avesse la forza di un licantropo, non riuscì che a far barcollare l’uomo, che in quanto a forza bruta era molto più capace di lei. Lui la osservò, curioso, e lei gli diede un morso al braccio che lo fece sussultare; eppure ancora non reagì, guardandola confuso, e lei ringhiò frustrata.
«Perché diavolo non ribatti? Perché non reagisci?» lo aggredì lei, e sul viso gli balenò un sorriso.
«Perché è divertente guardarti mentre ti accanisci su di me. Io non ho la minima voglia di litigare con te».
«Hai forse voglia, quindi, di essere ucciso da me?» ringhiò lei, e stavolta gli diede un pugno che lo fece piegare in due, tenendosi la pancia.
«Stai esagerando».
«Tu mi stai rimpiazzando, come hai rimpiazzato tutte le donne del tuo harem con me».
«Le donne del mio harem le avevo perché cercavo te» ribatté lui, con una smorfia di dolore.
«Tutte scuse» ribatté, irritata, sentendosi il viso in fiamme dalla rabbia. «A te le donne piacciono tutte uguali: ricce, brune, con gli occhi chiari, più basse di te, e formose. E ogni volta che ne vedi una che corrisponde al tuo tipo, le corteggi e te la porti a letto» disse, secca, sentendosi usata. Sin sorrise e le prese il viso fra le mani.
«Zever. Io ti amo. Che May possa essere carina non c’è dubbio. Che me la farei è al di fuori di alcun dubbio. Ma che io sia disposto a perderti per farmi una ragazzina umana di vent’anni è davvero fuori discussione».
Zever lo guardò con gli occhi da gatta socchiusi, sospettosa e ferita, e si scostò dalla sua presa.
«Mi sento usata, e sostituita. Come un telefono rotto».
«Ti assicuro che non è così».
«Provamelo. Uccidila».
Sin si fermò, interdetto.
«Sei diventata pazza?».
«Stanotte è la terza ed ultima notte di luna piena… potresti darle appuntamento nel bosco».
«È solo una collega, Zever. Credi che accetterebbe l’invito di un semplice collega nel bosco in piena notte?» ironizzò lui, ma lei lo guardò con occhi così freddi e spietati che il licantropo rabbrividì: per quanto lui potesse essere forte e venerato ed amato, Zever era un’alfa. «Bene» mormorò, scuotendo il capo. «Ma questa cosa.. ti sta sfuggendo di mano».
«Non hai la minima idea di quanto io abbia sempre desiderato smettere di fuggire e fermarmi un attimo, trovare l’amore, fare dei figli ed amarli, eppure la mia vita è stata un continuo scappare da questo o quel governo, uccidere, nutrirmi, fare figli ed abbandonarli al proprio destino perché non provo alcun istinto o dovere nei loro confronti… sono una madre snaturata, sono madre perché partorisco, ma per me nulla cambia fra prima e dopo, non provo nulla per quei figli abbandonati. E invece con te.. insieme, nonostante questi istinti mi manchino, nonostante io non sappia fare la madre, abbiamo cresciuto più di dieci figli in tre secoli, ci siamo amati, e siamo stati insieme anche quando fuggivamo.. e per me quello non era fuggire. Dove ci sei tu, c’è casa mia. Senza di te mi sento braccata, in fuga, smarrita anche quando so perfettamente dove sono e chi sono. Senza di te mi sento.. me. Solo me» mormorò, parlando in fretta e a bassa voce, senza guardarlo minimamente. Sin rimase immobile, accettando di buon grado quell’improvvisa apertura, e l’abbracciò. Zever affondò il viso nel suo maglione tipicamente canadese, verde con delle alci e delle renne rampanti ricamate in bianco e grigio, che odorava di bosco e di Sin; nessuna lacrima bagnò le sue guance, ma una stanchezza senza pari penetrò nelle sue ossa.
«Dovremmo dormire» suggerì Sin, baciandole la testa. Zever chiuse gli occhi ed annuì.
«Senti.. lascia perdere, per quella ragazza» mormorò, staccandosi da lui e guardando la padella che fumava in cucina; l’aria si era notevolmente scaldata da quella mattina: il caminetto scoppiettava tranquillo in salotto, in cucina aleggiava odore di funghi porcini, e la casa era silenziosa.
«Sì, dovremmo dormire» concordò lei, distrattamente, dirigendosi di sopra. Sin la seguì e si stesero l’uno accanto all’altra, abbracciandosi sotto le coperte vestiti; e, pur immersa nel suo odore, Zever non poté fare a meno di sentirsi tradita, usata, vuota, sostituita.
   
 
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