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Autore: Mimi18    25/11/2008    15 recensioni
Di tre cose ero del tutto certa.
Primo, Edward era un soldato americano che, se fosse stato necessario, avrebbe preso parte alla guerra, rischiando la sua vita.
Secondo, una parte di lui – chissà quale e quanto importante – era interessata a me.
Terzo, ero totalmente, incondizionatamente innamorata di lui.

Ancora una volta vi chiedo di cancellare tutto.
Tenete solamente Edward, Bella ed il loro amore.
[Spoiler Breaking Dawn sul finale]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Ho notato che ci sono davvero pochissime FF su Sasuke Uchiha e Ino Yamanaka

«Vedi, Bella, io sono sempre stato quel tipo di ragazzo. Nel mio mondo ero già un uomo.

Non ero in cerca dell’amore...no, ero troppo impaziente di arruolarmi: pensavo soltanto alla gloria idealizzata dalla guerra, quella che ci vendevano per convincerci ad entrare nell’esercito. Ma se avessi trovato...». S’interruppe e inclinò la testa. «Stavo per dire se avessi trovato qualcuno, ma non lo dirò. Se avessi trovato te, so come avrei agito, senza alcun dubbio. Io ero quel tipo di ragazzo che, non appena avesse scoperto che tu eri ciò che stava cercando, avrebbe chiesto la tua mano, in ginocchio. Ti avrei voluta ugualmente per l’eternità, anche se la parola non avrebbe avuto le stesse connotazioni di adesso.»

-         Edward Cullen a Bella Swan, Eclipse, capitolo 12, pag. 228 –

 

 

Dedicata a Zoe chan,

colei con cui parlo ore ed ore di Twilight. <3

 

Un’altra vita, la stessa storia

-         1917, Scapa Flow, Scozia –

 

Mimi18 ©

Stephenie Meyer ©

 

 

Osservai distrattamente il cielo nuvoloso al di là della finestra opaca, macchiata di gocce di fango, probabilmente sollevate dalle continue folate di vento che imperversavano i piccoli e rari spiazzi di terreno di Scapa Flow, baia situata nell’arcipelago delle isole Orcadi, in Scozia.

Sbattei le palpebre più volte, cercando di ignorare la pioggia che picchiettava insistente contro il tetto malridotto di casa.

Mi ero trasferita quindici anni prima da Chicago in quella piccola città, abbandonando un clima decisamente più caldo e più adatto a me per raggiungere mio padre, Charlie, ed iniziare a vivere con lui.

Mia madre, Reneè, era rimasta a Chicago insieme al suo nuovo compagno Phil; trovai che l’idea di andarmene per lasciare loro un po’ di privacy fosse una scusa ottima per allontanarmi da loro.

Phil era in gamba, ma sapevo benissimo di non poter vivere con lui. Avevamo due caratteri completamente opposti, quasi come quelli di Charlie e Reneè – che avevano fatto durare il loro matrimonio si e no sette anni – e idee troppo contrapposte per sopportarci in questo clima di guerriglia, soprattutto ora che l’America aveva deciso di prendere parte al conflitto.

Scapa Flow era un posto pericoloso, oltre che freddo: la base navale più grande della flotta britannica si trovava a due passi – figurativamente – da casa mia e, ogni tre per due, veniva attaccata da aeroplani tedeschi, nemici della Bretagna in questa guerra.

Charlie era un tenente e quindi capitava spesso che non fosse in casa durante il giorno ma che si trovasse proprio sul luogo dei numerosi attentati.

Passai decisa lo straccio bagnato sul ripiano sporco della cucina, ben attenta a ripulire i resti di sugo rimasto dopo il mio pasticcio – nel vero senso della parola – di carne.

Non ero una gran cuoca, ma Charlie era molto più imbranato di me e, essendo la donna di casa, la cucina era il mio regno.

L’orologio batté le sei meno un quarto quando finii di rassettare casa e mi stupii di averci messo così tanto: non che fossi un razzo – era parecchio imbranata -, ma solitamente finivo molto prima.

Afferrai con un gesto secco il lembo della lunga gonna in stoffa pesante che indossavo, in modo di agevolare i movimenti mentre mi dirigevo veloce fuori di casa, diretta verso il pollaio sul retro.

«Bella?!», sussultai sentendo la voce di mio padre chiamarmi a qualche ventina di metri di distanza. Correva a perdifiato, con le guance paffute che sbatacchiavano per la velocità e il sudore che imperlava la sua fronte: dietro di lui, un uomo dai capelli di un biondo quasi bianco e di una bellezza eterea lo seguiva senza il minimo sforzo, nonostante l’ingombrante valigetta di pelle che teneva fra le mani.

Inarcai teatralmente le sopracciglia interdetta, cercando di ricordare se Charlie, quella mattina, mi avesse accennato di ospiti per pranzo; l’unica cosa che mi venne in mente fu un “Ricordati di lavarmi la divisa, Bells”, quindi non mi sentii completamente in colpa quando furono di fronte a me. Ero certa che si trattasse di un invito improvvisato.

Inclinai educatamente il capo in segno di saluto. Mia madre mi aveva educato scrupolosamente quando abitavamo insieme a Chicago: il rispetto per una nuova conoscenza era tutto per lei.

L’uomo allungò una mano pallidissima verso di me, sorridendo cordialmente e ricambiando impercettibilmente il saluto.

«Carlisle Cullen. Piacere di conoscerti, Isabella». La prima cosa che pensai fu che ,oltre al viso, possedesse anche una voce stupenda, dal chiaro timbro e senza alcun accento. Non avrei mai saputo dire di primo impatto da dove provenisse.

«Il Dottor Cullen ha accettato il mio invito a cena, Bells. Che ci preparerai di buono?»

Se l’ospite fosse stato qualcuno di spiacevole avrei risposto con un mugugno insoddisfatto a quella domanda; invece il Dottor Cullen mi piaceva – e di solito non ero il tipo che gettava pareri come nulla -, quindi preparai volentieri lo stufato di carne per tutti e tre.

Non era nulla di speciale, lo sapevo bene, ma entrambi si complimentarono delle mie doti culinarie fino a farmi arrossire e voler nascondere il mio viso – pallido, su cui il rossore risaltava ancora di più – dietro le ciocche dei miei capelli color cioccolato, come mi capitava ogni qual volta mi trovavo in una situazione simile.

Ascoltai rapita le informazioni che il dottore e mio padre si scambiarono di fronte a me, quasi non fossi presente.

Parlavano di truppe alleare. America, forse?

Rabbrividii al pensiero di altri soldati in paese, ma con un po’ di ottimismo, pensai che con l’entrata in guerra dell’America tutto si sarebbe risolto al più presto.

Quando mi alzai di scatto, Charlie mi fissò con un sorriso.

«Si immagina, dottore? La mia Bella che s’innamora di un soldato americano!», esclamò con una risata, che contagiò anche Carlisle.

«Non dovrebbe sottovalutare il fascino degli yankee, sa?»

Io sorrisi divertita, lasciando perdere quella conversazione che mi riguardava da vicino, ben sicura che mio padre fosse in torto – come suo solito.

 

* *** *

 

 

Strinsi con maggiore forza la borsa di vimini fra le mie mani, prendendo fiato ed avanzando con lentezza lungo la strada acciottolata di Scapa Flow. Tenevo gli occhi ben piantati di fronte a me ed inciampai un paio di volte prima di arrivare di fronte alla bancarella della verdura. Solitamente era Charlie a ritorno dal lavoro che si fermava a fare la spesa, ma quella mattina, dopo essersi rimpinzato di muffin, mi aveva chiaramente detto che non l’avrei rivisto prima di mezzanotte, a causa dell’arrivo delle truppe americane.

Truppe americane significava una cosa: soldati. Soldati che non avrebbero rivisto le loro terre per non sapevo quanti anni.

Nessuno – me compresa – poteva immaginare quando sarebbe avvenuta la fine di quella Guerra che aveva portato un numero incalcolabile – almeno per me – di vittime.

Solo un mese e mezzo prima le truppe marine tedesche avevano affondato il transatlantico inglese Lusitania, ancorato nel porto di New York, provocando diverse migliaia di morti.

Charlie, quella sera, non era tornato a dormire. Per giorni era rimasto chiuso in un muto silenzio – più del solito, almeno, sconfitto dall’idea di aver perso un numero così vasto di popolazione, americana o inglese che fosse.

Era così che l’America aveva deciso di partecipare a questo massacro, schierandosi al fianco dell’Inghilterra.

Ed era così che si era giunti all’accordo di mandare truppe di sostegno agli eserciti inglesi, da quanto avevo appurato un paio di sere prima, durante la cena con il dottor Cullen.

Per quanto mi riguardava, provavo una certa avversione per i soldati inglesi: quando andavo in paese mi osservavano con uno sguardo orribile. Sorridevano ammiccanti nella mia direzione – o di qualunque donna che passasse di lì – urlando qualche complimento che di buono non aveva nulla, se non la volontà.

Avere soldati americani poteva essere sì un vantaggio per i britannici, ma sicuramente una dolorosa aggiunta ai già numerosi animali che ormai popolavano questa zona.

Per di più, sapevo per esperienza [mia madre, in tutta sincerità] che i soldati americani erano molto più rozzi di quelli inglesi. E più grossi; ma questo era solo un mio sciocco pensiero, che nasceva dai libri che avevo letto sulla guerra – libri di Charlie, perlopiù.

Velocizzai il passo quando arrivai di fronte alla locanda dove avevo visto spesso le divise blu dei soldati della marina inglese bere in compagnia. E non parlo solo di compagnia maschile.

Charlie mi aveva pregato pi volte di fare attenzione ed io non ero di certo disposta a negargli l’occasione di non preoccuparsi.

Bramavo casa come non mai, quando intravidi fra le figure vestite di blu alcune divise verdastre. Aumentai il basso e non ci fu mai errore oltre a questo che amai di più nella mia corta ed insulsa – almeno fino a quel momento – vita.

Come una scena vista più volte, inciampai in un sasso, forse messo apposta sul mio cammino dal destino che, per una volta, aveva deciso di baciare il mio capo.

Caddi in avanti, lasciando rovinare a terra la cesta in vimini che svuotò il suo contenuto facendo sporcare di terra l’insalata verde appena acquistata.

Io non raggiunsi mai il suolo come di solito facevo.

Due mani forti mi avevano afferrato il busto, tenendomi saldamente in piedi e al sicuro, lontana dal terreno fangoso che mi aveva sporcato le scarpe.

«Attenzione», disse la voce vellutata del mio salvatore dietro di me, con una nota maliziosa che non mi infastidì per nulla.

Ingoiai un boccone, prima di sollevare gli occhi su di lui. Sapevo già che non si trattava di un uomo qualsiasi, ancor prima di incrociare gli occhi d’ambra di quel giovane soldato americano che ruppe tutte le mie supposizioni sulla stazza degli yankee.

Volevo ringraziarlo, ma dalla mia gola fuoriuscì solamente un rantolo basso, più simile ad un ringhio che a quant’altro.

Lui ridacchiò di nuovo, notando le mie guance imporporate non solo a causa della nostra eccessiva – ma piacevolissima – vicinanza.

Mi lasciò andare con mia somma riluttanza, ma ciò mi permise di abbassare il volto e di poterlo ringraziare come si deve, visto che non lo vedevo negli occhi che mi avevano fatto perdere un battito. Battito che era inevitabilmente accelerato una volta che mi ero resa conto della totale situazione.

«Non si è fatta male, vero signorina?», scossi con forza il capo sempre con gli occhi piantati a terra, nonostante desiderassi con tutta me stessa rivedere il suo viso.

Mi azzardai ad un’occhiata furtiva e lui era lì, che mi fissava con un sorriso sghembo meraviglioso che fece martellare ulteriormente il mio cuore, già provato dal contatto delle sue braccia.

«No. Sto bene, credo», mi congratulai mentalmente con me stessa per non aver fatto tremare la voce come una qualsiasi ragazzetta dodicenne.

«Allora perché non solleva lo sguardo?»

Io sussultai. Non mi aspettavo di certo una domanda così diretta, soprattutto da uno sconosciuto qualsiasi, per l’altro soldato.

Poi avevo anche le guance arrossate. Sembrava quasi che quel colorito volesse persistere per tutto il resto della mia vita.

Tuttavia non resistetti. Ed incrociai il mio sguardo cioccolato al suo, unendo i nostri occhi. Sentire una scarica elettrica attraversare il mio corpo non mi stupì. Nemmeno desiderare ardentemente le sue mani intorno alla mia vita mi colse di sorpresa.

Sembrava uno di quei – come li chiamavano nei romanzi di Reneè? – colpi di fulmine.

«Decisamente meglio», sussurrò compiaciuto, passandosi una mano fra i capelli color bronzo; impressi quel gesto nella mia mente, come il sorriso sghembo di pochi attimi prima. Se non l’avrei più rivisto mi sarei beata di quel ricordo in eterno.

«Io sono Edward Masen, delle truppe americane. Ma credo che questo lei l’abbia già capito, signorina...?», aprii due volte la bocca, prima di riuscire a rispondere alla sua domanda: ero stupita che gli interessasse il nome di una che manco riusciva a spiccicare parola di fronte a lui.

«Bella Swan. Piacere di conoscerla», chinai il capo educatamente, facendolo sorridere [e facendo rimbalzare il mio cuore].

«Il piacere è solo mio, signorina Swan», s’inchinò leggermente, dimostrandosi molto più educato di tutti i vari soldati con cui avevo avuto a che fare da tre anni a quella parte.

Non fui stupita del fatto che il classico campanello d’allarme – che solitamente scattava in compagnia di un uomo in divisa – stesse facendo le fusa, in quel momento.

Edward Masen era decisamente una persona affascinante.

Oh, e bellissima.

«Bella andrà benissimo, signor Masen», sorrisi in sua direzione, sperando di non sfigurare di fronte a tanta bellezza.

Lui ricambiò simultaneamente, mostrandomi una fila di denti bianchissimi e splendenti.

«Allora andrà benissimo anche per me Edward, Bella», e sorrise di nuovo, mentre la mia mente esultò per quell’assurda possibilità da chiamarlo per nome.

Rimanemmo in silenzio per un periodo infinito, dopo quello scambio infimo di battute – infimo non per me, ovviamente – fino a che Edward non mi afferrò audacemente per un gomito, prendendomi con disinvoltura sottobraccio e conducendomi verso la locanda gremita di soldati di fronte a noi.

«Che ne pensa di farmi compagnia per il pranzo?», domandò con un’innocenza tale che non dubitai nemmeno per un secondo delle sue intenzioni.

Annuii docilmente, cercando di ignorare gli sguardi insistenti che i soldati premevano contro il mio petto ben coperto dalla stoffa pesante del mio corsetto bianco.

Edward sorrise, cingendomi la vita con un braccio e conducendomi all’interno di quel territorio che, accanto a lui, non aveva più nulla di infernale.

 

Rimasi stupita da quanto mi sentissi piacevolmente a mio agio accanto a lui, nonostante la titubanza iniziale.

Edward mi riempì di domande che, forse, fatte da un’altra persone mi sarebbero sembrate opportune per un primo incontro come quello; tuttavia, risposi con entusiasmo ad ogni sua curiosità, beandomi del suo viso di una bellezza assurda e del calore delle sue gambe sotto il tavolo, che sfioravano le mie.

«Sei americana?», domandò con stupore quando accennai al mio trasferimento. Annuii divertita dal suo stupore, che aumentò notevolmente quando dichiarai di essere originaria di Chicago proprio come lui.

Non sapevo perché, ma avere qualcosa in comune con lui mi fece piacere. O meglio, mi fece scaldare il cuore.

«Tuo padre è Charlie Swan?», domandò curioso, bevendo un sorso di birra dal boccale sotto il mio sguardo incuriosito.

Ovviamente, era ovvio che traesse delle conclusioni, visto che anche Charlie era come me americano. Non potevano esserci molti americani da quelle parti con il cognome Swan. Quello che mi stupì fu il suo acume.

Avevo già capito che si trattasse di un ragazzo intelligente, ma ne rimasi colpita.

«Già. Hai per caso avuto a che fare con lui?», domandai sorseggiando il mio thè caldo.

Edward annuì, sorridendo in mia direzione e facendomi arrossire.

«Si è occupato lui del nostro arrivo, poche ore fa. A quanto pare oggi era destino che venissi a conoscere tuo padre e te, Bella», adoravo il modo in cui pronunciava il mio nome, senza accenti ne sbavature relative alla pronuncia americana, diversa da quella inglese.

Io stessa i primi tempi avevo avuto non pochi problemi con la pronuncia differente. Era stato quello il motivo per cui Charlie aveva iniziato ad occuparsi della spesa.

Ringraziai con tutta me stessa Charlie che, involontariamente, aveva fatto avvenire quell’incontro.

Ridacchiai al pensiero di me che gli presentavo Edward, suo subordinato. Quest’ultimo, con sguardo incuriosito, mi domandò la causa di tanta ilarità e io risi ancora più forte.

 

* *** *

 

Edward venne regolarmente a farmi visita dopo quel pranzo passato insieme.

Parlavamo spesso del suo ruolo di soldato e il pensiero di dovermi separare da lui, un giorno, mi intristì più di quanto fosse lecito.

Andavamo d’accordo. O almeno, io la pensavo così, visto che i momenti trascorsi insieme a lui passavano veloci come un minuto, nonostante si trattassero di ore ed ore di conversazione.

Sembrava quasi che avessimo argomenti inesauribili. Diciotto anni di vita da raccontare. E non mi stancavo mai.

Non ero mai stanca di vedere il suo viso sulla soglia di casa mia, alle due puntualmente di ogni giorno. Non mi sfiorò nemmeno per un secondo l’idea di non voler più vedere il suo sorriso sghembo che tanto amavo.

Amavo la sua compagnia più di ogni altra cosa, in quei momenti.

Da quando era apparso, sembrava quasi che le giornate si fossero accorciate, che il tempo volasse senza motivo.

Mi ritrovai in estate che non me n’ero minimamente accorta; mi sentivo ancora in piena primavera...e non parlo solo della stagione.

Quel giorno Edward sarebbe rimasto a pranzo con me e Charlie. Con grande sollievo avevo scoperto che fra i due si era instaurata una sorta di reciproca stima, visto le capacità fuori dalla norma di Edward ed il grado di mio padre.

Inoltre, anche l’inaspettata amicizia fra il dottor Carlisle ed Edward aiutò a far crescere il rapporto fra lui e mio padre, che sembrava quasi convinto che fra di noi ci fosse qualcosa di più che una semplice amicizia.

Sapevo benissimo che Edward non poteva volere di più da una come me: ero una ragazza normalissima, quasi banale oserei dire, il cui unico punto di stono in questa normalità era la smania di inciampare su qualsiasi strada mettessi piede – ed Edward mi sgridava sempre, quando accadeva, accusandomi di non essere troppo accorta.

Edward ed io eravamo agli antipodi, almeno a livello fisico. Quando camminavamo l’uno accanto all’altra in paese notavo le occhiate bramose che le donne lanciavano audacemente sul suo viso, corpo, spalle, capelli. Lo mangiavano – letteralmente – con gli occhi.

E chi ero io per farlo innamorare? L’anonima figlia del tenente. Oh, sì. Un ruolo importante, nella vita di Edward. La figlia del capo.

Voci maligne avrebbero sicuramente detto che Edward passava le giornate in mia compagnia solo per ottenere una promozione.

Tuttavia quello era un punto di cui non mi preoccupavo: Charlie mi aveva chiaramente detto che Edward aveva rifiutato tutte le proposte di salire di grado con educazione.

Nonostante tutti questi pensieri ad affollarmi la mente, non potei fare a meno di sorridere quando lo vidi comparire svestito dell’anonima divisa militare per una camicia e dei pantaloni verdi sulla porta di casa, una bottiglia di vino rosso stretta fra le mani.

Arrossii contraccambiando il suo sorriso caloroso e facendolo entrare.

Mi stupii ancora una volta di quanto fosse semplice colloquiare con lui: perfino Charlie, poco incline alla conversazione – o meglio, meno incline di me – era a suo agio con lui.

Nonostante il loro principale argomento fosse la guerra che sembrava ormai agli sgoccioli, non mi annoiai nemmeno per un attimo e stetti ad osservare incantata ogni singola sfumatura del volto meraviglioso di Edward.

Ed in quel momento capii.

«Bella, ti senti bene?», sussultai trovandomi a pochi millimetri dal viso che poco prima aveva quasi bloccato il flusso circolatorio del mio sangue, rischiando di uccidermi.

Trovai – non so come – la forza di annuire e di accettare la mano che mi porgeva per recarci insieme in giardino, lasciando Charlie a riposare in pace sul divanetto del salottino.

Quando sfiorai la superficie liscia e vellutata del suo palmo il cuore accellerò e mi morsi un labbro, colpevole.

Di tre cose ero del tutto certa.

Primo, Edward era un soldato americano che, se fosse stato necessario, avrebbe preso parte alla guerra, rischiando la sua vita.

Secondo, una parte di lui – chissà quale e quanto importante – era interessata a me.

Terzo, ero totalmente, incondizionatamente innamorata di lui.

E, cosa peggiore, la cosa non mi preoccupava per nulla, nonostante il rischio di perderlo era tanto alto quanto era la probabilità che inciampassi lungo una strada piena di buche.

«Bella, desidero parlarti», disse ad un tratto, bloccandosi di fronte a me.

Io deglutii a fatica, tentando di respirare. Cosa alquanto difficile visto che Edward mi stava fissando intensamente negl’occhi.

«Certo...di che cosa?», avevo contato mentalmente fino a dieci prima di riuscire a spiccicare parola. Ed ero fiera di me.

Lo sentii prendere fiato e la cosa non mi piacque per nulla: Edward non aveva mai problemi a dirmi qualcosa, anche se si trattava di uno sterminio da parte di aerei tedeschi nella nostra Chicago, luogo in cui ancora soggiornava mia madre.

«Probabilmente Bella ti sembrerò un idiota a dirti queste cose senza che ti abbia lasciato intendere nulla, ma sappi che quello che sentirai sarà soltanto la verità». Ora iniziavo seriamente a preoccuparmi. Edward stava straparlando e non era sicuramente a causa del vino, visto che ne aveva bevuto si o no due bicchieri mezzi vuoti.

Tuttavia ogni dubbio sparì come neve al sole quando le sue mani avvolsero le mie, stringendole in una morsa ferrea da cui non avrei avuto via di fuga – ma tanto non avevo la minima intenzione di liberarmene.

«Bella, io sono un soldato, con stipendio precario e una vita appesa ad un filo. Tuttavia, non riesco ad allontanarmi da te, per quanto ci abbia provato. Da quanto ti ho vista la prima volta così imbranata mi sono subito affezionato a te, e quando ti ho conosciuto questo affetto non ha fatto che aumentare, fino a portarmi ad oggi», trattenni il fiato e quasi divenni blu, nonostante fossi sfacciatamente felice di quella piccola ed enorme al tempo stesso dichiarazione.

Lui accarezzò dolcemente il dorso della mia mano notando il mio sguardo e poi, con un gesto talmente veloce che mi fece venire un capogiro, s’inchinò di fronte a me, stupendomi.

«Bella Swan», proclamò con voce forte e chiara, nonostante fossi lì con le mani intrecciate a lui ad un centimetro o poco più del suo corpo,  «ti amo. Vuoi diventare mia moglie?»

E per poco non svenni.

M’inchinai di fronte a lui con le lacrime che pizzicavano dispettose i miei occhi già gonfi, pronte a sgorgare ed allagare quella baia che, nell’ultimo periodo, non mi era mai sembrata tanto bella.

Edward mi osservava in attesa, le sopracciglia bronzee inarcata in un gesto di dubbio.

Presi il coraggio a due mani e, con un gesto che non avrei mai più osato fare, lo baciai.

Sentii subito le labbra di Edward schiudersi per approfondire quell’inconfondibile risposta affermativa.

Mi afferrò la vita tirandomi sopra di lui, sdraiato sull’erba umida, senza interrompere il contatto fra le nostre labbra.

Rimasi piacevolmente stupita dalle sensazioni che quel primo bacio mi diede. Prima di Edward, non avevo mai sfiorato né violato le labbra di nessun uomo.

Tuttavia, sembrava quasi che le nostre bocche fossero all’unisono, oltre che incastrate alla perfezione. Come se le mie labbra fossero nate appositamente per rimanere appoggiate contro quelle di Edward.

Rotolammo con una risata, invertendo le posizioni.

Edward mi fissò dall’alto della sua posizione, accarezzando le mie guance.

«Adoro quando arrossisci», sussurrò, baciando nuovamente le mie labbra, per poi scivolare lungo il mio mento, il collo, il petto.

Appoggiò con delicatezza il suo orecchio all’altezza del mio cuore e capii che lo sentiva battere all’impazzata. Sollevò il volto su di me, sorridendo.

Ed in quel momento lo imitai piegando le mie labbra, ignorando le guance rosse a causa dell’imbarazzo ed allungando una mano, andando ad accarezzare il suo viso, i suoi zigomi, le sue labbra, i suoi capelli, il suo petto. Tutto ciò che era Edward passò sotto il tocco tremante delle mie dita, facendolo sospirare e chiudere gli occhi.

Bloccai la mano sul suo cuore, sentendolo battere all’impazzata quanto il mio e in quel momento seppi cosa dire. L’unica cosa che non avrebbe stonato in mezzo a quelle effusioni.

«Ti amo, Edward»

E di nuovo, le nostre labbra si unirono.

 

 

Canticchiai stonata una canzone, cullando fra le braccia quello che era il frutto del mio amore per Edward.

Da quel giorno sul prato erano passati due anni, la Prima Guerra Mondiale era finita.

Edward aveva abbandonato l’esercito per dedicarsi a me e Renesmee, la nostra bambina, suscitando svariate proteste dai superiori – escluso mio padre -, nonostante il suo viso non avesse mai visto un campo da guerra.

In un tacito accordo, avevamo deciso di trasferirci in un paesino situato nella penisola di Olympia, nel nordovest dello stato di Washington, Forks.

Un posto tranquillo, in cui solamente noi eravamo una novità, ma questo non dava fastidio né a me né ad Edward.

Sorrisi quando sentii le mani delicate di mio marito stringermi in vita, mentre il cuore accelerava di un battito, come sempre.

«Si è addormentata?», domandò osservando la piccola di sottecchi.

Annuii impercettibile, posando dolcemente Renesmee nel suo lettino.

Edward le lanciò una mezza occhiata, prima di stringermi in un abbraccio.

«Ti amo», sussurrai al suo orecchio, perfettamente sicura che mi avesse udito.

«Anch’io, Bella. Ora e per tutto il tempo in cui vivremo.»

Mai parole sarebbero state più sincere.

 

 

* *** *

 

...*smile*

Occhei, sì. È un’idea assurda che mi frulla in testa dall’altra sera, quando mi sono soffermata per una decina di minuti sulla frase da cui questa Fic trae spunto.

Mi sono immaginata un’altra vita per Edward e Bella – quella che hanno vissuto nel libro è più che perfetta, nulla da obbiettare – in cui non lo vedevo come un vampiro, ma come l’essere umano di cui lui parla.

Ho cercato di mantenerli il più IC possibile, soprattutto Bella. E ho sempre cercato di mantenere quell’atmosfera romantica che c’è fra di loro, nelle scene zuccherose che spesso condividono lungo tutta la saga.

Io mi sono impegnata. Se vi piacerà almeno un po’ mi farà molto piacere.

Se non vi piacerà...bhè, vorrà dire che la prossima volta mi impegnerò di più – soprattutto sulla prima parte, che è esageratamente noiosa.

Mi sono divertita ad inserire qualche frase di Twilight – come quella introduttiva. Inoltre, l’ultima frase della parte in corsivo e una mia interpretazione della frase di introduzione. Non so se si nota. *smile*

 

Mimi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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