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Autore: Adeia Di Elferas    24/01/2015    10 recensioni
((Storia pubblicata in occasione della Giornata della Memoria - che sarà a breve))
In questa mia breve fanfiction ho cercato di descrivere quelli che potrebbero essere stati i pensieri di una giovane donna che si trova in un campo di lavoro, durante l'ultima fase della II guerra mondiale.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
- Questa storia fa parte della serie 'Prima, durante e dopo il il suono delle bombe'
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~~ Un solo momento di tranquillità. Cinque minuti in cui non devo stare attenta a quello che faccio. Solo non devo farmi vedere. Un momento solo, per non impazzire.
 Un passo dopo l'altro, eccomi qui. In questo punto, nessuno può vedermi. Basta non muoversi da qui. Ecco il mio momento di pace.
 Manca poco all'alba. Il mio respiro disegna nell'aria gelata una nuvola chiara. Un brivido di freddo. Mi stringo le braccia al petto. Sono magra, troppo. Come quando ero piccola. Sì, mi sembra di tornare bambina.
 Cerco di ricordarmi che giorno è. Sabato, ne sono quasi certa. Quando ero piccola, al sabato...
 Per un istante sento di nuovo il sapore della challah sulla lingua...
 Chiudo gli occhi e rivedo mio padre e mio zio che si legano con cura i tefillin al braccio e alle fronte per recitare lo shemà... Sono felici perchè anche questo sabato hanno radunato abbastanza uomini da raggiungere il minyan...
 E poi annuso l'aria e quello che percepisco non è il tepore dolce e fragrante dei kugel appena messi in tavola. Le mie orecchie non sentono più le risate e la gioia della prima sera di Hanukkah, quando tutta la famiglia era riunita e mia nonna, mentre noi bambini giocavamo con le trottoline, metteva in tavola, con orgoglio, le sue pampuches roventi, che erano il suo cavallo di battaglia.
 No.
 Sento solo l'odore gelido della neve.
 Sento solo il silenzio lasciato da un'altra notte di disperata e tacita agonia.
 Sento solo la paura di sapere che oggi potrebbe essere l'ultimo giorno.
 Apro gli occhi e davanti a me non c'è mio fratello che si sistema in testa la kippah per il sabato, facendola scivolare di lato e cedendo poi alla molettina per fissarla.
 No.
 Davanti a me c'è solo un reticolo di ferro cosparso di filo spinato. Ed oltre a quello: neve.
 Tra pochi minuti la giornata comincerà. Sotto le nubi pallide, il sole sta sorgendo.
 Deglutisco e sono scossa da un altro brivido. Questo non deve essere l'ultimo giorno. Devo resistere. Prima o poi questo inferno finirà. Non può durare in eterno. E io devo arrivare viva alla fine della follia.
 Per prima cosa, devo superare la selezione di oggi. Come ogni giorno.
 Prendo con cautela lo spillo che ho nascosto dentro la manica e mi pungo il dito tre volte. Ormai ci sono così abituata che non mi fa nemmeno più male. È un piccolo fastidio che mi rende un grande servigio.
 Aspetto che la goccia di sangue si formi sul polpastrello e quando è pronta, inizio a spalmarmi il sangue sulle guance.
 Guance rosee per loro è sinonimo di buona salute, di forza fisica, di utilità. Finché sarò loro utile, non mi uccideranno.
 Quando sono certa di aver colorito in modo credibile entrambe le gote, premo il dito contro la neve in terra e il sangue smette subito di uscire.
 Sistemo lo spillo laddove lo tengo da sempre, da quando quella ragazza mi aveva consigliato questo metodo, prima che venisse trasferita.
 Le mie narici si riempiono di un lieve odore di ferro. È odore di sangue e di neve. Guardo la macchiolina rossa che il mio dito ha lasciato sulla neve. In un impeto di curiosità, mi abbasso ad annusare.
 Che odore particolare, il sangue sulla neve...
 Prima che la sirena suoni, ritorno nella camerata, in attesa di eventi.

 Mentre corriamo, il soldato ci squadra con attenzione, per cercare le più deboli. Io guardo dritto davanti a me, cercando di tenere un buon ritmo. Devono capire che a loro servo, che posso ancora lavorare. Guardate che guance rosee che ho...!
 Passo davanti proprio al capo del campo che, agitando la mano guantata di nero grida alcuni numeri. C'è anche il mio. La prima volta mi ero spaventata a morte, mentre ora so che quelle che chiama così sono quelle che possono fermarsi e cominciare a lavorare.
 Io e altre dieci ci fermiamo, fingendo di non avere nemmeno il fiatone.
 Il tedesco ci illustra gli ordini della giornata e noi ascoltiamo in silenzio. Quando sta per lasciarci andare a lavorare, si sente l'altro soldato gridare.
 Una ragazza – una nuova – è caduta, scivolando sulla neve.
 Temo si sia fatta male. Si tiene una caviglia e piange. Vorrei chiudere gli occhi, perchè so cosa accadrà. Conosco quel soldato e so quanta poca pazienza ha.
 L'uomo guarda il suo superiore per una frazione di secondo, il tempo necessario per ricevere un tacito assenso.
 Mentre la ragazza ancora piange, un colpo di revolver riempie l'aria. E comincia a nevicare, proprio nello stesso istante.
 Quasi scocciato, mentre sotto alla testa della ragazza si allarga una chiazza di sangue scuro, il capo del campo indica me e un'altra e ci ordina di prendere il corpo e andarlo a mettere al suo posto.
 Non è la prima volta che mi usa per trasportare cadaveri. Cerco di darmi un contegno, perchè deve vedere che sono utile, che servo, che non possono disfarsi di me perchè sarei troppo difficile da rimpiazzare.
 Celere e precisa, vado subito accanto al corpo. Mentre io e l'altra solleviamo la ragazza senza vita da terra, le mie narici si riempiono con forza di quel sentore di ferro e freddo che ho sentito anche questa mattina prima dell'alba.
 Sì, è proprio un odore strano, l'odore del sangue sulla neve...

   
 
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