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Autore: Clarity__24    25/01/2015    1 recensioni
Dopo che l'arena dell'Edizione della memoria è stata distrutta e Peeta e Johanna sono stati prelevati con la forza e portati a Capitol City, cosa gli sarà successo? Cosa avranno provato mentre venivano torturati e depistati?
Il tutto raccontato degli occhi di Johanna Mason, la guerriera del distretto 7.
Genere: Fantasy, Suspence, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Johanna Mason, Peeta Mellark, Presidente Snow
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~~|| A Jump in the past || Johanna Mason || Capitol City || “They can’t hurt me” ||

Buio. Nient’altro che buio. Non ricordo niente di ciò che è successo.
Avverto delle voci intorno a me. Sono confuse, ovattate, ma parlano di me.
Poi, tutto nella mia mente si fa più chiaro, come se finalmente i ricordi fossero ritornati a galla.
I giochi. L’arena. La mia vittoria. L’edizione della memoria. I ribelli. Katniss Everdeen. La pioggia di sangue. L’orologio. Il piano di Beetee. La ghiandaia imitatrice. Io, Johanna Mason, distretto 7, vincitrice della 71esima edizione degli Hunger Games. L’hovercraft. Io che cerco di ribellarmi. Di nuovo buio.
Tic Tac.
Tic Tac.
Tic Tac.
Infine, un ago nel mio braccio.


Mi sveglio di soprassalto, accecata da una luce bianca che mi viene sparata negli occhi. Ancora quelle voci, stavolta più nitide, che discutono.
Ho pochissimi secondi per capire dove mi trovo ed il perché sono qui, e magari escogitare un piano di fuga.
Appena quella luce si affievolisce e i miei occhi si abituano al nuovo livello di luminosità presente, vedo che mi trovo in una stanza dalle pareti bianche e il pavimento ricoperto di specchi. Tre persone stanno parlando animatamente poco lontano da me.
Dove mi trovo? E cosa è successo nell’arena?
Gli ultimi minuti dei giochi, prima che venissi prelevata da quel posto sembrano essere stati cancellati dalla mia memoria.
Ho la testa che mi martella. Cerco di toccarmi la tempia destra con una mano, ma non riesco a muoverla. Sono immobilizzata su un letto, polsi e caviglie legati.
Non sopporto di essere tenuta incatenata, lo odio con tutto il cuore. Sono come un animale selvatico: non posso restare imprigionata senza cercare di scappare.
Mi agito sul letto, urlo, cerco di liberarmi, anche se forse è impossibile.

-Liberatemi! Bastardi non sapete con chi avete a che fare!-

Grido contro quelle tre figure che ora sono slanciate su di me e che inutilmente cercano di tenermi ferma.

-Chiamate i Pacificatori. È ingestibile, quella del 7.-

Cosa? Pacificatori? Quegli idioti provenienti dal distretto 2 non saranno di certo in grado di sottomettermi! Forse mi sbaglio …
La porta della stanza si apre con una forte spinta e un paio di quei deficienti che con la loro uniforme potrebbero mimetizzarsi benissimo con le pareti, si riversano al suo interno e si scagliano immediatamente sul mio corpo che cerca disperatamente di sottrarsi alle catene.
Mi bloccano i polsi, le gambe e la testa al letto, mentre le mie urla continuano a rimbombare nella stanza non più vuota.
Quei tre tipi ordinano ai Pacificatori di tenermi ferma fino a quando la morfina non avrebbe fatto effetto.
Cerco ancora una volta di ribellarmi, ma sono più forti di me.
Avverto come una sensazione fastidiosa al collo, prima un po’ di dolore che si tramuta presto in un fuoco incandescente che divulga in tutto il mio corpo.
Lancio un ultimo grido soffocato prima di perdere del tutto i sensi.

--

Apro lentamente gli occhi, ancora col corpo intorpidito dalla morfina che scorre nelle mie vene.
Probabilmente hanno cercato di rendermi molto simile alla Morfaminomane del distretto 6 che ha partecipato all’Edizione della memoria a cui sono sopravvissuta.
Noto che non sono più in quella stanza dal bianco opprimente. Questa dev’essere una specie di cella.
È buio, l’aria è fredda e sento il forte odore di muffa proveniente dalle mura che mi invade i polmoni.
Tossisco più volte, prima di rabbrividire per il gelo.
Nonostante abbia addosso ancora la divisa dell’arena che, tecnicamente, non dovrebbe farmi avvertire il freddo, rabbrividisco.
Ha uno squarcio lungo tutto il fianco e sulla gamba, poco sopra al ginocchio.
Solo dopo qualche minuto mi rendo conto che, alla fine del corridoio fuori dalla mia cella, una voce abbastanza familiare che sta urlando contro qualcuno ed una seconda voce, di una calma e una di un a crudeltà innaturale, gli risponde di rimando.
Mi ci vuole ancora qualche secondo per captare con chiarezza tutte le parole che si stanno scambiando nella loro presunta “chiacchierata” e per riuscire a riconoscere la voce che mi sembrava familiare.
Ma certo! Sono stata una stupida a non capirlo immediatamente.
Con quella voce ho trascorso i miei ultimi giorni nell’arena. Mi sono persino alleata con lui e con la sua finta sposina per riuscire a sopravvivere all’arena progettata come un orologio.
Distretto 12. Peeta Mellark.
Forse sono stata l’unica a non credere a quel matrimonio e alla scusa del bambino di Katniss, insomma, non ci voleva di certo Beetee o Wiress per capire che quella ragazza stava raccontando una bugia madornale.
Lui invece sembrava fermamente convinto che tutte quelle balle che andavano propagandosi tra i capitolini fossero reali o che almeno in futuro avrebbero potuto realizzarsi seriamente.
Era seriamente innamorato della ragazza che avrebbe potuto centrarti in piena fronte da una freccia.
Non capisco nemmeno cosa ci trovi di bello in lei … 
Il fatto che non sia l’unica ad essere stata prelevata con la forza da quella tortura dovrebbe rassicurarmi, ma questo mi spinge solo ad essere più pessimista sul cosa ci avrebbero fatto in seguito.

“Sta solo sprecando fiato mio caro. Sbraitare contro di me non può fare altro che peggiorare la sua attuale situazione, Mellark. Purtroppo è qui per una ragione ben precisa e non sarà libero fino a quando non avremo ottenuto tutte le risposte che desideriamo da tempo da lei.”
“Non capisco nemmeno di cosa stia parlando! Non so niente di questi complotti di cui parla!”

Peeta sta urlando. Ha paura per avere una reazione del genere. Da quanto ho sentito nell’intervista lui è sempre calmo e calcolatore nel scegliere le parole da usare.

“Oh, si sbaglia, signor Mellark. Lei sa più cose di quel che crede. Ora, se gentilmente vuole rivelarmi quello che le ho chiesto …”

Non riconosco questa voce, ma probabilmente appartiene a qualcuno di davvero importante nell’ambiente capitolino.

“Ma se non so nemmeno cosa voglia! Io non so assolutamente nulla!”

Peeta, che diamine combini? Sembri me versione maschile adesso!

“Bene. Credo che presto cambierà idea. Pacificatori, avviate il mio piano.”

Quella voce fa una pausa, lasciando tutto il corridoio in silenzio e me col fiato sospeso.

“Dopo quello che ho in servo per lei sarà sicuramente felicissimo di confessarmi tutto.”

Sento Peeta gridare e di scatto mi alzo dall’angolo della mia cella in cui ero rimasta nascosta per tutto questo tempo e raggiungo l’uscita bloccata di quella stanza.
Tra le inferriate cerco di scorgere la figura del ragazzo dai capelli biondi, ma l’unica cosa che vedo è un Pacificatore che lo trascina via mentre lui si divincola, cercando inutilmente di sfuggire alla sua morsa d’acciaio.
Cosa gli faranno adesso? Come gli caveranno le informazioni che gli servono?
Poi quello che la voce dice mi fa venire la pelle d’oca.
Quel: “portatemi la ragazza” mi fa accelerare il battito del cuore e di conseguenza il respiro.
Cerco di calmarmi mentre sento i passi dell’altro Pacificatore che risuonano nel corridoio.
Con uno scatto apre la porta della cella e mi afferra per un braccio; continuo a divincolarmi nella sua presa ma con scarsi risultati.
Inizia a trascinarmi verso la fine del corridoio, da dove è arrivato Peeta scortato dal Pacificatore, o meglio, da dove è stato trascinato via, verso chissà quale tortura da infliggergli.
Tiro un calcio dietro al ginocchio della guardia, ma quella non si scompone minimamente e mi stringe il braccio con più forza.
Man mano che attraversiamo il corridoio sento uno strano odore che si fa sempre più forte e mi procura una sensazione di nausea. Dio, che odore nauseante! Non capisco di cosa si tratti. Sempre più forte l’odore e sempre più forte si fa il mio desiderio di fuggire.
Solo quando il Pacificatore apre la porta capisco tutto e le rose bianche poggiate sulla scrivania dinanzi a me confermano la mia ipotesi.
Sono a Capitol City. E di fronte a me mi ritrovo il presidente in persona, Coriolanus Snow.
E le rose bianche forse sono la mia condanna a morte.

--

-Lasciatemi! Lasciatemi andare ho detto!-
Le mie urla non servono a nulla per fermare la loro furia.
La mia conversazione col Presidente Snow è stata assolutamente identica a quella che ha avuto con Peeta, con la sola variante che io stavo per mettergli le mani al collo e stringere fino a quando la sua inutile vita si sarebbe arrestata, ma sono stata fermata dagli idioti dalle divise bianche.
Percorriamo di nuovo quel corridoio semi-illuminato alla stessa maniera dell’andata, cioè io che vengo trascinata lungo il pavimento.
Ogni tanto lancio delle occhiate alle celle e scorgo i visi di Peeta, con un occhio nero, Annie Cresta, la ragazza dai capelli scuri e gli occhi verdi come il mare, e persino Enobaria, la stronza del distretto 2 con i denti simili a quelli degli ibridi. Nutro una certa simpatia per quella ragazza, si si …
Mi trascinano verso una stanza completamente vuota e mi sbattono al suo interno, serrando poi a chiave la porta di acciaio.
Non vedo niente e sento solo dei rumori sinistri che provengono da sopra la mia testa.
Come posso liberarmi adesso? Sono bloccata e quei rumori non migliorano di certo la situazione.
La stanza trema leggermente ed io mi appoggio ad una parete per ristabilire il mio equilibrio.
La vibrazione è seguita dal rumore di un’esplosione che mi fa sobbalzare.
L’acqua inizia a riversarsi all’interno della stanza, salendo velocemente di livello. E a questo punto sento la paura impadronirsi del mio corpo.
Sta salendo velocemente. Troppo. Prima raggiunge le mie caviglie, poi le ginocchia, le cosce e supera la vita.
No no, non possono farmi morire affogata! Non riceverebbero le informazioni che vogliono, quindi i loro piani sono ben differenti.
L’acqua ha raggiunto le spalle e a quel punto succede qualcosa che non mi sarei mai aspettata.
Una scarica elettrica mi percorre il corpo, dalla testa fino alla punta dei piedi.

Un dolore insopportabile persino per una come me, che di dolore ne ha dovuto affrontare parecchio per tutta la sua vita e che ha dovuto lottare con le unghie e con i denti per la propria sopravvivenza.
Miliardi di puntini neri scoppiano davanti ai miei occhi, ma devo resistere. Ora capisco il perché mi abbiano quasi affogata nell’acqua. Conduce bene l’elettricità.
Non so per quanto duri quella scossa, ma le seguono almeno altre due più forti.
Avverto il sapore metallico del sangue in bocca e il sistema nervoso che inizia a subire dei danni.
Non gliela darò vinta. Sono -i o-  la vincitrice assoluta e loro non mi sottometteranno tanto facilmente.
Quando anche l’ultima scossa si assesta, l’acqua inizia a scorrere via dalla stanza, lasciandomi riversata sul pavimento bagnato, tremante e sotto shock.
Questa tortura andrà avanti ancora per molto visto che non crederanno alle mie parole e al fatto che in realtà non so quasi nulla del piano dei ribelli. Mi avranno vista togliere il localizzatore dal braccio di Katniss per essere sicuri di non commettere un errore.
Il mio corpo sobbalza per i residui di elettricità presenti nel mio corpo e che ancora intaccano il mio sistema nervoso.
Scosse. Convulsioni. Due mani che mi afferrano per le braccia e mi trascinano via da quella che potrebbe diventare il
luogo della mia morte.


--

Quanto tempo è passato ormai? Due settimane, penso. Due settimane in cui sono stata continuamente sottoposta all’elettro-shock in quella camera delle torture.
Ogni giorno è uguale ad un altro: mi svegliano con la forza, mi trascinano dal Presidente per farmi parlare e quando vedono che non espongo parola ritornano a torturarmi. Dopotutto provano divertimento in questo genere di cose.
Passo tutto il giorno sdraiata sul pavimento della mia cella, tremante come una foglia per il freddo e per i traumi.
Il mio corpo ora è fragile, ricoperto di lividi e cicatrici, che però non segnano una vittoria nell’arena. Sono il segno della mia sconfitta definitiva. La ragazza del distretto 7, quella che si è finta indifesa per la maggior parte della sua edizione per poi trasformarsi in un’esperta assassina è stata sconfitta dalla sete di potere di un uomo, il quale ha nelle mani il mio destino.
Siamo solo creature stupide ed incostanti con la memoria corta ed un grandissimo talento per l’autodistruzione, ma siamo persino più talentuosi nel distruggere gli altri.
Cosa si prova nel far soffrire con tanta atrocità le persone senza provare nemmeno un minimo di compassione? Eppure sembra quasi che mi rispecchi perfettamente in questa descrizione, anche se io ho ucciso solo per sopravvivere e non per il semplice gusto di farlo e di sentirmi potente.
In questo momento vorrei davvero salutare definitivamente questa vita e porre fine alle mie sofferenze, ma so che sono solo la causa del divertimento altrui.
Ora sento le grida di Peeta. Non sono ancora riuscita a capire cosa gli abbiano e gli stiano facendo di tanto meschino e doloroso. La sua sarà stata peggiore della mia tortura?
Solo ora mi rendo conto di quanto in realtà io sia debole ed incapace di ribellarmi con forza e determinazione.
Mi porto le ginocchia al petto e le circondo con le braccia, appoggiandomi con la schiena alla parete umida della cella, dal quale filtra qualche goccia di pioggia.
Con un dito sottile sfioro un grosso livido violaceo sulla mia coscia nuda, provocatomi dalle scariche elettriche che mi hanno inflitto in queste ultime settimane.
Tremo ancora.
Il mio sguardo invece è fisso sul pavimento. Voglio scomparire dalla faccia della terra, immediatamente. Non posso resistere un minuto di più.
Mi porto le mani verso la nuca e affondo le dita tra i capelli scuri, appoggiando la testa alle ginocchia.
Che senso ha vivere se ogni giorno deve essere una sofferenza? Insomma, non è bastato tutto il dolore che ha caratterizzato la mia intera esistenza? Non mi basta il fatto che se pure morissi qui, a causa dei danni al mio corpo, non ci sarebbe nessuno là fuori che piangerebbe per la mia scomparsa? Neppure quattro anni fa c’era qualcuno a me familiare nel mio distretto che aveva atteso con ansia il mio ritorno dai giochi.
Sospiro e stringo alcune ciocche di capelli tra le mani pallidissime. Le faccio scendere lentamente sul mio ventre e con loro portano anche quelle ciocche castane che prima erano strette nella mia presa.
Un altro effetto delle scosse, purtroppo.
Lascio che i capelli si stacchino uno ad uno dalla mia nuca, fino a ritrovarmi con degli spazi completamente vuoti tra la mia chioma.
Avevo detto che nessuno poteva infliggermi del dolore, perché lo mascheravo sotto una corazza di acciaio, ma pochissime persone sono riuscite a sciogliere la mia protezione dal mondo esterno, facendo risaltare il mio lato debole e sofferente.
Mi sbaglio. Come ogni singola volta, anche ora ho commesso un errore a sopravvalutarmi. E queste sono le conseguenze.
Forse questa sarà la prima ed ultima volta che una lacrima bagnerà le mie guance livide.

   
 
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