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Autore: AlessiaDettaAlex    28/01/2015    6 recensioni
Che i trentaquattresimi Hunger Games abbiano inizio!
Alyss Knight si è offerta volontaria alla mietitura per proteggere Laree Amberdeen, la ragazza che ama. Ma, oltre a sopravvivere all'arena, ha un altro obiettivo importante da adempiere: nascondere alle telecamere di Capitol City la sua relazione omosessuale con la giovane Laree, che potrebbe costare loro la vita a causa delle ferree leggi di Panem a riguardo.
[Capitolo 1]
«No!» grido con rabbia, «non lei!» tremo di terrore e di fatica, quando la raggiungo davanti al palco. «Mi offro volontaria come tributo al suo posto!». Non posso credere di averlo fatto sul serio. Un brivido mi corre lungo la schiena, di paura ed eccitazione insieme, nella consapevolezza che sto per morire. Sto per morire per lei.
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[Capitolo 4]
"Noi tributi siamo solo questo: gli agnelli più belli, giovani e forti del gregge, strappati dai propri compagni per attendere al sacrificio da tributare a dèi oscuri. E il nostro sangue bagnerà l’altare dei potenti, tra grida di giubilo e l’eco lontana del lamento degli ultimi, che piangeranno per lunghi secoli i loro figli."
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 8

Introduco subito il capitolo con ciò che vi avevo promesso lo scorso capitolo: i miei disegni sui tributi dei 34esimi Hunger Games!

E la prima, beh, non poteva che essere la nostra Alyss Knight, dal Distretto 6 (anche se in questo disegno fa un po' schifo, un giorno dovrò rifarlo)!





Siamo nel bel mezzo della stagione fredda. Gennaio è iniziato da poco e il distretto è completamente bianco. Ho portato Laree in uno spiazzale coperto da due grossi casolari abbandonati che ha alle spalle la recinzione elettrificata che ci protegge dagli animali selvatici dei boschi. Da circa un anno questo è un posticino che teniamo solo per noi. È praticamente impossibile vederci girare altra gente, soprattutto Pacificatori, perché per scovarlo devi addentrarti in uno dei due edifici e gattonare sotto una parete lacerata. Probabilmente una volta era un cortile da cui si accedeva solo internamente, con una porta che ora è crollata. Le prime volte non mi abbassavo mai a sufficienza e finivo per sbattere la testa o graffiarmi le spalle.
C’è almeno un metro di neve, ma non è molto fresca: ci si può camminare affondando al massimo fino alla caviglia.
«Perché mi hai trascinata qui? Spero per te che sia per un buon motivo, visto che ero finalmente riuscita a convincere River a fare un pupazzo di neve con me» mi rimbrotta Laree da dentro la sua giacca a vento blu scura, sistemandosi meglio sulle orecchie il cappello di lana grigia. Poi si mette le mani sui fianchi e fa una smorfia seccata. Avrà pure quasi diciott’anni ma sembra ancora una bambina. Senza parlare di suo fratello, poi, che dovrebbe averne ventitré e a volte è peggio di lei.
«Sì, è un buon motivo. Avevo bisogno di dirti una cosa con una certa urgenza e ora che ho finalmente trovato il coraggio non potevo lasciarti scappare!» il cuore mi accelera ad ogni parola e alla fine della frase non sento altro che il suo martellante battito.
Se questo doveva essere l’inizio di una dichiarazione, non comincio bene per niente.
Mi guarda, e la sua espressione cambia da estremamente sorpresa a un sorriso da so-cosa-stai-per-dirmi. Ma dubito fortemente che possa immaginarselo.
«Sono tutt’orecchie»
Infilo le mani infreddolite nella tasca del cappotto – che apparteneva a suo fratello, ma a un certo punto è diventato troppo piccolo per lui e troppo grande per lei – e distolgo lo sguardo buttandomi su qualcosa di meno impegnativo dei suoi occhi: la neve.
«Io… ecco, vedi…»
Ho provato e riprovato il discorso tutta la notte, non dovrebbe essere difficile ripeterlo.
«Tu… diciamo che… sì, insomma…»
Lo so, davvero, non posso essermi dimenticata tutto ora!
«Volevo dirti che siamo amiche da tanto tempo e…»
Ecco, Alyss, questo è il modo di iniziare un discorso. Non fermarti.
«Sbrigati a dirmelo, prima che possa cambiare idea e decidere di risponderti di no» mi interrompe lei, e io rimango senza parole. Torno a guardarla in faccia e la vedo radiosa, con un sorriso luminoso e gli occhi nocciola che brillano come non avevo mai visto prima.
Rimango incantata.
Allora sapeva davvero cosa stavo per dirle. Faccio due più due: e mi ha detto di sì!
Una palla di neve mi colpisce dritta in mezzo agli occhi.
«Allora? Hai perso la parola?» ridacchia lei, «Sto aspettando solo te!»
Sputacchio tirando via la neve col dorso della mano.
Mi ci voleva una raffreddata.
Riprendo il controllo della situazione e incateno il suo sguardo nel mio. Quasi grido, per farmi più coraggio:
«Ti amo!»
E per tutta risposta ricevo un’altra palla di neve in faccia. Lei ride, con la risata più bella che le abbia mai sentito fare.
«Anche io, Alyss!» grida anche lei, confidando che la neve attutisca le nostre parole.
In tutto ciò devo riconoscere una cosa: faccio schifo a dichiararmi.
 
***
Sono sulla pedana degli Hunger Games.
Manca un minuto all’inizio dei Giochi.
Solo stamattina ero a fare colazione al Centro di Addestramento con Layla, Roy, Julius e gli stilisti. Poi ci siamo separati. Roy ha pianto e Layla lo ha abbracciato. Julius mi ha supplicato perdono con gli occhi tristi e io sapevo che non ha colpe per quello che è successo ieri. Avrei voluto chiedergli scusa. Ma non l’ho fatto.
 
«Cinquanta secondi.»
 
Layla, prima che salissi sul’hovercraft, mi ha dato i suoi ultimi consigli.
Buttati nella cornucopia e cerca attrezzature utili.
Uccidi tu per prima se non vuoi essere uccisa.
Non fidarti dei beni di prima necessità troppo facili da ottenere.
Pensa come penserei io.
Cerca di uscirne viva.
E poi mi ha abbracciata.
 
«Quaranta secondi.»
 
Telluria, nella cabina di lancio, mi ha aiutata a infilarmi gli indumenti: una canottiera; un maglione con cappuccio beige di un tessuto leggerissimo ma che riduce al minimo la dispersione di calore; una giacca grigia senza maniche progettata per proteggere gli organi vitali da freddo eccessivo; dei comodi pantaloni verde militare impermeabili; un paio di scarponi da montagna dello stesso colore.
Poi mi ha guardata negli occhi.
«Sei impulsiva, poco femminile e antipatica. Ma vedi di usare il cervello nell’arena» e così mi ha lasciata andare.
Posso giurare di aver visto sulle sue labbra l’abbozzo di un sorriso e ha fatto un debole sospiro quando l’ho ringraziata.
 
«Trenta secondi.»
 
Penso a Laree, che starà sicuramente con gli occhi fissi sullo schermo di casa sua, il fiato sospeso.
Il vecchio Sirius si starà forzando a non a guardare, ma sono sicura che appena suonerà il gong non potrà fare a meno di cercarmi. In fondo sono stata la figlia che desiderava tanto, ma che non poteva avere a causa del suo lavoro.
Spero solo che entrambi distoglieranno lo sguardo in tempo se mi dovesse accadere qualcosa nel bagno di sangue.
 
«Venti secondi.»
 
Mi concentro sul paesaggio: la terra è brulla e intorno a noi ci sono solo picchi inaccessibili. È probabilmente l’altopiano di una montagna, il che mi fa supporre che da qualsiasi parte voglia andare, debba calarmi dai pendii.
La cornucopia davanti a noi è piena zeppa di zaini e armi di tutti i tipi. Strizzo gli occhi alla ricerca dei miei coltelli.
 
«Dieci secondi.»
 
Eccoli! Un cinturino di coltellini da lancio sta appoggiato a uno zaino bello gonfio. Non è proprio sulla mia linea d’aria, è spostato un po’ più a sinistra: ma ho le gambe lunghe, sono veloce.
 
«Cinque secondi.»
 
Molleggio un po’ le ginocchia, già atrofizzate dal freddo pungente.
Tre. Due. Uno.
Un cannone, del tutto simile a quello che indica la morte dei tributi, segna l’inizio dei Giochi.
Io sono già a metà a strada tra i piedistalli e il mio obiettivo, ed evito di guardarmi intorno per non distrarmi. Raggiungo appena in tempo il cinturino, perché un ragazzo mi travolge assestandomi una spallata nell’anca, facendomi rotolare a terra. È il momento: sfilo un coltello e lancio dritto al cuore. Gli occhi grigi del tributo del 12 si spengono per sempre mentre cade a terra e lascia lo zaino che avevo adocchiato. Lo prendo in spalla e sfilo il coltello dal corpo del cadavere, mettendolo da parte. Ho tutto: comincio a correre verso l’esterno dell’altopiano, ma qualcuno agita un machete nella mia direzione e io mi ritrovo con un braccio ferito e sanguinante prima che possa rendermene conto: mi volto e blocco con il braccio libero il polso con l’arma della ragazza che ho di fronte. Sono più forte, nonostante sia ferita, e la spingo a terra, piantandole subito dopo un coltello nel petto. Appena glielo sfilo sono costretta subito a rilanciarlo: due ragazzi stanno accorrendo nella mia direzione e la mia arma si conficca precisamente tra gli occhi del più vicino. Mentre l’altro si ferma per soccorrerlo.
Sono costretta a scappare, non posso permettermi di perdere altri coltelli, non prima di sapere a quanto ammonta la mia scorta. Colgo di sfuggita l’immagine di Roy difeso in battaglia da Gilbert, ma non ho tempo di realizzare il tutto a causa del dolore al braccio sinistro che mi ricorda che devo fuggire.
Raggiungo il confine visibile dell’altopiano, un valico tra due vette: è un burrone che si estende per svariati metri fino a una foresta di conifere, ma ci sono delle corde fissate che permettono la discesa. Senza esitazioni mi aggrappo a una di quelle e mi calo in fretta. Non sono nemmeno a metà strada che mi devo già fermare, per via del braccio che non riesce a sorreggere il mio peso. Mi accovaccio su una roccia sporgente e mi lascio sfuggire un gemito. I Giochi sono appena iniziati e io sono già ferita, perfetto.
Guardo in cima e mi sincero con sollievo di non essere seguita. Di fronte a me si spande una vallata immensa, che si lega tramite la foresta alla base della montagna. Alle pendici di questa mi sembra quasi di vedere il luccichio di un ruscello, ma non ne sono sicura.
Decido che è il momento di analizzare la mia ferita. Un taglio piuttosto lungo mi lacera la maglia dalla spalla al gomito, ma la ferita sottostante non sembra così grave: a quanto pare la ragazza mi ha colpita solo di striscio. Tiro un sospiro i sollievo e apro il mio zaino alla ricerca di qualcosa per tamponare il sangue. Trovo subito un rotolo di bende e ne strappo un pezzo per legarlo stretto al braccio. Richiudo il tutto con attenzione e riprendo a calarmi con la corda.
Sono passati dieci minuti quando finalmente la corda finisce e metto i piedi su un pendio meno ripido ed erboso. Il bosco è di fronte a me e non esito ad avventurarmici.
Dei colpi di cannone mi bloccano: il bagno di sangue dev’essere finito. Sono nove vittime. La mente torna all’ultima scena che ho visto, cioè Gilbert che si batte con un tributo per proteggere Roy. O almeno questo è quello che sembrava. Saranno ancora vivi? Roy sarà sopravvissuto? Odio non poter sapere nulla fino a stanotte.
Avanzo per le ore successive, facendomi largo tra le foglie basse con un coltello più grosso che ho reperito dallo zaino. La ferita sembra abbia smesso di sanguinare. Trovo un grosso abete, dalla cui base partono due tronchi un po’ deformi, ben coperti dagli aghi. Mi nascondo nell’incavo tra i due alberi e decido che questo sarà il mio rifugio. Adesso devo capire il numero esatto dei miei coltelli.
Mi sfilo in cinturino e conto le lame. Diciannove. Contando quello che ho perso lanciandolo contro i due ragazzi prima di andarmene erano venti. Sono stati parsimoniosi, vedo. E io dovrò esserlo ancora di più.
Lascio stare il mio arsenale e mi dedico al contenuto dello zaino: le bende, il coltello che sto usando, una borraccia piena d’acqua – immensa fortuna – e una coperta di lana.
Niente cibo. Questo è male, anche perché non ho il necessario per costruire una trappola.
Mi guardo intorno: non c’è neve, fortunatamente, non dovrebbe essere così difficile procurarsi qualcosa da mangiare. Che so, magari delle uova, considerato che non ho il necessario per cacciare.
Alzo lo sguardo tra i rami, per capire se ho qualche possibilità di arrampicarmi: fortunatamente gli abeti hanno rami molto bassi, per cui dovrebbe essere facile salirci. Lascio lo zaino in equilibrio e mi aggrappo alla corteccia per tirarmi su. Un ramo, due, ma il terzo si spezza e io mi irrigidisco all’improvviso.
Ti prego, dimmi che nessuno mi ha sentito.
Resto immobile, col fiato sospeso, cercando di cogliere il minimo rumore intorno a me che mi segnalasse l’avvicinarsi di un tributo dalle dubbie intenzioni.
Lascio trascorrere cinque minuti, prima di decidermi a muovermi.
Scendo. Decisamente sono troppo pesante per arrampicarmi. Non posso procurarmi cibo in questo modo e un brivido mi percorre la schiena. Potrei provare a tagliare la corda con la quale sono scesa dal dirupo per poter costruire un cappio semplice per piccoli mammiferi, ma significherebbe riavvicinarsi alla cornucopia – dove potrebbero esserci ancora tributi – e soprattutto intraprendere un viaggio di più ore, a giudicare da quanto ho camminato per arrivare fin qui. Non posso permettermi di muovermi finché non passa la prima notte, quando sarò sicura che gli altri concorrenti si saranno dispersi abbastanza. Per fortuna mi sono sforzata di fare una colazione abbondante.
Mi accovaccio meglio tra i due tronchi. Sistemo i rami intorno a me finché non sono sicura che le foglie non mi nascondano perfettamente ad osservatori esterni, poi comincio a mettere ordine nel mio zaino. Mi cambio le bende zuppe del sangue della ferita, stando attenta a non lasciare macchie, e organizzo la giornata di domani, sperando di sopravvivere alla notte. Appena mi sveglio dovrò mettermi in marcia verso le corde se non voglio morire di fame.
La sera arriva e il cielo si fa scuro. Finalmente sento partire l’inno di Panem. Mi affretto a trovare un buco tra la fitta chioma per poter conoscere i volti dei caduti.
Il primo ad apparire nel cielo dell’arena è il ragazzo del 3. Seguono i due tributi femminili del 5 e del 7, e sussulto: i favoriti sono tutti vivi, così come Coreen e Gilbert e anche Roy. Non sono sicura che questa sia una buona notizia, ma mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo nel pensare al piccoletto in vita, che sarà sicuramente nell’alleanza di Gilbert. Poi appaiono i volti di entrambi i tributi dell’8 e mi rendo conto che ho ucciso io il maschio, quando gli ho tirato il coltello tra gli occhi. Ecco infine i tributi dell’11 e del 12. La ragazza dell’11 è quella a cui ho piantato il coltello nel cuore quando cercava di rubarmi lo zaino. E poi c’è il ragazzo del 12: i miei occhi indugiano un attimo di troppo su quelli grigi di lui, che ho visto spegnersi davanti a me. Inevitabilmente la mia mente ritorna a quando ho avuto compassione di lui durante il primo pranzo in palestra, quando Gilbert lo rifiutò nell’alleanza. Lui è stato il motivo per cui ho deciso di non unirmi alla Gilda. Eppure è stato il primo che ho ucciso.
Ucciso.
Cerco di focalizzare l’esatto significato della parola, per la prima volta dall’inizio di questi Hunger Games.
L’ho ucciso io.
Sto scavando dentro di me per cercare il dolore che dovrei provare, ma non sento niente. Non sento assolutamente niente. Lui non ha più una vita, il suo corpo è un involucro senza respiro e tornerà nel suo distretto dentro una cassa di legno. Freddo e vuoto.
Freddo. Vuoto.
È ciò che provo io in questo momento. Chi sono io, che uccido senza provarne rimorso? La mia mente è permeata di immagini di morte, sangue. Ma quello che sento è solo freddo e vuoto.
Un brivido mi riscuote e mi rendo conto che adesso dovrei provare a dormire.
Tiro fuori la coperta, me l’avvolgo intorno e mi accuccio con la testa sopra lo zaino. Mi ci vuole un po’ per abituarmi alla temperatura sempre più bassa, ma fortunatamente la coperta aiuta e gli abiti che indosso sembrano davvero essere progettati per climi glaciali. Inoltre è così buio che dubito davvero che i tributi saranno un problema, anche se si mettessero a cercarmi. L’ansia della giornata mi crolla addosso e si trasforma in stanchezza nel momento esatto in cui chiudo gli occhi.
 
Un’insistente annusare si inserisce prima nei miei sogni, poi mi costringe alla realtà. Sbatto le palpebre più volte, ma quello che vedo continua a essere solo nero. Uno spiffero gelido mi sfiora la guancia. Devo aver dormito qualche ora, perché è ancora notte fonda.
Di nuovo quel suono. Spalanco gli occhi, realizzando che qualcuno – o qualcosa – sta annusando davvero l’aria tra le foglie dell’abete nella mia direzione. Improvvisamente sento uno stridio metallico, poi l’urlo lontano di qualcuno seguito da alcuni secondi di silenzio. Poi eccolo, il colpo di cannone. E un lungo, penetrante, lugubre ululato squarcia l’aria. A quel suono finalmente li vedo: due occhi gialli luminosissimi, sventrati al centro da una pupilla piccola e di forma allungata. Mi prende il panico e per non urlare mi ficco la mano in bocca, stringendo coi denti.
Cos’è, esattamente?
Non mi guarda, comunque. È voltato verso l’origine dell’ululato, e il continuo annusare si è trasformato in una specie di gorgoglio stridente. È un suono strano, è difficile descriverlo. È simile allo sferragliare dei treni al 6, ma più lungo e lamentoso. Ad ogni modo è raccapricciante. Cautamente allungo il braccio alla ricerca della spallina del mio zaino, per infilarmelo in spalla. La creatura si gira di scatto verso di me, riprendendo ad annusare. Se questo coso sente la paura, sono in grossi guai. Comincio a distinguere dei particolari man mano che i miei occhi si abituano alle tenebre: vedo un muso lungo, due orecchie appuntite, molto pelo. Direi con certezza disarmante che si tratta di un lupo, se non fosse veramente troppo grosso per un animale del genere. Ma qui si sta parlando di ibridi.
Ad un certo punto smette di odorare comincia a ringhiare, mostrando lunghe zanne bianche. Mi ha vista! Non so se è una grande idea, ma mi tiro giù dall’albero e fuggo via. Subito un ululato mi avverte che sono inseguita. Sono praticamente in trappola: per quanto possa essere veloce, non distanzierò mai un ibrido e non so arrampicarmi sugli alberi. Visto che sono morta in ogni caso, tanto vale andarsene con onore.
Mi fermo e mi volto, un attimo prima di vedere una grossa ombra nera dalle zanne bianche saltarmi addosso; scivolo a terra pestando una radice, ma rotolo sulla destra proprio nel momento in cui il lupo tocca terra. Mi rialzo al volo e afferro il coltello grande, indietreggiando un po’. L’ibrido mi localizza di nuovo, e scatta contro di me: aspetto fino all’ultimo secondo prima di abbassarmi e conficcargli la lama nel torace, per poi riprenderla in mano e allontanarmi velocemente. L’ho colpito!
Lo sento uggiolare e la sua sagoma si contorce nel tentativo di lenire il dolore. Poi emette un sonoro richiamo, così profondo da penetrarmi nelle ossa. Ed ecco che dietro di lui appare un branco intero di lupi.
Bella mossa, Knight.
Non ce la farò mai contro tutti questi. Sono praticamente morta. Già mi vedo, fredda e vuota come il ragazzo del 12, consegnata al Distretto 6 in una cassa dal vetro trasparente, magari direttamente a casa di Laree.
Laree.
Che mi vedrà morire brutalmente sbranata da decine di ibridi-lupo.
Laree.
A cui forse non rimarrà nemmeno il mio corpo da compiangere, perché fatto a pezzi da questi mostri.
Laree.
Devo vivere per lei. La vedo all’improvviso: il suo volto contratto in una smorfia di dolore, le lacrime che le scendono sulle guance mentre mi bacia, mentre mi costringe a promettere con uno sguardo che sarei tornata da lei.
Sbatto la schiena contro il tronco di un albero, mentre molti occhi gialli avanzano verso di me.
Non posso morire.
Getto uno sguardo alle mie spalle: l’albero ha una corteccia ruvida e segmentata, da cui sporgono corti rami spezzati. Se non so arrampicarmi, imparerò adesso.
Posiziono un piede e poi l’altro, mentre faccio leva con le braccia per sollevarmi. Raggiungo il metro proprio quando sento dei denti schioccare a vuoto a qualche centimetro dal mio polpaccio. Ho il cuore a mille e mi sforzo di più. La ferita al braccio riprende a sanguinare, sento il dolore farsi più acuto. Le mani graffiate rendono difficile la scalata e vorrei lasciarmi cadere per stendermi e riposare, ma non posso. Mi fermo solo quando penso di essere a un’altezza di sicurezza, e i ringhi sotto di me si affievoliscono. I muscoli bruciano come se qualcuno gli avesse dato fuoco, ma devo resistere. Vedo i colori chiari del crepuscolo apparire lontano, dietro una valle. Resto ferma. Immobile. Rimanere appesi è ancora più difficile che tirarsi su e non so quanto ancora resisterò. Spero se ne vadano via presto.
I lupi girano intorno all’albero per una mezzora ancora, ma quando il sole sorge corrono via. Sono esausta. Non mi sento più le braccia e ho paura di muovermi. Provo lentamente a tirarmi giù, ma il piede non risponde ai comandi e scivolo.
Un gemito sfiatato mi esce dalle labbra, al contatto col suolo. Provo a respirare ma non ci riesco, e stritolo la terra sotto di me con le mani, un dolore allucinante mi percorre tutto il corpo; apro e chiudo la bocca, ad occhi sbarrati, e penso che stavolta morirò per davvero, finché un filo d’aria non entra nei polmoni, e riprendo a respirare.
Credo di essere rimasta stesa a terra per un tempo lunghissimo a tentare di mandare giù aria, a cercare di sopravvivere. Ho la sensazione di essermi rotta qualcosa. Muovo a mala pena le braccia, ma le gambe si rifiutano di collaborare. Mi sforzo, cerco di far leva coi gomiti, ma la schiena non si raddrizza. E alla fine smetto di agitarmi. Forse sarebbe stato meglio se quei lupi mi avessero sbranata subito.

 
Note di me
Ccccciao.
Ci tenevo ad aprire questo capitolo con un momento di cesura nella storia di Alyss e Laree (la dichiarazione), perché quello che si apre nella storia principale è un altro grande momento di cesura: L'ARENA *zan zaaan zaaaaan*

E l'arena è una montagna! *grande fantasia* ed ecco Alyss alle prese con le prime crisi da uccisione. E gli ibridi. E le ferite. Insomma, devo dire che per essere solo il primo giorno ne ho fatte accadere tante D:
Comunque al momento sto strutturando i vari giorni nell'arena (non li avevo ancora chiari fino ad adesso, sì) e preparando un altro esame, pertanto non mi rivedrete prima ancora di una settimana (prevedo di pubblicare il 5 febbraio, se tutto va bene).
Fatemi sapere cosa pensate di questo primo capitolo nell'arena *-*
Alex
   
 
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