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Autore: Ortensia_    28/01/2015    3 recensioni
Io sono una persona e in quanto tale ho dei limiti.
Io sono uno scrittore e in quanto tale sarò giudicato per quello scrivo.

[...]
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro. E cosa rimarrà di me? Un foglio di carta e una penna.
[...]
Se credessi nell'esistenza del Diavolo, sono sicuro che i suoi occhi sarebbero questi.
[ Vincitrice del contest "Ripopola Fandom" indetto da __Bad Apple__ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Chihiro Mayuzumi, Kiseki No Sedai, Ogiwara Shigehiro, Seijuro Akashi
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gli occhi del Diavolo'
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Autore: Neu Preussen
Titolo: Gli occhi del Diavolo
Tipologia: yaoi; het
Generi: introspettivo; sentimentale; un pochino di angst (?)
Avvertimenti: AU; tematiche delicate; character!death (con un po' di splatter)
Note: //
Nda: lo ammetto: mi piace fare le cose in grande e probabilmente verrò picchiata per questo! ;3;
Siccome ritengo Mayuzumi un personaggio molto interessante, forse uno dei personaggi secondari meglio caratterizzati psicologicamente, ho deciso di scrivere questa centric su di lui. Ho questa headcanon di Mayuzumi come scrittore asociale che si rifugia in mondi di carta ed era un'idea che mi ronzava in testa da un po' di tempo, quindi ho deciso di approfittarne!
Spero soltanto di aver rispettato il più possibile l'IC, ugh.
E sicuramente dopo averla letta mi riterrai ufficialmente pazza.
Ah, una domanda! Una volta che mi avrai dato il permesso di pubblicarla, dovrò pubblicare tutti i capitoli in una volta oppure cominciare dal primo e pubblicarli a poco a poco?
Essendo un contest non ho idea di come debba fare! D:




Gli occhi del Diavolo





Capitolo I


‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



«Mayuzumi-san?» cinguetta serafica e si avvicina con estrema lentezza, alzo gli occhi verso di lei e mi soffermo in particolare sulle dita esili e pallide delle mani, sul libro che stringe e tiene premuto sul ventre.
Le mie labbra fremono d'impazienza, abbasso di nuovo lo sguardo e resto in silenzio.
«Mayuzumi-san, mia figlia adora i suoi libri!» annuncia entusiasta e mi porge il libro.
«L'ora degli autografi è finita, sono spiacente.» batto la punta della penna sulla carta e la guardo ancora una volta. Mi rendo conto soltanto adesso che è molto giovane e molto bella, ha una luce particolare negli occhi e un grande sorriso, come se stesse già pregustando la gioia della figlia una volta che le avrà restituito il libro con il mio autografo.
«Come si chiama sua figlia?» forse posso fare uno strappo alla regola. Per i bambini lo faccio sempre.
«Kyouko.» risponde immediatamente e amplia il sorriso.
Afferro il libro e prima di aprirlo do un'occhiata alla copertina, riconosco immediatamente che si tratta del mio secondo romanzo: La collina d'inverno.
Ho cominciato a scrivere a dodici anni, ho pubblicato il mio primo romanzo a diciassette e questo a diciannove, seguito da altri tre best seller. Adesso ho ventotto anni.
Faccio un rapido calcolo e mi sorprendo come sempre di scoprire che ormai scrivo da più di dieci anni, che il mio ingresso nel mondo della letteratura è avvenuto tanto tempo fa e che non sono più riuscito ad uscirne.
«Tenga.» concludo la dedica con la mia firma, chiudo il libro e lo restituisco alla donna: sono sempre troppo clemente con chi ha dei bambini, forse perché so cosa voglia dire rifugiarsi fin da piccoli nei mondi fatti di carta, forse perché è stata proprio mia madre a farmi amare la letteratura e le sono profondamente grato per questo.
«La ringrazio di cuore, Mayuzumi-san.» china il capo con un gesto di riverenza e si congeda, sfiorando ancora una volta le mie orecchie con la sua voce languida. Non riesco a risponderle e la guardo andare via, seguo il movimento lento delle sue anche, quello che per un istante mi pare lo stesso moto ondeggiante delle barche ferme nella baia.
Sono rimasto di nuovo solo.
Il silenzio ammanta la navata centrale della libreria e anche quelle laterali, chiudo gli occhi e inspiro profondamente: di cosa parlerà il mio prossimo romanzo? È ridicolo: ho firmato libri tutta la mattina ben conscio del mio successo, eppure non ho ancora uno straccio di idee per una nuova storia.
Torno a guardare la strada nella speranza di scorgere qualcosa di straordinario che possa ispirarmi, ma si sta facendo tardi e devo lasciare il posto ad uno scrittore emergente che arriverà a momenti.
Sospiro flebilmente e piego con estrema delicatezza la pila di fogli al centro della scrivania, li sistemo nel borsone assieme alla penna e mi alzo, dirigendomi in fretta all'uscita.
«Ikeda-san? Ti ringrazio.» chiamo la proprietaria della libreria e lei fa capolino dalla navata laterale. «È stato un piacere, Chihiro.» mi sorride e io ricambio: Ikeda-san è una delle poche persone con cui parlo volentieri e con le quali ho piacere di passare del tempo, era una grande amica di mia madre e mi conosce da quando ero piccolo, tutti i libri che ho letto fino ad ora li ho acquistati nella sua libreria.
«Ti saluto.» pronuncio con estrema calma mentre indosso il cappotto e lei risponde al mio congedo con un gesto energico della mano.
Appena metto piede fuori dalla libreria sento i muscoli delle braccia e del torace contrarsi, rattrappirsi, l'aria fredda mi sferza le guance e allora cerco rifugio al di là del bavero spesso del cappotto. Casa mia dista soltanto una decina di minuti da qui ed è ridicolo pensare che io l'abbia scelta soltanto perché si trova vicino alla libreria – il posto che frequento di più – e che quindi ci siano poche possibilità di incontrare qualcuno e di dover scambiare con lui qualche parola, ma è proprio questo il motivo.
Fuoco a mezzanotte.
La collina d'inverno.
Glicine.
Araba fenice.
Il canto delle sirene.

Ripeto mentalmente i titoli di tutti i miei romanzi, alla disperata ricerca di un elemento che possa essermi di ispirazione per il prossimo.
Detesto i momenti di blocco, detesto l'idea che un potenziale come il mio venga limitato dalla mancanza di idee.
È uno di quei momenti in cui tutto quello che penso mi pare terribilmente banale, noioso, in cui sembra che tutto sia già stato messo per iscritto.
Mia madre diceva sempre che i limiti li creiamo noi, aveva profonda fiducia nel genere umano ed era convinta che la volontà e la costanza fossero sufficienti per ottenere qualsiasi cosa: una visione affascinante, ma decisamente ingenua a parer mio.
Io sono una persona e in quanto tale ho dei limiti.
Io sono uno scrittore e in quanto tale sarò giudicato per quello scrivo.
Il Giappone è cambiato, il tempo in cui gli imperatori erano considerati esseri divini e i miei connazionali adoravano alcuni individui a prescindere dal loro operato è finito con la “Dichiarazione della natura umana dell'imperatore”, all'epoca di Hirohito.
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro. E cosa rimarrà di me? Un foglio di carta e una penna.
Le persone si ricorderanno di me quando sarò morto? Probabilmente no, io sono soltanto uno scrittore e anche se in questo momento sono molto apprezzato dalla critica non ho mai fatto nulla di così memorabile.
Io non sono perfetto, ma posso scrivere di una persona perfetta.
Sento un fremito percuotermi il petto, le labbra tremano e le palpebre si sollevano un poco di più. All'improvviso non mi importa più dell'aria fredda che mi brucia gli occhi, né dei pedoni che sbarrano la strada e limitano la mia velocità: voglio tornare a casa, ho un'idea e devo assolutamente scrivere, devo assolutamente creare il mio personaggio perfetto, devo dar vita all'imperatore. Anzi: imperatore, con la i maiuscola.
Un passo a destra, uno a sinistra, mi fermo un istante e sospiro spazientito, osservo meglio il crocchio di capelli brizzolati davanti a me finché non trovo uno spiraglio e finalmente riesco a superare la lentissima muraglia.
Sento di riuscire a trattenere a stento tutte le idee che mi scorrono davanti agli occhi e mi martellano la testa, ma allo stesso tempo sono profondamente rilassato, e questo perché la mia iniziale congettura sta cominciando a prendere una forma concreta nel mio immaginario ed è qualcosa di meraviglioso quando accade, è come se nutrissi un minuscolo embrione con le mie conoscenze, i miei ricordi, la mia esperienza e la mia fantasia ed è come se questo crescesse dentro di me e si preparasse a sbaragliare la concorrenza e a lasciare i miei lettori senza fiato.
Percorro gli ultimi metri che mi separano dal portone con le mani in tasca, alla disperata ricerca delle chiavi, mi avvento contro la serratura e varcata la soglia corro a chiamare l'ascensore.
Lui ha gli occhi rossi.
O forse dovrei optare per un colore naturale? No, perché dovrei? Ho scritto di sirene con gli occhi viola, posso scrivere anche di un imperatore con gli occhi rossi – dopotutto io stesso presento una colorazione innaturale per quanto riguarda i miei capelli –.
L'ascensore sta scendendo, è ormai questione di secondi, ma batto ugualmente la punta del piede a terra e sfrego i polpastrelli della mano sinistra contro il palmo, impaziente.
No, lui ha soltanto un occhio rosso, l'altro è … giallo?
Chiudo gli occhi per un istante e cerco di visualizzare i suoi occhi, ma le ante dell'ascensore si spalancano di fronte a me e perdo rovinosamente la concentrazione.
Entro immediatamente nell'ascensore e premo il pulsante su cui campeggia il numero quattro, chiudo di nuovo gli occhi e ascolto il flebile strofinio delle ante che si chiudono, poi, avvolto dal silenzio, ripenso ai suoi occhi e li trovo ardenti e vividi nell'oscurità cucita sotto le mie palpebre.
Dopo un breve e concitato scontro con la serratura della porta riesco finalmente ad entrare in casa, lascio il borsone a terra, mi tolgo il cappotto e lo getto sul divano, mi fiondo in camera e decido che resterò lì per almeno un'ora – il mio stomaco e la mia vescica possono aspettare, lui no –.
Immetto la password nel computer, apro un nuovo documento e comincio scrivere.
Non parlo del Giappone, ma descrivo un luogo molto simile, ci sono templi e pagode e cenere sui tetti rossi, alberi di ciliegio carichi di fiori – non voglio parlare della loro caducità e della loro associazione con la morte, ma desidero utilizzarli come metafora di bellezza estrema, veicolare, con la loro immagine, quella del mio imperatore –.
Il primo capitolo è introduttivo, stendo una descrizione dettagliata dell'ambiente e dell'epoca storica e soltanto alla fine comincio a parlare del mio imperatore senza nome.


― A destra un rubino, a sinistra un topazio. I suoi occhi erano gemme incastonate nel viso magro e bianco di un teschio, consumato dalla sua stessa bellezza armoniosa e selvatica.
I capelli erano color del sangue, le dita affusolate artigli nodosi stretti attorno all'orbe bianco che gli aveva lasciato sua madre.
Era l'uomo perfetto, eccelleva in ogni campo e non aveva compiuto mai alcun errore, era l'imperatore di una remota terra d'oriente, rispettato e temuto da ogni suddito, amato da poche donne in cerca di un animo carismatico che potesse riempire il loro, miseramente arido, odiato da tutti gli altri sovrani che, comparati a lui, avevano assistito all'inevitabile offuscamento della loro immagine.
Da qualche tempo era in cerca di moglie e aveva cominciato a rendersi conto che la perfezione aveva un prezzo. Non c'era donna del regno che fosse degna di lui, per cui i sovrani di alcune terre lontane gli avevano offerto le loro figlie nella speranza di celebrare un matrimonio che potesse portare loro ricchezza e prestigio, ma neppure le giovani principesse erano riuscite a conquistare il suo cuore.
Era l'unico essere perfetto sulla terra e aveva cominciato ad incappare nell'idea che sarebbe rimasto solo per il resto della vita, che nessuna donna sarebbe riuscita ad abbattere il suo cuore di pietra e ricostruirlo da capo, nuovo e migliore. Nessuna donna sarebbe mai riuscita a colmare il vuoto lasciato dalla morte prematura di sua madre. ―




Rileggo l'ultima parte e anche se non sono pienamente soddisfatto mi convinco che per ora può andar bene: magari la correggerò questa sera, oppure a lavoro finito. Meglio che vada in bagno adesso: la mia vescica si è stufata di aspettare.


Ho riletto un paio di volte il primo capitolo e l'ho perfezionato. Domani comincerò il secondo capitolo, ma immagino che la stesura richiederà molto più tempo di quello che ho impiegato per il primo.
Sono le ventitré passate e le mie palpebre pesano terribilmente, si abbassano e si risollevano in continuazione perché, non mi so spiegare il motivo, mi ostino ad osservare il soffitto, la sottile crepa illuminata dalla luce del lampione oltre le tapparelle – dovrei abbassarle, ma ho troppo sonno, la mia testa e le mie braccia pesano tonnellate e mi tengono inchiodato al materasso –.
Chiudo gli occhi, penso ai tetti rossi della pagoda ricoperti di cenere, ai lunghi e lisci capelli neri delle donne che hanno provato ad abbattere il cuore di pietra dell'imperatore e alla pelle di bronzo delle principesse provenienti da terre lontane. Addirittura mi torna in mente il sorriso della donna che questa mattina mi ha chiesto l'autografo per sua figlia, il movimento placido delle sue anche, proprio come quello delle barche cullate dai flutti fragorosi del mare.
Vedo gli occhi dell'imperatore, ardono e sfavillano di nuovo nell'oscurità cucita sotto le mie palpebre.
Non ha ancora un nome.
Qualcosa di freddo mi sfiora la guancia, scende rapido fino all'angolo delle labbra e sento un sussurro caldo all'orecchio.
All'improvviso la testa e le braccia non mi sembrano poi così pesanti e mi metto a sedere, toccandomi il viso e guardandomi intorno.
Devo dormire, sono così stanco che adesso sento anche le voci.
Deglutisco appena, mi inumidisco le labbra con la lingua e afferrò le lenzuola, ma il mio dito sfiora qualcosa di freddo e allora chino il capo per guardare.
Trattengo il fiato e aggrotto la fronte, afferrò un petalo fra le dita con estrema attenzione e lo sistemo nel palmo della mano sinistra: un fiore di ciliegio? Come ci è arrivato nel mio letto un fiore di ciliegio?
All'improvviso, però, riesco a ritrovare nella mia testa il ricordo del sussurro di poco fa e perdo completamente interesse per il fiore di ciliegio sul palmo della mia mano.
«Akashi …» pronuncio piano, presto attenzione al suono: sì, è questo che ho sentito.
«Akashi Seijuurou.»




L'angolino invisibile dell'autrice:

Nelle note autrice sopra (?) ho riportato ciò che ho inviato via mail a colei che ha indetto il concorso, mentre qui voglio ritagliarmi un piccolo spazio dove rivolgermi ai lettori.
Ho il vizio di complicarmi la vita e ho deciso di partecipare al contest provando qualcosa di nuovo, in prima persona. Inoltre ho voluto provare a scrivere qualcosa sulla scrittura stessa, quindi è molto importante per me che questo lavoro venga letto, perché credo sia la prima fanfiction seria e “matura” in cui mi cimento.
Chiunque voglia recensire sarà ben accolto, che il suo giudizio sia buono o meno. Sono molto felice di poter condividere questo lavoro, è la prima fanfiction che sono riuscita a terminare in meno di un mese ed è basata su un personaggio che amo moltissimo ma che nel fandom è abbastanza ignorato, quindi mi auguro che con questi dieci capitoli (sì, sono dieci capitoli e cercherò di aggiornare regolarmente!) possiate riservargli un occhio di riguardo!
Alla prossima!
   
 
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