Questa è la mia terza esibizione in una fanfiction di
Sherlock. In questo caso si tratta di una specie di ripetizione. Ho scritto la
prima fanfiction sull’entusiasmo della visione dell’ultima puntata della terza
stagione (3x03 “His Last Vow”), elucubrando su cosa potrebbe succedere dopo. La
storia che vi apprestate a leggere, tratta lo stesso identico argomento: cosa
potrebbe accadere con il rientro dall’esilio di Sherlock?
Naturalmente il racconto, per chi abbia visto tutte e tre le
stagioni, non contiene alcuno spoiler, perché io non ho accesso né alle menti
degli autori né ai copioni della serie BBC “Sherlock”.
I personaggi non mi appartengono minimamente essendo stati
inventati da Sir Arthur Conan Doyle ed utilizzati anche da altri autori
ufficiali. Il riferimento principale, per la trattazione dei personaggi di Sir
Doyle in questo racconto, è la serie della BBC “Sherlock” scritta da Steven
Moffat e Mark Gatiss.
Questo racconto non ha assolutamente scopo di lucro.
Se dovessero esserci riferimenti a idee e/o personaggi che
potrebbero essere stati utilizzati in altre fanfiction e, perciò, sembrare un
plagio, chiedo preventivamente scusa, ma sarebbe assolutamente involontario.
Grazie a chiunque decida di avventurarsi tra le prossime
righe e doppio grazie a chi decida di lasciare un commento, sempre gradito,
anche se piccolo piccolo.
La storia è praticamente già tutta scritta ed è divisa in
sei parti, quindi ci sarà un aggiornamento a settimana per le prossime cinque
settimane.
Non ho rimosso il precedente racconto (“Pure questo è
amore”) in quanto, sebbene le due storie prendano avvio dallo stesso momento della
fine della 3° stagione, si svolgono in modo completamente diverso.
Se qualcuno avesse letto la precedente versione della mia
personalissima “4° stagione” e si volesse fare molto male leggendo anche
questa, potrebbe persino dirmi quale delle due versioni preferisce! ;-)
Buona lettura.
L’aereo toccò il suolo inglese e rollò fino a raggiungere
l’auto che lo aspettava a bordo pista. Mycroft Holmes aspettò che il fratello
minore si affacciasse al portello e scese dall’auto con un gran sorriso stampato
sul volto. John e Mary Watson lo raggiunsero ed insieme attesero che il
consulente investigativo scendesse la scaletta. Nessuno disse una parola fino a
quando Sherlock non arrivò alla macchina del fratello e chiese:
“Che cosa è successo di così terribile da farmi tornare
dall’esilio in tutta fretta?”
Mycroft gli rispose con un mezzo sorriso:
“James Moriarty è tornato.”
Sherlock studiò l’espressione del fratello maggiore per
tentare di capire se stesse scherzando:
“Non hai abbastanza senso dell’umorismo per inventarti una
cosa del genere. – sentenziò infine – Sappiamo entrambi che Moriarty è morto,
quindi chi lo sta usando?”
Il sorriso di Mycroft si aprì completamente:
“È per scoprire chi ci sia dietro a questa apparizione di Moriarty
che sei stato riportato indietro, fratellino.”
“E quando lo avrà scoperto, sarà rispedito in esilio?”
chiese John.
“Se salverà l’Inghilterra, possibilmente senza uccidere
nessuno a sangue freddo, la sua condanna sarà revocata e potrà rimanere a
Londra ad investigare su tutti i casi che vorrà.” Rispose Mycroft.
Sherlock inarcò la bocca in un piccolo sorriso e guardò
dritto negli occhi azzurri di John:
“Visto, John? Il gioco non è finito: il gioco non finisce
mai, entrano solo in campo nuovi giocatori.”1
Segreti dal passato
Sherlock e Mycroft fecero il loro ingresso al 221B di Baker
Street e si diressero immediatamente nel salotto.
“È ancora tutto qui. – osservò Sherlock fissando il fratello
– Non è che ci sia tu, dietro a tutto questo.”
“Certo che non sono stato io! – ribatté quasi offeso Mycroft
– Non sono così sentimentale da organizzare una cosa come questa solo per
salvarti la vita, fratellino. Inoltre, ora ci saranno indagini approfondite e,
se si dovesse scoprire che sono stato io, tu saresti rispedito immediatamente
in esilio ed io perderei qualsiasi potere tu pensi che io abbia.”
“Oh. Giusto. – replicò acido Sherlock – Non faresti mai
nulla per perdere il tuo sacro potere di governo della regina.”
Il più giovane degli Holmes si avvicinò alla finestra, diede
un forte strettone alla tenda per aprirla e guardò in strada. Stavano passando
auto e persone indaffarate, tutte prese dai loro problemi ed assolutamente
indifferenti verso il resto del mondo. Stava per tornare a riprendere la
discussione con il fratello, quando notò un uomo, appoggiato al muro dall’altra
parte della strada, che fissava la porta del 221B. L’uomo era alto, atletico e
sembrava sul punto di scattare, come una tigre in attesa della preda, ma non
poteva vederne il volto, perché era nascosto dalla tesa di un cappellino.
“Hai messo qualcuno dei tuoi uomini a sorvegliare la casa?”
chiese a Mycroft.
“No. Non potevo sapere che saremmo tornati qui, quindi non
ho fatto mettere sotto controllo casa tua. Ti ricordo che tu dovresti essere su
un aereo, diretto in Europa dell’Est ed impegnato in una missione suicida. John,
invece, non abita più qui, ma in una bella casa, con la sua bella mogliettina
in attesa del loro primo figlioletto. Perché? Hai visto qualcosa di strano?”
“Figlioletta.” Lo corresse Sherlock, ignorando le domande
del fratello.
“Come?” chiese Mycroft, spiazzato dalla risposta.
Il giovane Holmes si girò verso il fratello e lo squadrò criticamente:
“Mycroft cominci a preoccuparmi. – disse infine – Stai
decisamente diventando molto lento. Forse la dieta ti fa male. Potrebbero
essere i chili in più ad agevolare i tuoi processi mentali. Ci hai mai pensato?”
Il maggiore degli Holmes gratificò il fratello minore con
un’occhiata minacciosa:
“Faccio ancora in tempo a spedirti in Europa dell’Est.”
Il sorriso di Sherlock si fece decisamente maligno:
“Non lo faresti mai. Non sapresti come risolvere il caso,
senza di me. E non puoi permetterti un fallimento.”
Mycroft sbuffò sonoramente. Sherlock riprese a studiare
l’uomo dall’altra parte della strada:
“È una bambina. La figlia di John.”
“Buon per John … e Mary. Spero che siano contenti. – ribatté
Mycroft con stizza – Potremmo tornare al nostro problema? Ti rammenti di
Moriarty, vero?”
“È morto.” Fu la risposta laconica di Sherlock.
“Lo so. – riprese Mycroft – Sono stati i miei uomini a
recuperarne il cadavere dal tetto del Bart, dopo il tuo tuffo. Tu hai
smantellato la sua organizzazione, girando il mondo per ben due anni!”
Sherlock distolse la sua attenzione dall’uomo per il tempo
necessario a fulminare il fratello:
“I tuoi uomini sarebbero ancora ad un decimo del lavoro che
ho fatto io in due anni!” esclamò piccato.
In quel momento, un taxi si fermò davanti al 221B e ne scese
John.
Sherlock ignorò la risposta di Mycroft, perché notò che
l’uomo dall’altra parte della strada si era fatto attento, si era staccato dal
muro avvicinandosi alla strada ed aveva iniziato a guardarsi intorno come se
volesse attraversarla.
John mise la chiave nella toppa.
L’uomo attraversò la strada.
La signora Hudson stava arrivando carica di sporte della
spesa.
John chiuse la porta ed iniziò a salire i gradini che
portavano al salotto.
L’uomo avvicinò la signora Hudson e si offrì di portarle la
spesa.
La signora Hudson accettò volentieri l’aiuto del giovane
aitante e gentile.
John fece il suo ingresso nel salotto e salutò i fratelli
Holmes.
L’uomo e la signora Hudson entrarono in casa.
“Ho lasciato Mary a casa. – stava dicendo John, rispondendo
al saluto di Mycroft – Era un po’ stanca ed ha preferito andare a riposare.”
Sherlock aveva smesso di guardare dalla finestra e si era concentrato
solo sui rumori che provenissero dall’interno della casa.
Qualcuno stava salendo le scale. E non era la signora
Hudson.
“Sherlock? – lo chiamò John – Mi hai sentito?”
Per tutta risposta, il più giovane degli Holmes con un balzo
si sedette sulla sua poltrona, accavallando le gambe, appoggiando i gomiti ai
braccioli e congiungendo le mani sotto il labbro inferiore, come se stesse pregando.
Un uomo sui quaranta anni, moro ed abbronzato, con profondi occhi neri ed un
berretto in mano, fece il suo ingresso nel salotto, attirando l’attenzione di
John e Mycroft.
Il dottore lo guardò
sorpreso e gli fece un grande sorriso:
“Non posso crederci! Tenente Andrew Pendleton!”
L’uomo ricambiò il sorriso in modo sincero:
“Capitano Watson, come sono felice di vederla, signore. Come
sta? La ferita è guarita bene?”
“Sto bene, grazie. – rispose John allungando la mano per
stringerla al nuovo arrivato – La ferita non mi dà particolari fastidi. Giusto
un po’ quando cambia il tempo o quando piove.”
“A Londra, allora, non è un problema. Qui il tempo è stabile
e soleggiato in ogni periodo dell’anno.”
I due uomini risero, anche se Pendleton sembrava impacciato:
“Capitano, potremmo parlare in privato?”
Prima che John potesse dire qualcosa, Sherlock intervenne:
“No.”
Watson si girò verso il giovane Holmes sbalordito:
“No? Cosa vorrebbe dire no?”
Sherlock alzò un sopracciglio e sbottò in tono pedante:
“John, per favore! Dovresti sapere cosa voglia dire no! Mi
sembra che tu conosca l’inglese abbastanza bene.”
Watson strinse gli occhi e le labbra. Decisamente odiava
Sherlock, quando faceva così:
“So cosa significhi no. – sibilò irritato – Voglio che tu mi
dica perché non posso parlare con il mio amico da solo.”
Sherlock insistette nel suo atteggiamento indisponente:
“Allora perché non chiedi quello che vuoi sapere, invece di
domandare cosa voglia dire no?”
Persino Mycroft si girò a guardare il fratello come se fosse
impazzito. Il militare passava uno sguardo smarrito da Sherlock a John e
viceversa, senza capire cosa stesse accadendo.
“Sherlock …” la voce di Watson era bassa e minacciosa.
Il consulente investigativo non stava guardando il dottore,
ma continuava a fissare Pendleton:
“Militare. Appena tornato dall’Afghanistan, dove vi siete
conosciuti al tempo del tuo ferimento ...”
“Oh, che brillante deduzione! – lo interruppe John con
sarcasmo – L’ho chiamato tenente e lui mi ha chiamato capitano, quindi deve per
forza essere un militare. Mi ha chiesto se la ferita mi dia fastidio, per cui
dovevamo per forza conoscerci, quando mi hanno sparato. Il fatto che sia appena
tornato dall’Afghanistan è una supposizione dovuta al fatto che ci siamo
conosciuti quando ero di stanza lì, quindi dai per scontato che la sua unità
sia ancora operativa in quella zona. Ed anche l’abbronzatura presente solo in
certi parti del corpo aiuta a dedurre che recentemente sia stato in un luogo
particolarmente assolato, ma non per motivi di svago. È un espediente vecchio
che hai già usato.2”
Sherlock spostò lo sguardo dal tenente al dottore. John era
abbastanza arrabbiato, mentre Sherlock sembrava sul punto di mettersi a ridere.
“Non sei divertente.” Disse Watson in tono secco.
“Cosa sta succedendo?”
La voce di Mary fece sobbalzare i quattro uomini nella
stanza: nessuno si era accorto che lei fosse arrivata:
“Cosa sta succedendo?” chiese nuovamente.
“Mary! – John era stupito – Cosa ci fai qui? Dovresti essere
a casa a riposare. Questo stress non fa bene alla bambina.”
“Anche suo padre in pericolo non farebbe bene alla bambina.”
Ribatté Mary.
“Io non sono in pericolo!” minimizzò John, ma Mary
insistette caparbia:
“Moriarty ha già cercato di ucciderti. Perché non dovrebbe provarci
ancora? Per favore, John, stai lontano da tutto questo. La bambina ed io
abbiamo bisogno di te.”
“James Moriarty è morto, quindi nessuno minaccia la vita di
John.” Intervenne asciutto Sherlock.
John finse di non aver sentito l’amico, prese le mani della
moglie e le sorrise rassicurante:
“Voglio presentarti una persona. – disse, invece, cambiando
completamente discorso – Questo è il tenente Andrew Pendleton. Ti ho parlato di
lui, ricordi? È l’uomo che mi ha salvato la vita quando sono stato ferito in
Afghanistan. Tenente, questa è mia moglie Mary Morstan.”
Sherlock sembrava disinteressarsi a quello che stava
accadendo, ma, in realtà, non stava perdendo un solo movimento di Mary e
Pendleton. Si era immediatamente reso conto che la presenza della signora
Watson aveva messo ulteriormente a disagio il militare, che si era irrigidito
notevolmente, ma anche Mary era leggermente sbiancata e si era innervosita:
“Mi fa piacere conoscere l’uomo che ha salvato la vita di
mio marito.” Disse allungando la mano.
Il tenente le strinse la mano, ma il sorriso che le fece era
decisamente tirato e per nulla spontaneo:
“Piacere mio, signora Watson.”
Mary si rivolse al marito. C’era una certa urgenza, nella
voce, come se avvertisse un pericolo imminente:
“John, per favore, andiamo a casa.”
Il dottore non riusciva a capire cosa ci fosse che non
andasse. Sua moglie non si era mai comportata come una donna svenevole e
spaventata. Tutt’altro! E gli sbalzi
d’umore dovuti agli ormoni della gravidanza non erano certo una scusa che
potesse essere usata da una donna che era stata addestrata dalla CIA. Quindi,
cosa c’era che non andava?
“Mary, non vuoi sentire il racconto del ferimento di John ed
il coraggioso salvataggio da parte del tenente?”
Sherlock pose la domanda con tono annoiato, ma i suoi occhi
di ghiaccio erano fissi sulla donna e ne studiavano ogni minima espressione.
Mary sentiva quello sguardo indagatore su di sé, ma lo degnò appena di
un’occhiata infastidita:
“Conosco questa storia. E, comunque, per oggi abbiamo già
avuto abbastanza emozioni.”
Anche il tenente Pendleton sembrava stranamente ansioso di
porre fine alla visita:
“Sarà per un’altra volta. Ora devo proprio andare.”
Watson era leggermente confuso:
“Non aveva bisogno di parlarmi?”
“Mi scusi, capitano. – rispose il militare – Avevo già un
altro impegno. Ho scoperto per caso che lei frequenta questa casa. Potremmo scambiarci
i numeri di cellulare in modo da poter fissare un appuntamento, molto presto.”
“Oh, certo, va bene. – John prese un biglietto da visita dal
portafoglio – Qui ci sono i miei recapiti.”
Pendleton gli allungò un foglietto con scarabocchiato un
numero di telefono. I due uomini si strinsero la mano.
“A presto.” Disse Watson.
“A presto, capitano. – rispose il tenente – È stato un
piacere conoscervi tutti.”
Andrew Pendleton uscì quasi di corsa. Sherlock si alzò di
scatto dalla poltrona, si infilò il cappotto e si precipitò per le scale, senza
salutare, prima che qualcuno potesse fermarlo.
Watson passò uno sguardo interdetto dalla moglie a Mycroft
sperando in una qualche spiegazione, ma anche loro sembravano piuttosto
spiazzati da quello che era accaduto.
“Bhè. – disse allora – Visto che non c’è bisogno di noi,
sarà meglio che andiamo a casa.”
Aveva salutato Mycroft e si stava dirigendo alle scale,
quando Mary lo chiamò:
“Tesoro, scusa, devo andare in bagno. Vai pure a chiamare un
taxi. Io ti raggiungo subito.”
John la studiò un po’, per accertarsi che andasse tutto
bene, poi le sorrise e scese le scale.
Mary attese che il marito fosse uscito, quindi si girò verso
Holmes e gli sibilò furiosa:
“Tenga suo fratello lontano da me. Gli impedisca di scoprire
cosa sia accaduto in Afghanistan o gli rivelerò tutto del nostro patto.”
Uscì dalla stanza e raggiunse il dottore, che aveva trovato
un taxi, lasciando Mycroft veramente allibito.
Sherlock non aveva perso di vista il militare nemmeno per un
secondo. Del resto, l’altro non stava facendo nulla per seminarlo, come se non
si fosse accorto di essere seguito. Improvvisamente Pendleton svoltò in una
stradina solitaria. Holmes affrettò il passo per non perderlo, ma, appena
svoltato l’angolo, si sentì afferrare per il bavero del cappotto e sbattere con
la faccia contro il muro. Prima che potesse provare a reagire, Pendleton gli
mise un avambraccio all’altezza della nuca, afferrandosi il polso con l’altra
mano ed applicando una forza leggera, ma sufficiente a bloccare Holmes, che si
trovò con la bocca del tenente che gli sussurrava a pochi millimetri
dall’orecchio:
“Dovresti stare attento a chi segui. Ci sono persone
pericolose in giro.”
Era complicato parlare in quelle condizioni. A Sherlock uscì
una voce roca:
“John Watson. È in pericolo. Vogliamo entrambi proteggerlo.”
Pendleton lasciò andare Sherlock, che si girò lentamente per
guardare il militare in faccia. Il tenente fissò gli occhi neri in quelli
azzurro chiari di Holmes e lo studiò a lungo:
“Non so se il capitano sia in pericolo, però devo informarlo
di una cosa.”
“Cosa?”
Pendleton esitava. Non conosceva quell’uomo, che si era
dimostrato indisponente e pedante. Sembrava un damerino annoiato, ma, nel fondo
dei suoi occhi, brillava una luce che il militare conosceva molto bene: era il
fuoco della battaglia. Si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore e prese
una decisione:
“La donna che si fa chiamare Mary Morstan … la moglie del
dottore … è il killer che ha sparato al capitano Watson nell’agguato in cui è
stato ferito in Afghanistan.”
1 La frase riprende quello che Sherlock dice a John, quando
si stanno salutando all’aeroporto nella 3x03 “His Last Vow”.
2 John si riferisce alla deduzione che Sherlock fa su di lui
e sul suo passato da militare proveniente da Afghanistan o Iraq durante il loro
primo incontro nella puntata 1x01 “A Study in Pink”.
Grazie a chiunque sia arrivato fino a qui.
Naturalmente potete lasciare ogni commento che vi sentiate
di fare.
A presto!