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Autore: Figlia di un pirata    30/01/2015    2 recensioni
In un tempo che non ci è dato conoscere, c’era una via in Baker Street, la famosa Baker Street di Londra, dove era collocato un appartamento che si confondeva in mezzo a tutti gli altri. Era alto sette piani, l’ascensore funzionava a mesi alterni a partire da febbraio, il cancelletto che collegava il parcheggio agli appartamenti era vecchio e scassato, il portone d’ingresso era stato da poco verniciato di nero e non c’erano delle cassette per la posta.
Harry Styles, interno 3, e un vecchio giradischi.
Emma Claw, interno 5, e l'immagine che dà di sé.
Louis Tomlinson, interno 6, e il sottotono della sua pelle.
Genevieve Lennox, interno 8, e gli occhi non abbastanza verdi.
Liam Payne, interno 9A, e l'insoddisfazione.
Ella Fitzgerald, interno 9B, e la testa perduta.
Zayn Malik, interno 10A, e le incomprensioni.
Anne Butler, interno 10B, e "allora viva la vita".
Niall Horan, interno 11, e il taccuino nel marsupio.
Claire Cosgrove, interno 14, e la speranza.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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Le cassette della posta in Baker Street. 


In un tempo che non ci è dato conoscere, c’era una via in Baker Street, la famosa Baker Street di Londra, dove era collocato un appartamento che si confondeva in mezzo a tutti gli altri. Era alto sette piani, l’ascensore funzionava a mesi alterni a partire da febbraio, il cancelletto che collegava il parcheggio agli appartamenti era vecchio e scassato, il portone d’ingresso era stato da poco verniciato di nero e non c’erano delle cassette per la posta.
 
 
Harry Styles, interno 3, era, come ogni giorno, davanti al vecchio giradischi che aveva ereditato dalla tanto amata nonna. Come ogni giorno, stava scegliendo quale sarebbe stata la colonna sonora della sua giornata, gli occhi chiusi, il dito indice che passava in rassegna gli innumerevoli titoli della sua collezione. Non appena toccò il prescelto, si concesse, come ogni giorno, di esaminarlo con gli spenti occhi verdi, dotati di una fievole luce donata dal sole che oltrepassava le tende bianche appese grossolanamente alla grande finestra del salone. Contrariamente a ogni giorno però, si morse il labbro, preoccupato, perché forse per una volta il suo istinto proverbiale aveva fatto cilecca. Aveva infatti tra le mani For Emma Forever Ago di Bon Iver, e quello no, non era un buon segno. Con un sospiro, si preparò come ogni giorno a infilare uno dei suoi larghi maglioni dalle maniche perennemente arrotolate e si appuntò di infilare nello zaino il taccuino delle sue memorie. Nella speranza che un giorno qualcuno voglia leggere di me, si ripeteva spesso.
 
Emma Claw, interno 5, si passò sulla palpebra sinistra l’ultimo strato di eyeliner e sbatté gli occhi blu davanti allo specchio un paio di volte, soddisfatta del proprio lavoro. Dal cellulare partì una melodia che ben conosceva: What the hell di Avril Lavigne, la sveglia che impostava per ricordarsi che era ora di uscire. Non che ci fosse il rischio di dimenticarsene, è chiaro, ma era sempre meglio essere previdenti, soprattutto in virtù del fatto che, con un solo minuto di ritardo, avrebbe corso il rischio di essere licenziata, e dire così addio ai sogni infantili che si era ripromessa di seguire. Non apprezzava particolarmente quel genere di musica, preferiva decisamente altro, ma era aperta a ogni tipo di canzone e, soprattutto, voleva essere fedele all’immagine che tutti avevano di lei che, chissà per che razza di motivo, era quella di un’acchiapparagazzi senza alcun tipo di problema se non “che tizio sbattersi a casa il sabato sera”. Ma lei non era nessuno, in fondo, per rovinare quella maschera che le avevano cucito addosso. Si ricordò giusto in tempo di calcarsi un cappello schiacciando così i propri capelli ricci, prima di chiudere la porta del piccolo appartamento.
 
Louis Tomlinson, interno 6, si appiattì i capelli già privi di volume con un gesto nervoso della mano grande e dal colorito abbronzato. Una volta una ragazza, all’ingresso del palazzo, gli aveva detto che il sottotono della sua pelle era arancione, e lui si era sentito profondamente irritato da quelle parole, che gli erano parse quasi una critica. Adesso, però, la voce di quella persona che non aveva visto in faccia perché troppo occupato a fissarsi i jeans sdruciti gli rimbombava nella testa, in un ciclo continuo. Era per questo che, tutti i giorni, cercava di darsi un contegno, nella speranza di rivederla nei pressi della portineria e nella speranza di riconoscerla, sicuro che, anche in mezzo alla folla, lui l’avrebbe vista. Nel suo negozio di musica in centro città, dove le melodie cercavano di non farsi soffocare dai poco poetici rumori della metropoli, ogni tanto ascoltava una canzone che gli faceva pensare a lei. E quanto aveva fantasticato sui suoi lineamenti, sul suo corpo, soprattutto sui suoi occhi. Io non ne voglio una per scopare, ma una con dei begli occhi, diceva tutto fiero ai suoi amici quando avevano quattordici anni, un po’ preoccupato, nella sua ingenuità adolescenziale, che loro avessero davvero già assaggiato il corpo di una donna, e che lui, una ragazza con dei begli occhi, non l’avrebbe mai incontrata.
 
Genevieve Lennox, interno 8, rientrò in casa sbattendo furiosamente la porta, senza apparentemente ricordarsi del fatto che nel condominio vivessero altre persone oltre a lei, e si precipitò davanti allo specchio, osservando la propria aria imbronciata: alcuni chili “in più” che andavano a esaltare dolcemente le curve femminee, i capelli di un biondo cenere e gli occhi, le iridi che odiava così tanto, di quel verde che proprio non le andava giù, perché non era abbastanza verde. Ed era furiosa, perché alla scuola di estetista che frequentava le avevano detto che “non c’è modo per stravolgere un colore già così bello”. E allora, si era detta, non aveva senso frequentare una scuola dove non le avrebbero nemmeno insegnato a correggere quell’orribile difetto che le sfigurava il volto. Si recò alla propria postazione computer e, col costoso programma di fotoritocco che suo padre le aveva pagato, prese il suo ultimo autoscatto – o selfie, le sue amiche lo chiamavano così perché era “alla moda”– e si modificò gli occhi in ogni combinazione possibile. Non c’era verso: il suo preferito era sempre il verde perfetto, non lo voleva contaminato da quelle orribili pagliuzze dorate, non voleva la pupilla contornata da quella manciata di sabbia, non voleva.
 
Liam Payne, interno 9A, si passò stancamente una mano sugli occhi scuri, sospirando. È l’ultima recensione, Liam, si ripeté mentalmente, digitando furiosamente sulla tastiera, la sua solitaria compagna di quella notte. Buffo che, mentre quel chiunque-fosse dell’appartamento al piano di sopra si sbatteva – e con grande piacere, a quanto aveva potuto intuire – chissà quale ragazza abbordata non-era-concesso-sapere dove, lui fosse impegnato col lavoro. Ed erano passate ben nove ore, erano già le otto e mezza di un comune sabato mattina e lui era esausto. Non poteva continuare a lavorare in quel modo, era quello il messaggio che il suo corpo gli mandava, messaggio che si rifletteva nelle palpebre cerchiate di scuro, nelle guance cascanti, negli occhi che minacciavano ogni secondo di chiudersi. D’altra parte, senza lavoro sarebbe stata la fine per lui, nessuno avrebbe accettato un ballerino di break dance fallito e dall’aria perennemente distrutta. Senza contare che quello del giornalista era un lavoro decisamente ben pagato, anche se non esattamente nelle sue corde. Non gli piaceva scrivere, saggi, articoli di giornale, recensioni – che era proprio ciò a cui si dedicava – o pagine di diario che fossero, scrivere non faceva per lui. Ballare era per lui, o meglio, lo era stato. Digitò il punto finale, si premurò di salvare il file sull’ingombro schermo del pc di ultima generazione gentilmente fornito dal direttore e poi si distese sul divano. La luce del giorno inondava la stanza e lui non aveva ancora comprato un paio di tende decenti. Non avrebbe dormito neanche quel giorno.
 
Ella Fitzgerald, interno 9B, indossò il suo miglior sorriso insieme alla T-shirt che preferiva in assoluto, quella blu scuro con un’aquila stampata sopra, e si preparò ad affrontare la giornata al meglio. Si ricordò appena in tempo di dare da mangiare al gatto, il suo Felpato, e controllò i nuovi messaggi del suo telefono. Zero, come ogni giorno, se non si conta quella catena di Whatsapp che il malcapitato che la trovava era costretto a condividere se non voleva assistere alla morte della madre. Ma la madre di Ella era già morta, e lei non si curava di quel genere di messaggi più di tanto. Fece avanti e indietro dal suo appartamento all’ascensore tre volte: la prima perché aveva dimenticato la tessera del pullman, la seconda perché doveva prendere la giacchetta perché non si sa mai, potrebbe far freddo, e la terza semplicemente perché le sembrava di aver scordato qualcosa di importante, che tuttavia non trovò, ma forse si trattava della testa, e quella tutti si chiedevano dove fosse finita. I bambini la aspettavano in ospedale.
 
Zayn Malik, interno 10A, si poggiò con ben poca delicatezza al muro bianco scrostato in alcuni punti. Aveva sempre voluto ridipingerlo, quel bianco gli incuteva un po’ di timore, ma il proprietario era stato molto chiaro in proposito: niente modifiche, o avrebbe potuto dire addio all’appartamento e allora sì, sarebbero stati guai. Aveva appena salutato la ragazza che aveva fatto sua per quella notte, ripensò, ma quella cosa cominciava a non piacergli più. Insomma, lui amava relazionarsi in quel modo con le altre, gli piaceva la sensazione di poter rendere le altre appagate, felici, adorava vederle tremare, in preda a un’emozione, a un piacere che le inondava da capo a piedi. Tutto quello lo faceva sentire utile a qualcosa, si sentiva responsabile della gioia di qualcuno. Da un po’ di tempo, però, aveva iniziato a ripensarci, perché nessuno pareva capire le sue motivazioni, gli altri le prendevano come scuse per “un po’ di sano sesso, sei troppo solo Malik” e lui non voleva assolutamente dare quell’immagine di sé, non voleva dover combattere ancora contro lo stereotipato Zayn Malik che, chissà come mai, era così diffuso nell’immaginario comune. Si era ripromesso di cambiare, se lo riprometteva ogni giorno, era però troppa la paura che gli altri lo conoscessero più di quanto facesse lui.
 
Anne Butler, interno 10B, rilesse per l’ultima volta la frase che aveva appeso sulla testiera del proprio letto. “Il rasoio fa male, il fiume è troppo basso, l'acido è bestiale, la droga dà il collasso, la corda si spezza, la pistola è proibita, il gas puzza, allora viva la vita”, citazione del film “Ragazze interrotte”, film che però non si era mai presa la briga di visionare per intero, visto che i primi cinque minuti le avevano dato il voltastomaco. Arricciandosi pensosamente una ciocca di capelli biondo platino, quasi bianco, si soffermò, come molte volte prima di allora, su quelle parole. E si disse che il rasoio era sopportabile, che il fiume fuori città era alto abbastanza, che l’acido è per gente forte, così come la droga, che la corda non si spezza se la assicuri bene e che il gas è sempre il metodo più veloce. Si disse però anche che lei, di provare tutte quelle schifezze, non aveva voglia, perché non sono le ragazze che si suicidano ad avere un lieto fine, e sua madre gliel’aveva detto, che lei era una principessa e il lieto fine l’avrebbe avuto.
 
Niall Horan, interno 11, si appuntò mentalmente di comprare un po’ di birra per quella sera, chiedendosi come potesse averla già finita. Insomma, aveva fatto la spesa solo pochi giorni prima! Come al solito, però, decise di non domandarsi troppo, perché avrebbe significato pretendere più del necessario da sé stesso, e non ne aveva la minima intenzione. Si preparò in fretta all’uscita che aveva programmato con i soliti amici, pronto a raccontare loro di quanto si stesse divertendo, che i vent’anni erano i migliori di sempre, che non vedeva l’ora di rimorchiare quella morettina che aveva adocchiato all’entrata del bar. E in mezzo a quel mare di bugie, il suo taccuino in pelle nera dove erano scritte tutte le sue canzoni, le pagine che costituivano l’unica verità a cui aggrapparsi nella sua misera esistenza. Lo ripose fedelmente nel marsupio beige, ben nascosto, e con gli occhi di un azzurro semplicemente perfetto osservò a lungo la propria chitarra, sorridendo come lo si fa al proprio figlio appena nato. La sua creatura era la musica.
 
Claire Cosgrove, interno 14, si passò il pettine sui capelli ramati innumerevoli volte, staccandosi altrettante innumerevoli ciocche che finivano per cadere sul lavandino di ceramica bianca. Sapeva che non rischiava di perdere i capelli, ne aveva così tanti, ma il parrucchiere sosteneva che “tutto quel nervosismo non ti fa affatto bene, Claire”. Indossò la maglietta col logo del bar ben impresso, per nulla intenzionata a cambiarsi nel bagno del locale dove cantava, per non farsi vedere dagli altri. In effetti non sapeva perché continuasse con quel lavoro sottopagato quando il suo sogno era di diventare famosa grazie alla propria voce. Forse, in fondo, continuava a sperare che un produttore di fama mondiale si recasse lì per una pinta di birra e la scoprisse e le proponesse un contratto discografico. Continuava a sperare, ebbene, “sperare” era proprio il verbo che la caratterizzava. Sperava di trovare i soldi per quel vestito così carino, sperava di adottare un gatto, sperava che suo padre le dicesse quanto era fiero di lei, sperava di essere notata, sperava, sperava, sperava. La speranza è l’ultima a morire, le avevano detto, ma lei sperava anche che quell’affermazione non fosse così veritiera perché, se fosse stata l’ultima a morire, si sarebbe sentita incredibilmente sola.
 
 
Harry si guardò nervosamente attorno, timoroso che qualcuno potesse prenderlo, com’era capitato qualche tempo prima con la vecchina del terzo piano, per “uno di quei cattivi ragazzi che rubano per le strade, non capisco perché la portinaia ti abbia lasciato passare”. Non sorrideva a quel ricordo, che avrebbe fatto sbellicare i più, ma si chiedeva perché mai avesse dato l’impressione di non essere un figlio di buona famiglia. Che fosse colpa dei tatuaggi o dei vistosi stivali, il ragazzo quel giorno non aveva voglia di crogiolarsi in ripensamenti sul proprio aspetto, non quando aveva intenzione di recarsi al White Pearl, il bar dove il proprietario gli avrebbe offerto un tè freddo e gli avrebbe domandato dove fossero finiti i suoi amici. E lui avrebbe risposto che li doveva incontrare subito dopo quella pausa, e che era così felice di incontrarli, anche se in realtà li avrebbe visti solo quella notte, e si sarebbero messi a fumare una canna insieme, ed Harry avrebbe riconosciuto che le canne fanno male, ma se ne sarebbe fregato, perché sarebbe stato un modo allegro di morire. E avrebbe avuto il suo taccuino con sé, così le autorità si sarebbero rese conto di quanto possa essere complicata la vita di un ventenne che, a ritenere la propria vita complicata, si sente anche un po’ in colpa.
Poggiò la mano sul portone d’ingresso da poco riverniciato di nero – come se uno strato di vernice avesse potuto renderlo meno patetico –, ma venne investito da un uragano con i capelli ricci, di un riccio più vivo dei suoi. Fu tutto quello che riuscì a vedere, prima di venire stupidamente trascinato all’indietro, prima che le maniche accuratamente arrotolate del maglione color glicine che indossava quel giorno ritornassero alla loro forma originaria, facendogli avvertire qualche brivido.
- Mi scusi, il mio capo potrebbe uccidermi se arrivo in ritardo al bar! - gridò una figurina mentre si precipitava al malandato cancello che, insieme al portone, costituiva la mera protezione del palazzo.
Harry si ridestò in un attimo, ricordando che il protagonista di For Emma stava correndo, nella canzone. Allora si mise a correre anche lui e la raggiunse in pochi secondi, un po’ perché le sue gambe erano parecchio lunghe – anche se, intendiamoci, a Harry la cosa che se hai le gambe lunghe corri più veloce era sempre parsa una cavolata – e un po’ perché lei stava smanettando con la presunta chiave del cancello, era palesemente sbagliata, ma anche se avesse avuto la chiave giusta, con quelle mani tremanti, il cancello non si sarebbe di certo aperto.
Il ragazzo si chinò ad aiutarla, perché lui sì che aveva il mezzo giusto per liberare il passaggio, e si ritrovò davanti un paio di grandi occhi blu, pesantemente messi in risalto dall’eyeliner nero. O almeno, credeva che fosse eyeliner, non era mai stato pratico di quelle cose. - Serve un passaggio? - domandò con cortesia. Proprio come la sua maestra delle elementari lo aveva descritto. Cortese.
Lei assottigliò gli occhi, che non sembravano il mare profondo né il cielo terso. Sembravano gli occhi di qualcuno che non si fida, ed Harry ci aveva visto giusto, perché Emma non si fidava di quel ragazzo con gli occhiali da sole dalla montatura rotonda e dall’aria “Beatles”-iana. Forse perché rappresentava il modo in cui lei, nei propri sogni, avrebbe voluto essere. - Mi scusi, mamma mi diceva di non accettare passaggi dagli sconosciuti. - disse, tagliente.
L’altro corrugò le sopracciglia, sperando ardentemente di non rispecchiare ciò che la vecchina aveva detto di lui tempo addietro. - Puoi darmi del tu, ho solo vent’anni. E comunque io dovrei prendere la macchina, sto andando al White Pearl.
La ragazza, ventenne anche lei, si concesse un sorriso della durata di appena qualche istante. - Lavoro lì. - confessò, quasi come un’ammissione di colpa. - Se mi giuri che posso fidarmi di te, accetto volentieri, o mi licenziano oggi.
Lui iniziò a camminare a passo svelto verso l’auto. - Potrei anche essere un malintenzionato e mentirti. Ti fidi lo stesso?
La giovane assottigliò stavolta solo l’occhio destro, come in procinto di fare un occhiolino. - Se ti togli gli occhiali, mi fido di te.
Cercando furiosamente le chiavi in tasca, con la destra Harry si tirò gli occhiali da sole sulla testa, rivelando i suoi occhi, occhi che, se guardavi bene, rivelavano di lui più di qualsiasi altra cosa al mondo. A parte i suoi taccuini, è ovvio. Non sapeva chi fosse quello che aveva detto che “gli occhi sono lo specchio dell’anima” ma, qualunque fosse la sua identità, aveva maledettamente ragione. Si assicurò che l’altra scorgesse, anche se solo per poco, le sue iridi verdi, prima di inforcare nuovamente le lenti e di entrare nella macchina vecchio modello. - Sono Harry, a proposito. - si presentò, l’attimo prima di mettere in modo.
Lei, che si guardava attorno con curiosità, rivolse un sorriso allo specchietto retrovisore. - Emma.
Emma. Quello non era possibile.
 
Quando Louis, subito dopo aver salutato la signora Calder della portineria, sentì dei passi furiosi rimbombare per le scale, si bloccò di colpo, e per un buon motivo: erano infatti passate esattamente due settimane da quando quella voce delicata gli aveva fatto notare il colore del sottotono della sua pelle, e i passi, ne era più che certo, corrispondevano a quelli che aveva udito tempo addietro. Aspettò dunque, fingendo noncuranza, che la proprietaria della voce dei sogni si facesse vedere, e ciò che si trovò davanti andava decisamente oltre le più rosee aspettative: nonostante l’aria indispettita, gli occhi risaltavano, belli come pochi, di un verde così brillante da sembrare finto.
Per evitare di stare fermo come una statua a fissarla, Louis iniziò a camminare molto lentamente, e quando fu raggiunto dall’angelica visione ebbe un’ulteriore conferma che si trattava proprio di lei, perché si fermò a squadrarlo, con una mano poggiata sulle labbra rosee, e - In effetti la tua pelle è notevole. -, constatò. - Devi essere lo stesso dell’altro giorno, quello col sottotono arancione. - pronunciò, con sicurezza.
- Credo proprio di essere io. - così si fece avanti Louis, con un sorriso smagliante, cercando in tutti i modi di presentarsi al meglio ma sentendosi tremendamente a disagio, perché aveva aspettato quel momento per settimane e ora gli occhi di lei lo mettevano incredibilmente in soggezione. - Sono Louis, a proposito. - si presentò.
- Genevieve. - l’altra gli tese la mano, e fu solo in quel momento che si resero entrambi conto di essere nell’atrio e che le loro voci stavano sicuramente rimbombando, arrivando ai vicini più curiosi. - E forse faremmo meglio a continuare fuori.
Il ragazzo la seguì, con un sopracciglio inarcato e un’aria trionfante stampata sul volto, perché quella pareva quasi una promessa. La promessa che non sarebbe terminato tutto lì, con una semplice presentazione e una gelida stretta di mano. E per fortuna, perché si sentiva maledettamente attratto da lei, anche dal suo vestito rosa, un colore che non aveva mai potuto sopportare. - Perché fai constatazioni sulla mia pelle? - domandò curioso, una volta al sicuro nell’aria calda del mattino. Poco più avanti, una macchina vecchio modello aveva appena lasciato il parcheggio.
- Sai, quando frequenti una scuola come la mia certe cose ti vengono automatiche. La scuola di estetista - aggiunse, notando l’espressione interrogativa dell’interlocutore. - Mi piace la tua pelle, comunque.
- Oh. - l’altro fece di tutto per non guardarla negli occhi, vano tentativo. - Grazie, be’, non che sia merito mio… - dannazione, era patetico. - A me invece piacciono particolarmente i tuoi occhi. - buttò lì e, se avesse potuto, avrebbe sbattuto la testa contro una delle macchine parcheggiate. Non era proprio il momento di fare apprezzamenti a una ragazza di cui conosceva solo la scuola, il nome e l’indirizzo.
Tuttavia, lei la prese sul ridere, come se non avesse già provato ogni tipo di lenti a contatto, come se non avesse modificato tutte le proprie foto, come se non avesse chiesto invano ai genitori il permesso per ricorrere alla chirurgia. - E tu sei un ottico? - la sua risata fece illuminare le iridi verdi ancora di più e Louis sentì un brivido percorrerlo. - A me non piacciono affatto, e non è per fare la modesta, proprio non mi piacciono. - ammise, scostandosi i capelli biondo cenere dal collo.
Io non ne voglio una per scopare, ma una con dei begli occhi.
 
Liam era sdraiato sul divano da ore ormai, gli occhi sbarrati, mentre si diceva che doveva assolutamente comprare un paio di tende oscuranti, perché non poteva andare avanti in quel modo. Fu però ridestato dal suo stato di coma vegetativo da rumori sospetti provenienti dalla porta, come se qualcuno stesse tentando di scassinarla. Per un secondo, pensò bene di nascondersi da qualche parte ma in seguito, appurato che qualunque malintenzionato sarebbe riuscito a trovarlo anche se si fosse accucciato sotto le coperte – metodo che, da bambino, gli pareva straordinariamente efficace –, decise che spaventarlo era la mossa più azzeccata. Fu così che, con lentezza e cercando di non fare troppo baccano, si avvicinò alla cucina e dal primo cassetto estrasse il coltello più affilato che aveva, facente parte del set per il formaggio che era stato regalato a suo padre per il cinquantesimo compleanno. Dopo, con molta cautela e tenendo l’utensile a debita distanza, aprì la porta e si lanciò sul “ladro” con una furia felina. Malauguratamente, ciò che lo accolse fu un grido terrorizzato.
- E lei cosa ci fa in casa mia? Con quel coltello, per giunta?
Confuso, Liam si costrinse a poggiare sul mobile dell’ingresso il coltello che aveva fieramente sfoderato per osservare meglio l’interlocutore. O meglio, l’interlocutrice. Era infatti di una ragazza che si trattava, una ragazza pallida – ma forse era soltanto il terrore per l’aggressione – dai vivaci occhi castani e con un taglio scalato, i capelli che si poggiavano sulle spalle esili. - Veramente, questa è casa mia. - borbottò, porgendole una mano per farla alzare da terra e aiutarla. Non sembrava affatto una delinquente. - È lei che cercava di scassinare la porta d’ingresso.
La giovane fece un passo all’indietro, osservando la targhetta appesa alla porta di legno massiccio. O almeno, sembrava legno massiccio, perché sarebbe bastato un colpo ben assestato per buttare giù tutto, porta, muri e anche il campanello. - Mi scusi signor Payne. - mormorò allora, mentre un lieve rossore le colorava le guance piene. - In effetti mi stavo chiedendo perché le chiavi non aprissero. Ecco, io abito qui accanto. - e così dicendo, indicò la porta immediatamente a destra, con un indice la cui unghia doveva essere stata un tempo dipinta di blu, un blu di cui rimaneva solo qualche patetica traccia.
A Liam venne spontaneo ridacchiare, e lo fece prima di rendersi conto che, forse, quel comportamento sarebbe risultato maleducato alla sconosciuta. Fortunatamente, però, anche lei stava ridendo. - Puoi… può - si corresse. - chiamarmi Liam e darmi del tu. - la rassicurò.
Lei si passò una mano fra i capelli color carota, perché era un disastro e lo sapeva anche piuttosto bene. - E tu puoi chiamarmi Ella. - rimase ferma, in imbarazzo, col braccio del signor Payn-… di Liam ancora attorno alle spalle e la netta sensazione di aver appena combinato un guaio. - Be’, io dovrei proprio andare. Dovevo prendere la tessera per l’ospedale, o non mi faranno entrare. Sai, il volontariato coi bambini… - si spiegò in maniera confusa, la lingua attorcigliata, mentre la figura di quel ragazzo che somigliava di più a un uomo, con lo sguardo così stanco e spossato, la attirava sempre di più. Pareva che fosse così stufo di vivere, quando la vita era una cosa così bella, e lei l’aveva imparato in tutti quegli anni di volontariato. Chissà cosa nascondeva, una figura così misteriosa.
Stranamente, il ragazzo dagli occhi cerchiati di nero le fece un’offerta che, a primo impatto, pensò fosse opportuno rifiutare. - Ti serve un passaggio?
Lei buttò un’occhiata al suo orologio da polso, blu come la T-shirt che indossava. - Ho perso l’autobus. - disse, più a se stessa che all’interlocutore. - Ma non vorrei sfruttare così il tuo tempo, probabilmente avevi di meglio da fare. - e così dicendo accennò al completo elegante che Liam non aveva avuto né tempo né voglia di sfilarsi il giorno precedente.
- In realtà no, mi farebbe anzi piuttosto piacere. - affermò il ventiquattrenne, mentre sentiva un calore ignoto propagarsi dalla zona dove, secondo i suoi studi di anatomia, si trovava il cuore, ed estendersi a tutto il corpo. Forse quella non era proprio una giornata come tutte le altre.
 
Quando Zayn sentì bussare furiosamente alla porta d’ingresso, era in mutande e, pensando che si trattasse della solita fattura da firmare, non si prese nemmeno la briga di mettersi qualcosa addosso che non fosse un paio di vecchi pantaloni della tuta grigi. Fu tanta la sorpresa quando, di fronte a sé, si trovò una ragazza decisamente più bassa, magra come un chiodo e dai capelli così biondi da sembrare bianchi. Si disse, cercando di non sorridere, che somigliava parecchio a Draco Malfoy, solo in versione femminile. Purtroppo, l’espressione furiosa che esibiva non prometteva nulla di  buono.
- Non solo mi tieni sveglia tutta la notte, hai anche la faccia tosta di presentarti alla porta così. - gridò quella, facendo rimbombare la voce acuta per tutte le scale.
Lui si portò un dito alla bocca, per farle segno di zittirsi. - E tu chi sei? - domandò curioso.
- È inutile che mi guardi con quell’aria da porco, chi è la poveretta che ti sei scopato tutta la notte, eh?
Il ragazzo si guardò disperatamente attorno alla ricerca di una via di fuga prima di chinarsi all’altezza dell’altra. - Okay, per favore, possiamo parlarne dentro? - indicò l’interno del suo appartamento. - Prometto che mi metterò una maglietta. - e così fece. Rientrando in salotto, dove si era accomodata la nuova Malfoy, si accorse del disordine che aveva lasciato, ma si giustificò dicendosi che, dopotutto, non riceveva molte visite. - Allora, cosa ti porta qui…? - esitò, non conoscendo il nome della ragazza la cui espressione si era decisamente tranquillizzata.
- Anne. E tu sei Zayn. - scoppiò a ridere. - Non guardarmi in quel modo, c’era scritto all’ingresso! - gli fece notare. - A meno che non sia un nome d’arte, in quel caso dovresti correggermi. - vedendo che non spiccicava parola, sbuffò. - Comunque sono qui perché non è stato bello sentire gemiti su gemiti per tutta la notte. Per quanto il Wi-Fi qui faccia schifo - e Zayn si trovò perfettamente d’accordo. - ho una connessione sufficiente per andare su YouPorn.
- Non ho una grande cultura in fatto di film porno. - ammise quello, sconcertato l’attimo dopo dalle parole appena pronunciate. Cercò subito di rimediare all’affermazione imbarazzante. - Zayn non è un nome d’arte. E mi dispiace di averti tenuta sveglia stanotte, ma davvero, non è colpa mia.
Anne inarcò un sopracciglio perfettamente curato. - Ah no? E di chi? Ti hanno costretto con chissà quale sortilegio?
Questa volta, Zayn non trattenne il suo sorriso. - La Maledizione Imperium di Harry Potter, proprio quella.
- Non mi è mai piaciuto Harry Potter. - ammise l’altra con un gesto secco della mano.
E chissà per quale assurdo motivo, a Zayn quella ragazza parve incredibilmente simile a lui. Sembrava così incompresa, così fragile nel suo atteggiamento sulla difensiva. Proprio come ostentavano le sue compagne di classe alle superiori, solo che quelle ragazzine viziate cercavano di far emergere il loro lato più fragile con il vittimismo più odioso, lei invece no, lei cercava di nasconderlo per quanto le risultava possibile. E a Zayn questo piaceva. E pensò che dare piacere a lei doveva essere incredibilmente meglio che darlo a chiunque altro. Non gli passò neanche per la testa che, forse, quella ragazza fosse davvero come cercava di apparire, che le sue potessero essere comunissime “seghe mentali” – è così che le chiamavano? –, e per fortuna, perché, pur non essendo mai brillato in matematica, quella volta i suoi conti erano giusti.
 
Sull’ascensore, Niall aveva tirato fuori il tanto adorato taccuino per dare un’occhiata a quella canzone di cui si era appuntato i primi versi, la sera precedente, perché non lo convinceva poi così tanto. Era troppo malinconica, troppo nostalgica, lo faceva sembrare quasi triste, cosa che non si sognava nemmeno di diventare. Era così concentrato, le sopracciglia chiare corrugate, chinato su quelle righe scritte velocemente, che trasalì quando una ragazza in carne e dai lunghi capelli ramati fece il suo ingresso nella cabina, al quinto piano. Si concesse qualche secondo per guardarla con attenzione. - Tu sei la cantante del White Pearl, vero? - ma l’attimo dopo ci ripensò anche se, a dirla tutta, lei indossava la maglietta col logo del bar ben stampato. - O forse no? Scusami, non volevo sembrarti inappropriato.
Con sua grande sorpresa, l’altra gli rivolse un sorrisino. - Sono io. - ammise, e una delle sue speranze si era appena avverata: qualcuno l’aveva notata. - E tu come fai a saperlo? Ci vieni spesso?
- Ci sto andando proprio adesso. - disse l’altro, entusiasta di avere davanti colei che da tempo ammirava.
- Anch’io. - ammise lei, mentre l’ascensore si fermava, con un colpo secco che fece rabbrividire i due. - È una fortuna che oggi l’ascensore funzioni.
- Già. - era infatti strano, l’ascensore di quell’appartamento, tanto che alcuni inquilini erano soliti chiamarlo “La maledizione di via Baker”, sì, proprio la stessa via Baker dov’erano ambientati i libri di Sherlock Holmes, anche se ormai nessuno faceva più caso alla fama un po’ gotica di quel posto. - Comunque sei fantastica. A cantare, intendo. - e per una volta, per una sola volta, la frase di Niall non era servita a rimorchiare qualcuno in modo da risultare più appetibile al solito gruppo di amici. Era strano, effettivamente, parlare come una persona qualsiasi, come il vero lui non avrebbe esitato a fare. A meno che il vero lui non fosse scomparso, sotto quello strato di menefreghismo e di “vita facile, tanti amici, sono padrone del mondo”. Ma come avrebbe potuto essere padrone del mondo, senza prima esserlo di se stesso?
La ragazza arrossì mentre, senza rendersene conto, iniziava a camminare al suo fianco, ed entrambi si dirigevano verso il White Pearl. - Grazie. Te ne intendi di musica? - chiese, nella speranza che lo facesse, che fosse davvero arrivato il suo momento, che avrebbe potuto coronare il suo sogno.
Fu il turno del biondo di arrossire, cosa che non gli succedeva da molto tempo ormai e che lo fece sentire strano. Gli parve quasi di poter sentire il proprio sangue pulsare nelle vene più forte, più caldo che mai. - Io scrivo canzoni, ogni tanto. E le canto, a volte. Mi piace suonare la chitarra. - ammise in un sussurro che nessuno avrebbe dovuto sentire, soprattutto se si trattava dei suoi amici.
- Mi piacerebbe sentire qualcosa, ogni tanto. Viviamo nello stesso palazzo, dopotutto. - e la risata cristallina che emise subito dopo, ebbe il potere di infrangere qualcosa. Niall fu quasi tentato di mettersi al riparo, prima di rendersi conto che quel rumore l’aveva sentito solo lui, perché quello che si era rotto, frantumato, si trovava dentro di sé, anche se al momento non fu in grado di spiegarsi cosa fosse. - Sono Claire, a proposito. - si presentò lei, incurante di aver appena spezzato una delle barriere “invalicabili” del suo interlocutore e delle quali, stranamente, nessuno era a conoscenza, neppure il diretto interessato.
- E io mi chiamo Niall. - replicò lui, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, in senso metaforico, s’intende. - Ma mi sentirei un enorme idiota a cantare a te, che hai una voce così pazzesca. - un altro rumore, qualcos’altro che s’infrangeva, ma quella volta non ci fece caso. Non così tanto.
 
In un tempo che non ci è dato conoscere, c’era una via in Baker Street, la famosa Baker Street di Londra, dove era collocato un appartamento che si confondeva in mezzo a tutti gli altri. Era alto sette piani, l’ascensore funzionava a mesi alterni a partire da febbraio, il cancelletto che collegava il parcheggio agli appartamenti era vecchio e scassato, il portone d’ingresso era stato da poco verniciato di nero e non c’erano delle cassette per la posta. Harry Styles, interno 3, aveva riposto il vinile For Emma Forever Ago di Bon Iver nello scaffale dedicato alle giornate speciali; Emma Claw, interno 5, aveva finalmente mostrato al mondo quello che Harry definiva il suo “lato Styles, tutti ne hanno uno”; Louis Tomlinson, interno 6, aveva fatto nascere in Genevieve Lennox, interno 8, svariati dubbi riguardo alla qualità dei suoi occhi e aveva finalmente trovato la sua “una non per scopare”; Liam Payne, interno 9A, aveva scritto una magnifica recensione, l’ultima, sulla cantante del White Pearl, e aveva abbandonato il suo lavoro al giornale per dedicarsi di nuovo alla break dance grazie a un aggancio che il suo capo gli aveva trovato; contemporaneamente aveva voluto imitare Ella Fitzgerald, interno 9B, nel fare volontariato ai bambini dell’ospedale; Zayn Malik, interno 10A, aveva guardato il cartone preferito di Anne Butler, interno 10B, ossia Cenerentola; allo stesso modo, lei aveva terminato in meno di due settimane la saga di Harry Potter, film compresi; Niall Horan, interno 11, si era trovato un lavoro al White Pearl, e accompagnava con la chitarra la cantante del locale, Claire Cosgrove, interno 14, che in seguito alla recensione pubblicata al giornale del luogo aveva ricevuto parecchi contatti per far sentire le sue potenzialità in altri pub.

 
The end?
   
 
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