Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Agapanto Blu    01/02/2015    2 recensioni
31 Gennaio. Kuroko compie diciassette anni, ma ha paura, perché il suo ultimo compleanno portava i segni freschi delle lacrime di Ogiwara e lo aveva costretto a camminare in punta di piedi tra le schegge di una Generazione dei Miracoli in pezzi, perciò non lo ha detto a nessuno.
Dopo quello che è solo un giorno come un altro, la notte porta un po' di ricordi, di rimpianti e di malinconia, ma anche qualche piccola sorpresa.
***
Sulle note di "What hurts the most", by Rascal Flatts, il mio regalo di compleanno per il fantasma più tenero e 'abbraccioso' della storia.
Auguri, Tecchan! 31-01-2015
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa, Tetsuya Kuroko
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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What hurts the most
 

 
I can take the rain on the roof of this empty house,
that don't bother me.
 
“Tecchan…”
Tetsuya sollevò la testa dal proprio libro – un fumetto prestatogli da Koganei-senpai con come protagonista una squadra di basket di liceali – quando udì il richiamo della voce di sua nonna, atteggiata a rimprovero ma carica di preoccupazione mal nascosta.
Il piccolo fantasma era seduto sul bordo della propria finestra, la schiena contro l’infisso e le ginocchia piegate al petto per formare il leggio perfetto, indossava ancora la divisa scolastica perché la storia lo aveva preso tanto che appena rientrato a casa si era preso giusto il tempo per salutare la famiglia prima di rinchiudersi nella camera a continuare la lettura. Pioveva, anche se non così forte da allarmare nessuno o da far saltare la luce, e le gocce ticchettavano come un concerto di orologi contro il vetro accanto a lui, creandovi sopra piccoli arabeschi con le loro scie che poi si riflettevano nel quadrato di luce cupa, azzurrognola, sul pavimento. La lampadina sul soffitto non era accesa, Tetsuya si divertiva ad usare il fascio del lampione in strada e a rimanere nel buio, nell’ombra. Si sentiva molto più a suo agio così, nel suo ‘habitat naturale’ quasi. Sua madre, ridendo, gli diceva che era matto e lui le rispondeva che probabilmente aveva ragione, ma non smetteva di sentirsi più a casa nell’oscurità che nella luce, nelle tenebre dove nessuno era visibile e lui era perfettamente uguale a tutti gli altri.
“Sì?” chiese educato, infilando una strisciolina di carta come segnalibro tra le pagine del volume prima di chiuderlo, “Hai bisogno di aiuto per qualcosa, obaa-san?”
Kuroko Kimiko sospirò pesantemente, in modo teatrale, mentre entrava nella camera del nipote e si chiudeva la porta alle spalle. Tetsuya si affrettò a scendere dal suo seggio per spostare la palla da in mezzo alla stanza, facendola rotolare cautamente accanto al borsone bianco su cui capeggiava la scritta rossa e nera ‘SEIRIN’, e per permettere a sua nonna di raggiungerlo, ma quando lei si fu accomodata sulla sedia della sua scrivania fu rapido a tornare alla finestra.
“Sempre su quel trespolo!” borbottò la donna osservandolo riprendere la sua posizione, ma il ragazzo si limitò a sorriderle con gli occhi.
Kimiko era una donna anziana, ma che emanava un’intensa aura attorno a sé. Come una quercia secolare che avesse superato indenne migliaia di tempeste, incuteva il timore e il rispetto di un guerriero, con le rughe come cicatrici e i piccoli taglienti occhi azzurri come lame. La sua armatura era un kimono azzurro chiaro, della tinta dei capelli di suo figlio e di suo nipote, dei suoi prima che il tempo li dipingesse di bianco e argento ad uno ad uno, e la sua pittura di guerra era un lungo fermaglio con un’enorme rosa nera intagliata che spuntava dalla crocchia ordinata. Il nero e l’azzurro erano i colori della loro famiglia e lei li vestiva perennemente, almeno in un dettaglio. Kuroko sospettava che Kagami, se mai l’avesse incontrata, avrebbe detto che ‘odorava di forza’. Una forza mescolata ad una sorta di vaga saggezza e ad un fantasma di malinconia che sembrava danzarle negli occhi in quel momento.
Tetsuya intuì dove il discorso sarebbe andato a parare e sospirò decidendosi ad appoggiare il proprio libro sul futon steso praticamente sotto di lui.
“Tua madre è convinta che ti stia stressando troppo” iniziò Kimiko, sbuffando, “e tuo padre dice che più ti incito a fare qualcosa e più è probabile che non la farai. Quei due pensano che io non sappia con chi ho a che fare.”
Tetsuya tenne per sé il pensiero che, effettivamente, i suoi genitori dimostravano di conoscerlo davvero molto bene pur passando buona parte dell’anno all’estero per lavoro. D’altro canto, anche vivendo assieme lui e sua nonna passavano poco tempo l’uno con l’altra dal momento che lui era quasi sempre fuori per allenarsi a basket, o con la squadra o da solo.
“Lo sai perché i tuoi sono rientrati in Giappone, vero?” L’occhiata che Kimiko gli scoccò da dietro le lunghe ciglia ancora nere come la pece diceva chiaramente che non avrebbe accettato un silenzio o un monosillabo come risposta.
Tetsuya spostò lo sguardo fuori dalla finestra, perché la risposta svettava sul calendario appeso alla parete, subito dietro la testa della sua interlocutrice. Segnava il trentuno di Gennaio.
 
I can take a few tears now and then
and just let them out.
 
“Per il mio compleanno.” rispose, pur cercando di mantenersi neutrale.
Dodici mesi prima, i suoi sedici anni si erano aperti sulla fine della Winter Cup di terza media, sul viso in lacrime di Ogiwara, sugli occhi vuoti della Generazione dei Miracoli e su un periodo per lui pieno di incubi, dolore e rassegnazione, un tunnel disperato dal quale aveva pensato di non poter uscire senza rinunciare per sempre allo sport per cui aveva dato l’anima sin da bambino. Forse era stato uno stupido superstizioso, ma aveva preferito che l’arrivo dei suoi diciassette passasse in sordina e non lo aveva detto a nessuno, neppure a Kagami. Aveva scordato che non sarebbe stato così facile convincere i suoi familiari ad ignorare l’evento.
“Tecchan, devi uscire.” La voce di Kimiko era inflessibile, non lasciava spiragli a rifiuti o disobbedienze di sorta, era ass-…
Kuroko scosse la testa, bloccando il pensiero – e il discorso che sua nonna stava continuando – a metà.
Non si sarebbe permesso di pensarci ancora. Ciò che era fatto era fatto e aveva promesso a sé stesso di smetterla di guardare al passato, piantarla di crogiolarsi in rimorsi e rimpianti e concentrarsi solo sul presente e sul futuro. Quella fetta delle medie soprattutto era ufficialmente off-limits.
“Tecchan…”
Kimiko fissò confusa, ma non sorpresa, l’espressione addolorata che nacque improvvisa sul volto solitamente apatico di suo nipote. Sapeva che quel ragazzo aveva, sì, poche cicatrici ma anche davvero molte ferite ancora aperte e pronte a mettersi a sanguinare quando il mondo meno se l’aspettasse; sapeva anche che non era in suo potere, né rientrava tra i suoi compiti, ricucire alcuna di esse e che spettava a Tetsuya e a Tetsuya soltanto di impedire a quei segni di attaccare la sua anima, però quando lo vedeva così… Non l’avrebbe mai ammesso con il ragazzo, ma temeva che l’infezione ormai fosse già in atto. Sospirò.
“Non mi importa chi chiami. Non mi importa nemmeno se non chiami propri nessuno e vaghi da solo per un po’.” disse la donna, scatenando lo sgomento del nipote che ben conosceva il suo lato decisamente apprensivo, “Però, Tecchan, fa’ felici i tuoi genitori e me.” La mano rugosa della donna si allungò ad afferrare quella del ragazzo, la voltò verso l’alto e dopo un attimo la richiuse su alcune banconote ripiegate, “Cerca di renderti felice solo per stasera. Fatti un regalo, comprati un pallone o un camion di quei tuoi frullati, però, per favore, almeno provaci a fare qualcosa per te stesso. D’accordo?”
“Obaa-san…”
“Niente obiezioni!” lo interruppe Kimiko alzandosi in piedi. Sorridendo, la nonna gli strizzò l’occhio. “Anche le ombre compiono diciassette anni solo una volta nella vita.”
“Ogni compleanno viene solo una volta nella vita.” provò a far notare Tetsuya, ma l’anziana scacciò la sua obiezione con un gesto della mano mentre già usciva dalla stanza.
Il fantasma sospirò aprendo la mano e osservando i soldi – troppi per un pallone o dei frullati – chiedendosi quanto preoccupata la sua famiglia dovesse essere per lui. Ripiegò le banconote con cura, si alzò e raggiunse la scrivania, quindi aprì il cassetto e le ripose con cura nella busta con su scritto ‘Università’.
Gomen, Obaa-san to Okaa-san to Otou-san., pensò amareggiato, Non ce la faccio proprio.
Silenzioso come l’ombra che era, tornò a sedersi alla finestra, riprese il suo libro e tornò a leggere.
Silenziose come il dolore che era loro padre, lacrime di veleno scivolarono dalle sue ciglia per le sue guance alle pagine del fumetto piene di ragazzi che giocavano a basket, insieme, ridendo.
 
I'm not
afraid to cry
every once
in a while
even though
going on
with you gone
still upsets me.
 
Tetsuya era abituato a spaventare le persone, ma non era affatto avvezzo al contrario perciò, quando il suo cellulare iniziò a squillargli nella tasca, sobbalzò e saltò in piedi lasciando cadere a terra il libro. Quando si rese conto della reazione esagerata, Tetsuya sospirò e si sbrigò a prendere il telefono, ma aggrottò la fronte nel leggere la scritta ‘Numero Privato’.
Riattaccò, sbuffando, perché certamente si trattava di una qualche azienda telefonica pronta a proporgli una nuova offerta.
In piedi nella stanza e nel riquadro di luce spezzettata dalla pioggia, si voltò verso la finestra e abbassò gli occhi sui rigagnoli d’ombra che sembravano percorrere la pelle delle sue braccia, lasciate nude dalle maniche arrotolate. Se solo fosse stato veramente fuori, sotto l’acqua, avrebbe potuto credere che il tempo fosse la causa del gelo nelle sue vene. Piegò i palmi verso l’alto, osservò il pizzo blu e verde delle vene impreziosire la neve della sua carne, immaginò disegni composti dalle ombre e finse di essere uno di loro, solo un po’ più grosso e pallido. Immaginò di essere la pioggia e scivolare via nel nulla, scappare nelle intercapedini del terreno, infilarsi nel più piccolo pertugio ed essere assorbito da qualcos’altro. Immaginò di correre sulle guance di un ragazzo e ripulirlo dai suoi peccati, liberarlo dalla sua tristezza; immaginò di essere asciugato da una mano un po’ più grande, ma poco, e calda e tiepida, capace di renderlo solo un triste ricordo.
Rise amaramente di sé stesso e si passò un braccio sul viso. Non c’erano mani che sarebbero venute ad asciugarlo, altrimenti.
 
There are days
every now
and again
I pretend
I'm okay
but that's not what gets me.
 
Un lampo, nel cielo grigio, fece scintillare la sua pelle e disegnò la sagoma nera di qualcos’altro, qualcosa nascosto sotto l’armadio.
Tetsuya voltò la testa di scatto, ma il fulmine doveva aver già colpito terra perché la stanza era di nuovo nella sua penombra e i contorni dell’oggetto si erano mescolati ad altre ombre, svanendo nel nulla.
Esitò, consapevole di starsi facendo del male, ma alla fine raggiunse il mobile e si inginocchiò a terra, spostò il borsone e la palla da basket e infilò il braccio in profondità nelle tenebre fino a che le sue dita non strinsero un cilindro duro e freddo, vitreo, allora prese un respiro profondo e tirò.
Scivolò docile fuori dal suo nascondiglio, come docile era passato di mano in mano fino a incastrarsi nelle sue, e scintillante nonostante la polvere lo fissò con ingenuità, inconsapevole del dolore che aveva causato. La scritta “Teiko Middle School Basketball team. Winter Cup. First place.” spiccava elegante sotto tre piani di colonne che sollevavano in trionfo la sagoma in oro di un cestista nel bel mezzo di una schiacciata.
Kuroko nemmeno aveva idea del perché avesse tenuto quel trofeo. Risaliva al suo secondo anno di medie, la sua prima Winter Cup, e ad un bel periodo, ma la gioia di quella vittoria non era paragonabile alla sofferenza di quella dell’anno successivo. Gliel’aveva consegnata Aomine, sotto lo sguardo bonario di Akashi e assieme ai sorrisi o mezzi tali degli altri tre prodigi della Generazione dei Miracoli. Per avercela fatta., aveva detto. Avercela fatta a far…cosa di preciso? Kuroko non sapeva più nemmeno quello.
Aveva rivisto Ogiwara-kun alla finale di quell’anno, ma quando lo aveva cercato dopo la partita lui se n’era già andato, semplicemente. Un bigliettino scritto a mano, di fretta, era tutto ciò che si era lasciato alle spalle: Ripetiamo la nostra promessa; giochiamo assieme.
Le mani di Kuroko si sollevarono e poi corsero verso il suolo. Le colonne del trofeo tra le sue dita andarono in frantumi immediatamente, i vari piani caddero sul pavimento, il basamento di marmo con l’incisione produsse un tonfo contro il legno e il giocatore dorato rotolò miseramente di nuovo sotto l’armadio.
E Tetsuya rimase fermo a singhiozzare, in ginocchio tra le schegge.
 
What hurts the most
was being so close
and having so much to say
and watching you walk away.
 
Basket. Fatica, sudore e vomito, sicuro che ce la fai, Tetsuya? Ghiacciolo. Fragola, anice, limone, arancia, sono buoni tutti, Kurochin. ‘Hai perso’, ‘hai perso’, ‘hai vinto’, che fortuna sfacciata, Tetsu. Risa. Anche io, anche io, anche io, Kurokocchi. Nanodayo. Scarpe, strade, strisce, attento al semaforo, Kuroko. Ghiaccio. Scivoloni, palle di neve, mani congelate e nasi rossi, grazie della sciarpa, Tetsu-kun.
Tutto bene. Preferisco la vaniglia. È solo una coincidenza. Sei irritante. Non sono un bambino. Non è nulla, tranquilla.
Non baciarmi quando ci possono vedere. Non spettinarmi i capelli. Non correre così. Non mi serve il mio oggetto fortunato. Non strillare. Non strangolarmi.
Baciami finché non c’è nessuno, fino a gonfiarmi le labbra e a seccarmi la bocca, lasciami morsi e succhiotti dove tutti possono vederli anche se indosso maglie accollate, così potrò sgridarti e potrò sentire la tua risata. Sollevami come fossi un bambino, senza peso, così potrò vederti interessato a qualcosa. Corri fino a perdere il fiato, diventa così veloce da raggiungere il tramonto e lasciami indietro così potrò inseguirti fino a star male e sorriderti quando sarai tornato indietro a controllarmi. Portami tutte le cose più strane del mondo così saprò che ogni mattina ascolti anche il mio segno e che ogni giorno fai del tuo meglio per sapermi al sicuro. Strilla, ridi, piagnucola, comportati come un bambino così potrò continuare a prendermi cura di te senza temere di vederti superarmi. Continua a dire al mondo che sei la mia ragazza, così saprò che non mi odi perché non posso ricambiare i tuoi sentimenti e che mi ami abbastanza da proteggermi mentre amo un altro.
 
And never knowing
what could've been
and not seeing that loving you
is what I was trying to do.
 
L’aria entrò dal naso e uscì silenziosa dalle labbra schiuse.
Kuroko si alzò. Con i piedi fasciati nelle calze bianche camminò attento fino alla porta, scavalcando le schegge come fossero montagne, e uscì nel corridoio. Oltrepassò la cucina ignorando le sagome dei suoi genitori e di sua nonna seduti al tavolo, finse di non sentire la voce di sua madre che gli chiedeva cosa stesse succedendo e continuò a dare le spalle al corpo di suo padre che si affacciava dalla porta domandando cosa fosse stato il suono di poco prima. Raggiunse l’ingresso e si piegò ad aprire le ante del piccolo mobiletto che fungeva da sgabuzzino della casa, con dita salde che non rispecchiavano la sua mente tastò alla ricerca di una paletta per ripulire il disastro nella sua stanza, un disastro vagamente liberatorio, ma di nuovo un trillo lo spaventò.
Il telefono? No. La porta.
Esitò.
“Otou-san, aspettiamo qualcuno?” chiese ad alta voce, gli occhi che si alzarono sull’orologio a muro alla sua destra.
“Tesoro, potresti aprire tu, per favore?”
La risposta di sua madre non lo rassicurò del tutto, ma obbedì lo stesso, docile, e tirò la porta senza osservare dallo spioncino.
 
It's hard to deal with the pain of losing you everywhere I go,
but I'm doing it.
It's hard to force that smile when I see our old friends and I'm alone.
 
Nessuno. Non c’era assolutamente nessuno.
Solo, per terra, un bicchiere di plastica bianco con una grossa A scritta a pennarello nero e un bigliettino attaccato sopra: Per Kuroko Tetsuya.
Il ragazzo prese il contenitore con sospetto e con ancora più diffidenza ne aprì il coperchio quando si accorse che il liquido all’interno era poco. Infatti, ne restava solo un dito. Un dito di una sostanza bianca e densa che lui avrebbe saputo fiutare a miglia di distanza.
[È risaputo che i Kuroko sono creature molto intelligenti. Fintanto che non si trovano di fronte del Milkshake alla Vaniglia. A quel punto, diventano molto stupidi e incoscienti.]
Tetsuya si guardò attorno, a destra e a sinistra, mentre istintivamente succhiava con avidità quell’ultimo sorso di frullato dalla cannuccia.
Le iridi fiordaliso puntarono subito il secondo bicchiere, sempre candido con una lettera nera e con un bigliettino sopra.
“Obaa-san, io esco.”
Giusto il tempo di infilarsi le scarpe e di urlare quelle parole e Kuroko era già accanto al secondo indizio, contrassegnato da una R. Di nuovo frullato alla vaniglia, di nuovo solo un sorso. Tetsuya fece una smorfia all’idea di tanti frappè avanzati e si raddrizzò con il secondo bicchiere infilato nel primo.
Come il Santo Graal, un terzo bicchiere lo attendeva in fondo alle scale, ostentando orgoglioso una grossa I color pece su di sé e il cartellino d’appartenenza a Tetsuya Kuroko. L’azzurro si rendeva conto di apparire molto stupido mentre trotterellava verso quest’ultimo e si ripromise di sgridare sua nonna per quello scherzo meschino: c’era sicuramente lei dietro quel volgare trucco per farlo uscire di casa, lo sapeva, ma la donna avrebbe dovuto vergognarsi ad usare le debolezze di suo nipote contro di lui. Non che Kimiko fosse famosa per la propria integrità: Kuroko la ricordava bene sbirciare tra le dita quando giocavano a nascondino.
Senza giacca, il fantasmino dai capelli azzurri continuò ad inseguire i propri Milkshake.
 
Still harder
getting up,
getting dressed,
living with
this regret,
but I know
if I could do it over
I would trade,
give away
all the words
that I saved
in my heart,
that I left unspoken.
 
Il quarto bicchiere, una G, era sul pianerottolo di casa. La A all’angolo della strada e Tetsuya dovette lottare con un gatto, attirato dall’odore, per difendere il frappè che gli apparteneva di diritto. Una T era stata incautamente lasciata nel bel mezzo delle strisce pedonali e Kuroko ebbe un mancamento all’idea di un’auto che investiva il suo tesoro. Una O si trovava all’angolo del campetto di basket dove giocava sempre e il ragazzo tirò finalmente un sospiro di sollievo nel vederlo in una zona sicura.
Si piegò, prese l’ottavo bicchiere e bevve l’ultimo sorso, calcolando felice di aver ormai quasi finito un frappè intero, quindi si guardò attorno alla ricerca del successivo indizio.
E si gelò sul posto.
 
What hurts the most
is being so close
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“Sei proprio come un piccolo pollicino con la sua scia di molliche di pane, eh, Tetsuya?”
Fiamme e braci, capelli e occhi, labbra appena più chiare ma molto più bollenti, un sorriso malizioso e tentatore che era la porta sia dell’Inferno sia del Paradiso.
“Dannazione, quanto diamine puoi essere veloce quando insegui ‘sti cosi, Tetsu?! Per poco non ci raggiungevi tutte le volte!”
Uno strato sottile di capelli blu oceano, scombussolati, sopra un viso dalla pelle caffelatte e dall’espressione imbronciata, ma con una scintilla negli occhi navy.
“Sei pazzo, nanodayo. Non posso credere che tu abbia attaccato briga con un gatto per del frullato, ti credevo più…maturo.”
Ciocche verdi un po’ spettinate, occhiali verdi che facevano risaltare iridi color smeraldo e lunghissime esili dita fasciate in bende nivee intente a carezzare il dorso del naso.
“Il frappè di Kuro-chin dev’essere davvero buono, ma avrei paura a chiedergliene un sorso.”
Un’altezza improponibile, lunghe ciocche viola, occhi ametista e un sacchetto di patatine tra mani enormi.
“Neh, Kurokocchi, stai bene? Sei pallido…”
Un aspetto da Adone, un sorriso brillante appena un po’ incerto, intensi occhi nocciola, morbide ciocche bionde e lo scintillio di un orecchino d’argento.
“Ehm… Tetsu-kun? Potresti respirare, per favore?”
Una chioma lunga, rosa, e occhi come piccoli quarzi dello stesso colore, un corpo prosperoso che avrebbe fatto svenire qualsiasi uomo e un’espressione dolcemente preoccupata.
Gli occhi di Tetsuya si sgranarono, la bocca si schiuse, il sangue nelle vene si gelò improvvisamente e una voce nella sua testa si mise ad urlargli di scappare, di correre via il più veloce che potesse e di non fermarsi più.
E lui obbedì.
 
And never knowing
what could've been
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is what I was trying to do.
 
Il gatto del Milkshake si piazzò in mezzo al marciapiede, le zampe ben salde sul terreno e un’espressione di sfida negli occhi felini, quindi gonfiò il pelo e iniziò a soffiare minacciosamente nel riconoscere la sagoma dell’umano che poco prima aveva invaso il suo territorio, e gli aveva soffiato una preda interessante, correre di nuovo verso di lui. Sicuro di sé, lanciò un miagolio acuto e agghiacciante prima di gettarsi sul suo nemico.
 
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Kuroko gemette al dolore rovente che gli squarciò la gamba, incespicò e cadde in avanti sul marciapiede freddo. Riuscì ad attutire l’impatto con le mani, ma il dolore non accennava a diminuire e quando riuscì a rotolare sulla schiena e a sbirciare la parte dolente scoprì un malefico gattaccio bianco con le unghie piantate nei suoi jeans – ora aperti da lunghi strappi – e con le piccole zanne acuminate lasciate visibili dalla bocca aperta per soffiargli contro.
“Vattene!” provò a ordinare, agitando la mano per scacciare il suo nemico, ma ottenendo solo che questi si preparasse a saltare dalla sua gamba al suo petto – o anche alla sua faccia, se fosse riuscito a raggiungerla -.
Il ragazzo sollevò un braccio e chiuse gli occhi nel vedersi il felino arrivare addosso e…non successe nulla.
Kuroko risollevò le palpebre, ma dovette sbatterle un paio di volte perché incapace di realizzare la situazione.
“Porca puttana!” esclamò Aomine, allungando il braccio verso l’esterno per allontanare da sé il più possibile il malefico gatto che aveva afferrato per la collottola, giusto in tempo per evitare che questi sfregiasse il suo amico, “Cosa diavolo è?!”
“Non deve aver preso bene il furto di frullato, nanodayo.” commentò Midorima, fissando l’animale con sospetto e rimanendo ad un passo di distanza dal compagno che lo teneva.
“Era mio…” borbottò Kuroko, prima di riuscire a fermarsi, ma un piccolo tornado rosa impedì il sorgere di una discussione sui diritti di proprietà della preziosa bevanda.
“Stai bene, Tetsu-kun?” Momoi, preoccupata, si piegò sulle gambe per esaminare il pantalone a brandelli del suo amato e osservare le macchie rosse che vi si stavano formando sopra, “Sarà meglio disinfettare i tagli in fretta…”
“Qui, Kurokocchi.”
Kuroko alzò lo sguardo dall’amica per trovare la mano tesa di Kise praticamente davanti al suo viso, in attesa della sua. Ringraziando sottovoce, la prese e si lasciò aiutare a tornare in piedi.
Il rumore di scrocchi continui, sottofondo fino ad allora passato quasi inosservato, si fermò all’improvviso quando la grossa sagoma di Murasakibara si piegò un po’ sull’azzurro, rimanendo al fianco del biondo.
“Neh, riesci a camminare, Kuro-chin? Devo portarti in braccio?”
Tetsuya rispose educatamente di no, ma poi la sua attenzione tornò sulla sua ex-luce quando questa imprecò di nuovo.
Il piccolo gatto malefico non si era arreso e ora stava tentato di far fare al braccio di Aomine la stessa fine della gamba di Kuroko, agitando le zampe anteriori dalle unghie sguainate in direzione della pelle caffelatte più vicina che potesse trovare, fortunatamente senza poterla raggiungere.
“Ohi, e io che ci faccio di questo coso, adesso?!” esclamò il ragazzo, chiaramente irritato, fulminando l’animale con lo sguardo, “Mi sta sul cazzo solo a guardarlo!”
“Tua madre è sempre contenta della tua volgarità, Daiki?” Akashi raggiunse lento l’animale ancora a penzoloni nel vuoto e gli si avvicinò nonostante un mezzo avviso alla prudenza rivoltogli da Midorima. Il rosso osservò il gatto con chiara attenzione. “Interessante.” concluse, dopo una lunga occhiata. Quindi estrasse un paio di forbici dalla tasca della giacca. “Dovresti essere sufficiente per uno scaldamuscoli per la gamba di Tetsuya che hai aggredito.”
“AKASHI-KUN!” esclamò Momoi saltando in piedi e correndo verso il rosso nello stesso momento in cui il blu portava il braccio con l’animale dal lato opposto del proprio tronco, nel tentativo di allontanare la bestia dalle forbici, ma ciò permise al gatto di piantare le unghie nel pullover di Midorima, aggrapparsi al suo petto e gonfiare di nuovo il pelo come una palla.
Kuroko osservò con espressione neutra Shintarou che iniziava a strillare affinché ‘la bestia satanica’ gli fosse tolta di dosso, Aomine che afferrava la suddetta per i fianchi e piantava un piede nello stomaco del verde per fare leva e riuscire a staccargliela di dosso – portando con sé addirittura brandelli del maglione –, Momoi e Kise che cercavano disperatamente di sbarrare la strada ad Akashi che continuava ad aprire e chiudere le proprie forbici e Murasakibara che, indifferente alla situazione, aveva ripreso a mangiare le sue patatine mentre fissava la scena con espressione annoiata. Quindi fece qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di fare, quella sera e con quelle persone.
Scoppiò a ridere.
Non un solo sorriso evanescente, come nelle altre rare volte in cui la Generazione dei Miracoli era riuscita a sorprenderlo con la sua idiozia, ma una risata vera, rumorosa, tanto forte da costringerlo ad abbracciarsi lo stomaco con le braccia per via del dolore agli addominali e tanto limpida da fargli chiudere gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime.
Quando, dopo pochi istanti – era pur sempre un’ombra –, smise di botto, scoprì che tutti gli altri si erano fermati e lo stavano fissando. Perfino il gatto.
“Che c’è?” chiese, abbassando le braccia e piegando la testa da un lato.
Ci fu un attimo di silenzio, ma il primo a riprendersi fu Kise. Con un solo divertito ‘tsk’, il biondo fece un sorriso sghembo e si grattò la nuca con una mano.
“Sempre il solito Kurokocchi.” commentò, quasi tra sé e sé, e a quel punto anche gli altri persero la loro immobilità.
Kuroko li osservò.
Osservò Akashi, il più a sinistra, mettersi di nuovo le forbici in tasca con un sorriso elegante – di quelli fini e sottili, ma morbidi, ad occhi chiusi – e Momoi rivolgergli uno sguardo grato prima di portare i polsi dietro la schiena e sorridere verso la sua cotta di sempre; Kise incrociare le braccia davanti al petto e scuotere un po’ la testa e Midorima – il maglione sul suo petto ormai sbrindellato e la pelle pallida e glabra di quest’ultimo che faceva capolino dai buchi – aggiustarsi gli occhiali sul naso con uno sbuffo di disapprovazione ‘tsunderica’; Aomine sorridere a tutti i denti, luminosamente, pur avendo ancora il gatto tra le mani – il povero animale era retto per i fianchi e quindi era costretto a fronteggiare Kuroko mostrandogli il ventre, ma questo non gli impedì di iniziare ad agitare tutte e quattro le zampe verso di lui – e Murasakibara sorridere con le labbra chiuse e la bocca piena. E realizzò una cosa.
“Minna…” mormorò, incerto su come continuare, ma Akashi lo prevenne scuotendo la testa.
“Lascia stare, Tetsuya.” sussurrò avvicinandosi a lui con le mani in tasca. Quando gli fu davanti, in un gesto molto strano per lui, il rosso posò la fronte contro la sua. “Va tutto bene, adesso.”
Va tutto bene, adesso.
Va tutto bene, adesso. Va tutto bene, adesso. Va tutto bene, adesso. Va tutto bene, adesso. Va tutto bene, adesso.
Va tutto bene adesso.
“Oh! Giusto!” La voce di Kise, pimpante, fece staccare e spostare a lato di un passo Akashi, portando Kuroko ad incrociare gli sguardi e i sorrisi di tutti.
“Tetsu!” esclamò Aomine, con un ghigno.
“BUON COMPLEANNO!” echeggiò, unanime.
 
And never knowing
what could've been
and not seeing that loving you
is what I was trying to do.
 
“Diciassette. Anni. Dico solo questo.”
Kuroko si sforzò di non sbuffare né alzare gli occhi al cielo di fronte al rimprovero di sua nonna e si limitò a ringraziarla educatamente quando la donna ebbe finito di fasciargli la gamba e si fu raddrizzata, ma questa lo ignorò e uscì ancora borbottando dalla camera da letto. Kuroko provò a muovere la caviglia per vedere se la fasciatura avrebbe retto ai movimenti del polpaccio, ma una voce divertita attirò la sua attenzione.
“Ha ragione lei, Tetsuya.” dichiarò Akashi, chiaramente sarcastico, “Hai diciassette anni ormai, non dovresti più fare queste cose da bambini, su! Fare a botte con un gatto…”
Kuroko rivolse al suo ex-capitano un’occhiata vagamente più minacciosa del solito.
“E di chi sarebbe la colpa di questo?” ritorse, alzandosi dalla sedia della scrivania per andarsi a sedere sul bordo della finestra. Nel farlo, passò davanti all’armadio contro cui era appoggiato Akashi – e sotto il quale giaceva ancora la cima del trofeo che aveva spaccato poco prima – e si appuntò mentalmente di ringraziare sua madre per aver pulito il macello da lui combinato prima che la Generazione dei Miracoli lo riportasse a casa di peso – letteralmente, in braccio ad Atsushi – perché si facesse curare la gamba. Non voleva che i suoi amici vedessero i segni del suo sfogo, soprattutto considerando che le cose sembravano stare andando meglio ora.
Kise e Murasakibara avevano dovuto andar via quasi di corsa, i rispettivi treni che incombevano, e Aomine e Momoi erano partiti facendo da scorta a Midorima per evitare che qualcuno notasse lo stato del suo vestiario. Akashi, invece, aveva detto che sarebbe rimasto a Tokyo per un paio di giorni prima di tornare a Kyoto e perciò si era trattenuto un po’ di più, dichiarando che non si sarebbe mosso prima di aver visto la fasciatura completa.
Adesso, un sorriso sulle labbra, si mosse verso l’azzurro e si sedette accanto a lui sul davanzale. Sollevò addirittura una gamba per posarla sull’infisso, infilando il piede sotto la coscia di Kuroko, molto vicino al suo fondoschiena. L’azzurro non reagì.
D’altro canto, che motivo c’era? Aveva sperimentato con Akashi un’intimità ben più profonda di questa, non c’era ragione di comportarsi come se ne fosse imbarazzato. E poi, non ne aveva voglia: così stava bene, non valeva la pena di spostarsi per una stupida questione di orgoglio.
Si limitò, pertanto, a fissare il rosso con occhi apatici. Akashi, come sempre, comprese il suo pensiero inespresso e scosse la testa.
“No, Tetsuya.” dichiarò, posandogli una mano su una guancia e facendogli inclinare un po’ il viso verso l’alto, così che fronteggiasse il suo. “Grazie a te.”
E con questo, posò le labbra sulle sue.
 
Not seeing that “loving you”
is what I was trying to do.
 
FINE


 
Non so cosa dire se non che amo questi ragazzi alla follia e che venderei un braccio pur di vederli di nuovo giocare insieme come una volta (cosa che fortunatamente non dovrò fare perché il nostro adorato Autor-San ha già provveduto con il nuovo "Kuroko no Basket-Extra Game" sul quale la sottoscritta sta già sbavando v.v) però anche solo immaginarli festeggiare assieme va bene, eh! :D
Beh, come già detto, faccio tantissimi auguri al nostro piccolo Tecchan e lascio qui un piccolo avviso: ultimamente EFP ed io ci siamo visti raramente -fortunatamente sono riuscita a postare parecchie storie sulle quali avevo già lavorato e che necessitavano solo di piccole revisioni, però ad esempio non sono riuscita a rispondere ai messaggi personali etc- quindi volevo solo farvi sapere che leggo tutto, tutte le meravigliose recensioni che mi lasciate e tutti i PM che mi mandate, e vi sono veramente ma veramente grata per ogni singola parola. Appena avrò un briciolo di tempo, tornerò alla carica e mi farò sentire; fino ad allora, abbiate pazienza e non pensiate che vi stia schifando o ignorando. Semplicemente non ho tempo per la mia vita personale, in questo momento -.-
Grazie di cuore ancora, per tutto, e per chi fosse interessato QUI SOTTO c'è un piccolo extra ;)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu
 
 


 
EXTRA:
 
Kuroko sbatté le palpebre un paio di volte, scioccato, ma fu Aomine a dar voce, con un’esclamazione vagamente disperata, al suo pensiero. Sicuramente lo stesso di tutta la Generazione, riunita alla mansione Akashi di Tokyo.
“HAI ADOTTATO QUEL DEMONIO?!”
L’urlo di Daiki gli valse un soffio irritato da parte della suddetta bestia, che però poi tornò a dormire placidamente sulle ginocchia del suo nuovo padrone.
Akashi la accarezzò gentilmente sulla schiena.
“Si chiama Yokai.” avvisò e con quella frase tutti seppero che era finita, che non c’era più modo di cambiare la situazione.
“Approvo solo la scelta del nome.” bofonchiò Midorima, appoggiato contro il muro dalla parte opposta della stanza rispetto al suo ex-capitano.
E mentre tutti borbottavano, tra sé e sé o con altri, riguardo la nuova accoppiata Akashi-Yokai, Kuroko sentì la furia crescere – arrivando fino al punto di fargli desiderare di aver portato Nigou con sé – mentre fissava il gatto. O meglio, ciò su cui il gatto era seduto.
Mio., pensò, irritato e geloso.
Con sorpresa di tutti, Akashi Seijuro scoppiò a ridere apparentemente senza motivo.



 
  
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