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Autore: Soraidh    03/02/2015    5 recensioni
[Trentatré]
{Fanfiction su "Trentatré", Mirya}
Sono passati sette anni da quando Grace è salita con D in Paradiso, sette anni in cui, pur provando a tenersi impegnata, non ha più avuto notizie delle persone amate che ha lasciato sulla Terra. La regola infatti prevede che uno spirito defunto faccia ritorno sulla Terra soltanto alla scomparsa della malinconia per la vita perduta.
Il momento, sorprendentemente, arriva, e Grace può di nuovo sbirciare sulla vita di Michele, il suo unico grande amore.
Come se l'è cavata Michele in sua assenza?
Chissà se nevica ancora dalle parti del Fortuna...
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A chi crede e a chi non crede.

A chi è mancata Grace.

E a chi sono mancati i suoi fiocchi di neve.

C’è neve ovunque.

 

 

 

 

«È solo una storia…»

«Non è mai solo una storia. È sempre un’espansione della vita: un’ombra, uno specchio, una speranza… un ricordo?»

 

Mirya; trentatré, Settimo giorno

 

 

 

 

 

QUESTIONI DI FEDE

 

 

Alla fine Dio l’Apocalisse l’aveva scatenata davvero.

Erano tutti lì, intorno a lei, puntuali come ogni settimana – non che si potesse evitare la puntualità, in Paradiso –, trepidanti come solo un fandom sa rendere trepidanti i suoi seguaci… poco importava che la metà dei presenti fosse formata da creature celesti e l’altra metà da anime defunte.

L’importante, almeno con queste ultime, era non farglielo notare, e Grace l’aveva imparato subito; bisognava prestare specialmente attenzione ai martiri, che tendevano a prendere la propria morte un po’ troppo sul personale e a farne continuamente un affare di Ordine Cosmico.

Quel giorno, nella sala che Dio le aveva concesso per il club del libro, Grace notò alcune facce nuove; si erano unite in un piccolo gruppo e se ne stavano in disparte rispetto a tutti gli altri, ben attente a non sfiorare nemmeno per sbaglio le ali di Gabriele, da sempre suscettibile sul piano dell’estetica.

Le riconoscevi subito le anime appena trapassate – matricole, si divertiva a chiamarle Gesù: per una settimana buona non facevano che riunirsi in ristrette comitive, come durante gli umanissimi primi giorni d’università, e osservare tutto e tutti con una sorta di esilarante stupore negli occhi. Non che fosse facile realizzare di essere in Paradiso, Grace li capiva benissimo.

Mandò loro un sorriso. Le si strinse il cuore quando scorse una bambina in mezzo al piccolo gruppo delle matricole, ma dissipò quasi immediatamente il dispiacere: dopo sette anni lì, avrebbe anche potuto cominciare a rassegnarsi all’inevitabilità di certi incastri.

E lei di incastri ne aveva creati tanti.

Tossicchiò, richiamando l’attenzione di tutti i presenti per interrompere il loro vociare. Gesù era naturalmente seduto in prima fila; Giuda, come al solito, faceva finta di essersi seduto vicino a lui per caso e Maria Maddalena si assicurava di avere la completa attenzione del Figlio di Dio lavandogli i piedi, ma Gesù non rivolse che la più blanda delle occhiate ai due, forse stanco del triangolo di cui nemmeno si sentiva più parte.

Dio stavolta non ci sarebbe stato. Solitamente partecipava anche Lui agli incontri, ogni settimana con lo stesso entusiasmo, e amava farlo sotto le spoglie umane con cui, sette anni prima, era sceso sulla Terra per trentatré giorni – forse per nostalgia? –, ma stavolta era impegnato. E Grace sapeva perché, non si parlava d’altro in effetti fra le file celesti: Maometto aveva avuto un crollo emotivo per via degli ultimi spargimenti di sangue in suo nome e Dio stava provando a consolarlo in tutti i modi che conosceva.

Grace non aveva mai parlato con Maometto, ma le bastava vederlo per rivolgere un pensiero affettuoso al suo caro amico Amir e per chiedersi come se la stesse passando.

E non solo lui.

Da quando era salita in cielo non aveva più potuto osservare le vite di tutte le persone care che aveva lasciato. Ogni tanto ci pensava sua madre, Lily, a spifferarle qualcosa sul suo caro papà, ma non le era permesso sbirciare e vegliare sulle vite delle persone che amava e che non erano ancora con lei – per fortuna.

«Succederà quando sarai pronta», le aveva spiegato Dio, D per lei, «Non succede mai se l’anima prova ancora troppa nostalgia per la sua vita sulla Terra. È per il suo bene».

«Ma io ho accettato la mia morte!», aveva ribattuto Grace con ardore, «L’ho scelta!».

«Oh, Grace», D aveva sospirato, un po’ triste, e una nuvola era scivolata fra le gambe di Grace per oscurare il sole oltre le Alpi. Ogni volta che Dio sospirava di malcontento, da qualche parte il mondo si annuvolava. «Lo so, figliola. Lo so benissimo, ma non sei ancora pronta. Lo senti? Ti stai ancora struggendo».

«È che voglio rivederlo…», aveva mormorato Grace, abbattuta, «Voglio rivederli tutti».

«Lui sta bene, bambina. Stanno tutti bene. Ma tu abbi pazienza, e vedrai che prima ti rassegnerai e prima tornerai fra loro».

E così Grace aveva annuito, e un paio di giorni dopo, per ammazzare l’eternità, aveva chiesto a D il permesso di fondare un club del libro; i libri potevano offrire numerose possibilità di socializzazione e D solo sapeva se in Paradiso non ci fosse bisogno di socializzare, vasto com’era!

 In Paradiso, del resto, potevi fare tutto quello che volevi – anche mangiare, se preso dalla gola –, bastava chiudere gli occhi, pensare all’oggetto desiderato ed ecco che questo si plasmava fra le mani in un battito di ciglia. Grace solitamente pensava ai libri ed era molto attenta a farsi riferire da sua madre le ultime uscite in libreria. Le aveva suggerito di controllare puntualmente il blog di Per favore un altro libro, il blog letterario che aveva sempre consultato da viva, tanto che la stessa Lily ne era diventata un’assidua seguace, e a quel punto avevano iniziato a leggere assieme.

Da sette anni a quella parte, perciò, ogni settimana l’ala che D le aveva assegnato si riempiva di gente, membri del personale e non. Uriel qualche volta aveva espresso il desiderio di dedicare una settimana alla lettura di Baudelaire, ma i più non erano mai stati d’accordo.

«Aaah! Buon Padre, Uriel!», aveva esclamato una volta Michele, che non ne poteva più, «Perché non la Bibbia, a questo punto? E perché non impariamo anche a fare la maglia? Così magari Adamo la smette di andare nudo in giro e mostrarlo al mondo intero!».

«Tecnicamente…», era intervenuto l’interessato, non senza manifestare una certa suscettibilità al ricordo, «… sulla Terra mi sono dovuto coprire con una foglia di fico. Hai mai provato a coprirtelo con una foglia di fico, Michele? Irrita la pelle!».

«Be’, ma ora sei in Paradiso!», aveva ribattuto l’arcangelo, «Puoi creare quello che vuoi! Creati un paio di Levi’s o una foglia di fico ipoallergenica! Qualunque cosa, accidenti a te, basta che te lo copri! È il Paradiso, non una spiaggia nudisti!».

«Esatto!» Adamo si era battuto il petto con un pugno, forse desideroso di mostrare una certa virilità all’arcangelo più feroce del Grande Capo – dall’errore compiuto con la mela, non sapeva più come rientrare nelle grazie del Padre e le tentava tutte – «Sono in Paradiso! Me lo sono guadagnato! Perciò me lo vivo come voglio!».

«Guadagnato? Guadagnato?! Ti sei fatto infinocchiare da Eva, idio…».

Alla fine era dovuto intervenire Dio per sedare gli animi.

E anche quella settimana Grace non aveva scelto I fiori del Male.

«Allora, ragazzi…» Grace prese la parola, «Com’è andata la lettura questa settimana? Vi è piaciuto Perry Flocker e il Prigioniero di Ambastram?».

Iniziò il baccano, Grace se lo aspettava. Mani su mani si stagliarono sul candore dell’orizzonte infinito offerto dall’ala della lettura di D – D era un amante degli effetti speciali, lo si capiva benissimo se assistevi almeno una volta all’aurora boreale – e le voci si mescolarono, offrendo una cacofonia a tratti disturbante ma sommariamente allegra.

«Okay, okay…», rise Grace, «… cominciamo da Gesù. Gesù, che mi dici?».

«Che non ci potevo credere, Grace!», rispose Gesù. Per poco dall’entusiasmo non rovesciò la bacinella in cui Maria Maddalena gli stava ancora sciacquando i piedi. «Insomma! Pinus! Pinus ha tradito Haynes e Mily Flocker! Era loro amico!».

Grace annuì, comprendeva bene il suo stato d’animo.

«Era loro amico e lui ha spifferato tutto a Lord Artemort! Vatti a fidare degli amici!» E con quell’ultima affermazione non risparmiò una gomitata energica contro il fianco esposto di Giuda.

«Ancora?!», ringhiò quest’ultimo.

“Ecco”, pensò Grace, le mani già sul volto, “Ci risiamo!”

«Quante volte hai intenzione di ritornarci su? Sono passati duemila anni! Duemila, Gesù! Dacci un taglio! Me lo hai detto tu! Ho fatto esattamente quello che mi hai chiesto di fare!».

«Ah, sì?!» Gesù si voltò verso Giuda con occhi pieni d’oltraggio, non si guardavano da un decennio, «Io non ti avevo detto di baciarmi, però! Quello lo hai fatto tu!».

«Non dirmi che non ti è piaciuto! Non mentire, Gesù!».

«Non gli è piaciuto…», bofonchiò Maria Maddalena – come di consueto, nessuno le credette.

«Io sono il figlio di Dio!», esclamò Gesù, «Io non mento! Tu mi hai baciato! E una volta morti entrambi non mi hai nemmeno rivolto la parola! Nemmeno una! Lo sai che carte false ho dovuto fare per tenerti qui? Con il suicidio ti sei messo fuori dalla mia giurisdizione e quando sono riuscito a farti estradare non mi hai nemmeno ringraziato! Cosa volevi, altri trenta denari? È sempre una questione di soldi per te? E che ci hai fatto con quei trenta denari poi?!».

«Shopping su Zalando!», rispose Giuda, acido e sarcastico come sempre.

«Ehm, ragazzi?» Grace schioccò le dita un paio di volte e richiamò la loro attenzione, «Che ne dite di passare oltre? Ci sono altri che vorrebbero intervenire…».

Seppur riluttante, Gesù annuì e Giuda in tutta risposta li abbandonò, amante com’era delle uscite di scena plateali;

«Okaaay…», sussurrò Grace. Sperò che Giuda non se la fosse presa troppo.

Il dibattito proseguì con Cassandra, che naturalmente aveva previsto la fine del libro e anche la morte del preside tre volumi più in là, ma non le diedero credito nemmeno stavolta. Fu il turno di Bella, una delle matricole che stava con loro da tre settimane, la quale espresse un certo rammarico per non aver letto in vita la saga del maghetto e aver invece preferito lanciarsi da una scogliera – pettegolezzi di cielo mormoravano lo avesse fatto per sentire la voce del ragazzo che l’aveva mollata, ma Grace preferì non sincerarsene mai; la schizofrenia d’altra parte era un disturbo brutto.

La discussione, come ogni sana discussione letteraria, si allargò, e così iniziarono un po’ tutti a parlare delle loro esperienze di tradimento. Seguirono una serie di riflessioni sui temi ricorrenti nella saga e su quale fosse il più percepibile.

«Il sacrificio», disse qualcuno, «Si è sempre tutto basato sul sacrificio. E sull’amore che, nonostante il sacrificio, continua a rimanere e a far nascere del bene…».

Qualcosa sfiorò il cuore di Grace, che stavolta preferì tacere. Quel qualcuno, pensò, aveva proprio ragione.

L’amore continuava a rimanere…

Michele le mancava, ormai lo aveva accettato.

 

* * *

 

Erano quasi giunti alla fine dell’incontro settimanale, quando la volta celeste fu trafitta dalle note di Material Girl e i presenti sobbalzarono dallo sconcerto, gli stessi arcangeli avevano spiegato le ali. Bisognava capirli in fondo: erano abituati alle parole di ben altra Madonna.

 

They can beg and they can plead/ But they can't see the light, that's right/ that's right/ 'Cause the boy with the cold hard cash/ Is always Mister Right

 

«Cos’è questo?», domandò Grace, aveva appena assegnato la lettura del quarto libro della saga per la prossima settimana e Uriel ci era di nuovo rimasto male.

«Questo…», intervenne Gesù, «È un avviso, Grace cara!». Le si avvicinò e accostando la bocca al suo orecchio aggiunse: «La voce del promemoria, modestamente, l’ho scelta io».

«Ma avviso per chi?», domandò ancora Grace.

Gesù fu interrotto dall’arrivo del padre.

«Che succede qui?» La voce rombante del Padre Eterno fece vibrare tutto e la canzone gracchiò per qualche istante. Dio, in spoglie umane, cingeva le spalle di Maometto, ancora piangente contro il Suo petto.

«Ah, Gesù…», sospirò, individuando subito la causa del Propri Mali. «Ti avevo detto di essere discreto! Pensa a tuo fratello una buona volta!».

«E… E poi…», piagnucolò Maometto, che non si dava pace e non sembrava nemmeno aver notato la presenza degli altri, «Io avevo solo detto: D-Dio è grande! Non ho… non ho mai autorizzato nessuno a…».

«Lo so, figliolo», mormorò Dio, stringendo ancora di più suo figlio a Sé, «Lo so. Credimi, non è colpa tua. Gli esseri umani a volte fraintendono. Gesù, diglielo anche tu. Quante volte ti hanno frainteso in vita?».

Gesù fischiò.

«Ho perso il conto, Padre mio. Davvero, Maometto, fratello, non fartene un cruccio. Ricordate le Crociate? Non avete idea di come si sia sentito!».

«Lo sappiamo invece», intervenne Giuda, ricomparso dopo aver udito la voce del Padre in sala lettura. «Coi terremoti ci avevi preso gusto, eh?».

Ma Gesù era ancora adirato con lui e non lo degnò di una replica, limitandosi a ballargli intorno e a canticchiare qualche parola della nuova strofa.

 

Some boys try and some boys lie but/ I don't let them play, no way, no way/ Only boys that save their pennies/ Make my rainy day

 

«In tutto questo», riprese Grace timidamente, «Di che avviso si tratta?».

«Oh…», disse Dio, che distratto dalla diatriba Si era dimenticato di lei, «È per te. Puoi finalmente fare una capatina sulla Terra».

Se il cuore di Grace fosse stato ancora in funzione, probabilmente si sarebbe fermato. Un brivido le percorse la schiena e sentì le gambe cederle. No, non era possibile. Non era possibile che fosse davvero arrivato…

Ma lo era.

Era arrivato il momento: poteva tornare sulla Terra.

Poteva rivederlo. E rivederli. E sapere come stavano.

«Finalmente potrai rivederli tutti, sì», confermò Dio, «E potrai anche osservare i fili delle loro vite, ma non i tratti futuri. Questa parte è sotto copyright del Sottoscritto, capito?» Mentre parlava, Dio consegnò Maometto a Gesù perché lo portasse in disparte a chiacchierare un po’, poi prese la mano di Grace fra le Sue.

«Andrà tutto bene, bambina. Te lo prometto. Basterà usare l’intuito e la determinazione, e potrai andare dove vuoi».

«Come…» Ah, accidenti, Grace aveva la lingua impastata e non riusciva a trovare le parole, «Come scendo sulla Terra?».

«Be’, questo è semplice», la rassicurò Lui, con un sorriso che, malgrado fosse Dio, non fu molto promettente. «Così», disse infatti schioccando le dita.

Prima che Grace potesse chiederGli cosa intendesse, uno squarcio improvviso la raggiunse.

E cominciò a cadere.

 

* * *

 

La prima cosa che Grace pensò quando il contatto con l’erba arrestò la sua caduta fu: ahia.

Non credeva che, invisibile e incorporea com’era, avrebbe di nuovo sentito dolore, ma forse quello era uno dei prezzi che richiedeva il soggiorno sulla Terra e non trovò opportuno lamentarsene.

Al contrario, si sentì subito attraversata da una miriade di sensazioni che credeva dimenticate e, sopraffatta, si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse. Non faticò a riconoscere l’Old Park, il grande parco al centro della città, dove qualche volta aveva pranzato con Gioia e Consuelo per poi dedicarsi alla lettura di un nuovo romanzo fino a tardo pomeriggio.

Vicino a lei una giovane ragazza di nemmeno vent’anni se ne stava seduta contro il tronco di un albero e sembrava piuttosto presa dalla lettura sul Kindle che aveva in mano. Grace guardò l’ora, l’orologio da polso mezzo nascosto dalla manica della felpa che la ragazzina indossava segnava le 11.30.

Questo e lo zaino abbandonato accanto a lei fecero supporre a Grace che la ragazzina dovesse aver deciso di marinare la scuola quel giorno.

Sorrise, indecisa se scoprire quale fosse il libro galeotto che aveva spinto la piccola ribelle a saltare un giorno di scuola o se lasciarla alla sua privacy…

… ovviamente la curiosità ebbe la meglio e Grace si affacciò per sbirciare qualcosina.

 

Odiava il Natale.

Incartato con fronzoli inutili e di cattivo gusto in regali puntualmente riciclati, che mostravano solo quanto poco si tenesse a qualcuno e quanto poco lo si conoscesse. Abbacinato come un bordello con quelle luminarie che attentavano seriamente alla sicurezza dei passanti, facendoli inciampare o pendendo sinistramente sulle loro teste. Innaffiato di liquori approntati per l’occasione che scioglievano la lingua più di quanto fosse conveniente, portando la gente a pronunciare cose di cui avrebbe dovuto pentirsi sino al Natale successivo.

Odiava il Natale.

Solo, senza di lei.

 

Oh, le venisse un colpo! Quello era l’inizio di Canto! L’inizio di una delle sue storie sul web!

Niente era andato perduto.

La leggevano ancora, dopo sette anni…

Dio non faceva errori.

«Non ne fa mai…», mormorò, travolta dalle emozioni. Desiderò trasformarsi in una spugna per assorbire il tepore di quella giornata, l’ebbrezza che sa darti la consapevolezza di essere appena finita sotto gli occhi di un nuovo lettore e i profumi della città che ancora viveva, pur senza di lei, e che Grace era contenta di veder vivere, anche senza di lei, perché era vero che il bene non moriva.

Sapeva rigenerarsi.

«Spero ti piaccia, ragazzina…», bisbigliò alla sua nuova lettrice. Com’era prevedibile, quest’ultima non la notò, non la percepì nemmeno, ma per un istante si distolse dalla lettura, voltando il viso verso quello di Grace. Osservò il vuoto e non rilevando niente di insolito tornò al suo Kindle.

Grace si alzò. Si accorse solo in quel momento di indossare i suoi jeans preferiti e un maglione bianco, lungo fino ai fianchi; l’istinto la portò a distendere le pieghe causate dalla caduta. Si sentiva più umana di quanto non si fosse mai sentita in vita.

Si allontanò dal parco, già sicura di dove andare.

 

* * *

 

Il Fortuna era un sogno nascosto.

E non era cambiato poi molto, almeno a giudicare dall’esterno. Michele doveva aver fatto ripitturare la facciata, ma l’insegna era quella che Grace ricordava: rettangolare, con su raffigurata una ruota di legno e al centro di essa il volto di una donna.

Scoprì che le tremavano le mani. Sentiva freddo, ma non lo soffriva, forse era uno dei benefici dell’essere uno spirito.

Stava arrivando Natale, Grace lo notò quasi subito, perché la città si era rivestita di luci e qui e lì canzoncine festose avevano avvolto tratti di strada.

Fece un passo avanti, poi ci ripensò.

Non sapeva perché, tuttavia le era difficile entrare; era difficile sopportare l’idea che avrebbe rivisto Michele, il suo Michele, senza che lui potesse vedere lei.

Dio le aveva assicurato che stava bene, che Michele se l’era cavata.

Ma era davvero così?

Non che Grace si sentisse degna di dubitare di Dio, ma se Dio le avesse mentito per proteggerla? Per farla separare prima dalla malinconia terrena che aveva impedito alla sua anima di sbirciare la vita sulla Terra per sette infiniti anni?

No, non poteva rischiare. Non poteva sciupare così la sua prima visita sulla Terra dopo sette anni. Non voleva rovinare quei momenti.

Grace fece come Dio le aveva detto: usò l’intuito.

«Mostrami», ordinò al passato.

E si sentì risucchiare nel tempo.

 

* * *

 

All’inizio Grace pensò di aver sbagliato qualcosa, perché si ritrovò proprio all’interno del Fortuna, fra l’odore delle patatine fritte e il legno caldo dei mobili che le riempivano la visuale.

Fu soltanto quando lo vide che capì di non essersi sbagliata affatto: Michele non era invecchiato di un giorno.

E lei era appena arrivata nel suo passato.

Era proprio lui, con la sua t-shirt sgualcita, i capelli biondi che si arricciavano sulla nuca e gli occhi azzurri, occhi azzurri come… be’, la cosa azzurra più bella del mondo.

Ma quegli occhi, adesso, erano tristi, benché non più offuscati dalla rabbia…

Il Marchio di Caino era sparito.

«Oh, Michele…».

Gli aveva promesso che sarebbe tornata.

“Quanto è passato dalla mia morte?”, si chiese Grace. Non riusciva a capirlo guardandosi intorno, non c’era nulla che potesse fornirle un’idea, nessun calendario da consultare.

Il locale era vuoto, non c’era traccia del Vecchio Giò, e Michele era intento a pulire il bancone, strofinando la spugna sulla superficie di noce quasi fosse una questione di vita o di morte. Era come ipnotizzato dal rumore prodotto, quello strano stridio oleoso, forse perché si tende sempre a concentrarsi sulle cose inutili, quando quelle utili sono troppo dolorose e difficili.

«Oh, Michele…», ripeté Grace. Gli scivolò accanto e… gli cinse i fianchi da dietro, appoggiando il volto contro la sua schiena calda.

Finalmente.

Poté sentire benissimo il suo odore e lo inspirò come se da sette anni a quella parte fosse andata avanti rifiutandosi di respirare qualcosa di tremendamente banale e inutile come l’ossigeno – non che in Paradiso si respirasse davvero ossigeno –, e lui… oh, lui raddrizzò la schiena di scatto, lasciando andare la spugnetta.

Ops…

Grace si ritrasse, spaventata, timorosa di essere stata… percepita?

Ma no, com’era possibile? Quello era il passato, non si poteva alterare neanche volendo il passato. E poi lei era uno spirito. Michele non avrebbe potuto né vederla né sentirla. Non avrebbe dovuto.

Usa l’intuito.

Per non rischiare, Grace si schiacciò contro la parete delle mensole dove Michele sistemava i piatti e i bicchieri puliti e piano piano si allontanò; andò a sedersi nel punto in cui il bancone faceva angolo con il ripiano dei fustoni di birra.

Lo sentì sospirare, di quei sospiri che sanno di mancanza, quelli che sanno svuotarti e lasciarti con quel niente difficile da accettare. Le si strinse il cuore.

«Ti amo…», gli disse, gli occhi pieni di lacrime che non avrebbe asciugato nessuno.

Michele non la sentì.

“È triste per me”, si disse, “Perché me ne sono andata. Lo ha accettato, ma è triste per me”

Come lei aveva accettato di essere morta, pur struggendosi per tutti quelli che aveva lasciato.

«Dio…», bofonchiò.

«Mi hai chiamato?», disse l’interessato, comparendole alle spalle.

«Cristo!», esclamò Grace, che non imprecava mai. Per poco non era caduta all’indietro dalla paura.

«No», replicò Dio, inarcando un sopracciglio, «Sono proprio Io, Dio. Il padre. Ero venuto a dare un’occhiata, sei venuta a impicciarti un pochino del passato di Michele eh?».

«Ho seguito il tuo consiglio», ribatté Grace guardando D. Indossava una camicia hawaiana e le infradito, sembrava aver rubato i vestiti al Merlino de La Spada nella Roccia, il classico della Walt Disney.

«Ho usato l’intuito…», spiegò in seguito, «Ma non capisco, speravo di vedere un passaggio fondamentale nella vita di Michele, e invece sono finita qui. Dove sono tutti? Perché è da solo? E perché è così triste?».

«Be’…» Dio fece spallucce, come se la cosa non fosse importante, «Perché gli manchi, no? Sta vivendo il suo dolore».

«Perché hai creato il dolore?», mormorò Grace. In realtà non era una vera domanda, ma Dio le rispose comunque, perché Dio rispondeva anche quando nessuno osava chiedere.

«Come con il desiderio, ho creato diversi tipi di dolore. Il dolore è una traccia dell’anima. Solo le anime provano dolore, il dolore è parte stessa dell’anima, è la dimostrazione del fatto che l’anima c’è, esiste e ci riempie».

«Anche Tu provi dolore…».

«Io sono l’anima, Grace. Il dolore è uno dei mezzi più efficaci con cui trovarMi. Ci sono uomini che ne capiscono la potenza e la sfruttano per convincere gli addolorati a seguire degli schemi, a trovarMi nei dogmi, in riti quasi compulsivi. Perché il dolore indebolisce sempre, sì, ma sono le ferite più dolorose a preservarci dalla distruzione in certi casi. Ti ho detto che ho creato diversi tipi di dolore, in realtà sono due: c’è il dolore fine a se stesso, quello destinato a non generare altro che rabbia e quello sì che è distruttivo. Poi c’è il dolore della mancanza e può spingere in due direzioni: una porta a perdersi, è piena di sbagli e nocività, e il dolore non se ne andrà mai davvero, verrà solo illuso; l’altra invece porta alla consapevolezza e la consapevolezza alla voglia di vivere ancora. Ed è lì, a quel punto, che entro in gioco Io con una nuova chance per la felicità. Chi si chiude nel dolore diverrà sordo e non sentirà mai la voce dell’istinto, che poi sarebbe la Mia. Chi invece il dolore cerca di offrirmelo e non di attribuirmelo scadendo nella furia più cieca, lo sentirà lentamente affievolirsi e poi insegnargli il valore di quello che può ancora vivere. Mi sentirà, Grace. Vivere è prima di tutto sentire. E sentirsi. E tu mi hai sempre sentito benissimo, bambina mia, vero?».

Grace annuì, incapace di replicare, e sebbene le parole di Dio avessero senso, le risultava difficile vedere Michele in quello stato.

«Ma perché sono finita qui?», chiese, forse più esasperata di quanto volesse apparire.

«Un attimo di pazienza ancora, Grace», ribatté D, che cominciò a contare.

Tre, due, uno e…

«C’è nessuno?» Una voce femminile ruppe il silenzio, Grace e D voltarono la testa verso l’ingresso.

Una donna, una giovane donna, era appena entrata nel locale e dal passo veloce mostrava fretta.

Era alta, di carnagione olivastra, aveva mossi capelli castani e occhi talmente scuri da sembrare neri. Indossava una blazer grigio e un paio di jeans blu elettrico, infilati in degli stivali dai tacchi alti e con i lacci a croce.

«Buongiorno», disse a Michele, appoggiandosi con i gomiti sul bancone. «Posso avere un caffè? E, se lo avete, prenderei anche un muffin al cioccolato».

«Non lo abbiamo», rispose Michele, non in modo propriamente secco, ma nemmeno tanto gentile, «E questo non è un bar, signorina, ma un pub. Non siamo ancora aperti».

Grace alzò gli occhi al cielo.

“Ci risiamo?”

La donna non si scompose e dopo essersi sistemata gli occhiali da sole in testa, per evitare che i capelli lasciati liberi le svolazzassero davanti agli occhi, prelevò il portafogli dalla borsa.

«Guarda che te lo pago il caffè», tenne a precisare.

«Non mi preoccupo di un caffè», ribatté Michele. Si asciugò le mani con uno strofinaccio e lo ripiegò sotto il bancone.

«Quindi che ti costa prepararmene uno?», insistette lei.

«Mi costa che il locale non è ancora aperto, che se ti beccano qui sarò poi io quello che si beccherà una bella multa per il mancato rispetto degli orari d’apertura e che, se proprio lo vuoi sapere, a meno di cinquecento metri da qui c’è un altro bar pronto a riempirti di caffè. Buona giornata».

Grace e Dio si scambiarono un’occhiata perplessa.

«Pensavo di avergli insegnato meglio…», mormorò Grace.

«Aspetta, Grace, aspetta», suggerì D.

«Posso avere un bicchiere d’acqua almeno?».

Michele grugnì una risposta che poteva passare benissimo per “Sì, certo” e anche per “No, fuori dalle palle” nello stesso momento, ma per fortuna decise di non rifiutare e le versò il bicchiere d’acqua che aveva richiesto.

«Spero non glielo faccia pagare!», commentò Grace, corrucciata. D tossicchiò.

«Grazie», disse la giovane. Prese delicatamente il bicchiere in mano e fece per portarselo alla bocca, poi, d’un tratto, ecco che il suo braccio scattò in avanti rovesciando tutta l’acqua sulla testa di Michele.

Grace sgranò gli occhi.

«Mi sono sempre piaciuti i battesimi», ammise Dio, «Sanno di nuovi inizi, non credi?».

«La prossima volta…», lo avvertì la donna, «… cerca di usare un po’ più di grazia con chi, a differenza tua, sa mostrarsi civile. E magari dì al tuo capo di appendere un cartello con gli orari di apertura contro quella dannata porta!» E dopo avergli lasciato qualche moneta sul bancone, si diresse veloce all’uscita, così come era entrata, mentre un ancora interdetto Michele fissava il bicchiere vuoto con cui era appena stato umiliato.

Non che non se lo meritasse.

«Che fa, resta lì? Ora la seguirà, no? Ora si scuserà, giusto?», suppose Grace.

«Tu sì che lo conosci bene!», esclamò D.

Michele si slacciò il grembiule e lo gettò a terra correndole dietro. Grace e D fecero altrettanto.

La donna era appena entrata in macchina e aveva già acceso il motore, quando Michele si appoggiò sul cofano.

«Aspetta!», esclamò, «Aspetta, fermati!».

La portiera si aprì di scatto.

«Ma sei diventato matto?», gridò scendendo la giovane, «Stavo quasi per mettere in moto, idiota! Volevi farti investire?».

«Volevo… scusarmi» Michele la guardò negli occhi.

«Per essere stato un cafone?».

«Per aver perso il controllo, prima. Scusami, tu non c’entri niente, ma oggi per me è una giornataccia e… no, okay, non ti interessa. Io…».

«Mi interessa invece…» La donna incrociò le braccia al petto.

«Oggi è… l’anniversario di morte della mia ragazza», rivelò Michele, «E… sono un po’ incazzato. Ormai sono due anni che lei… be’, hai capito, no?».

Grace sgranò gli occhi.

La ragazza sgranò gli occhi.

Dio sorrise.

«Bingo!», esclamò.

«Ho capito», replicò lei, l’irritazione la abbandonò di colpo. «Giornata nera. Be’, mettiamola così, io invece ti ho mentito».

Fu il turno di Michele per mostrare sconcerto.

«Mi hai mentito?».

«Sì, ecco, non volevo un caffè. Volevo solo vedere il Fortuna. Ho scoperto qualche settimana fa le storie della tua ragazza e me ne sono innamorata. E così ho fatto una ricerca su di lei e ho scoperto… be’, tutto quanto, compreso il centro Calla. La sua storia mi ha colpito molto e volevo vedere il locale che aveva menzionato in una sua vecchia intervista. Non pensavo fossi tu il suo ragazzo, che fossi tu quel Michele, credevo fossi uno dei tuoi dipendenti quando sono entrata. Non credevo ti avrei trovato qui proprio oggi. Mi dispiace, se lo avessi saputo, non avrei insistito».

Michele fece un passo indietro, Grace vide un lampo di rabbia scorrergli negli occhi e farsi assorbire quasi subito da una sorta di divertimento.

Fu un sollievo, per lei e per D, anche se tanto D sapeva già tutto.

«Non ho dipendenti», ribatté, «Ma visto che, a quanto pare, abbiamo entrambi delle scuse reciproche da accettare, che ne dici se ti offro un caffè?».

Lei non se lo aspettava, era evidente. Grace sapeva come Michele riuscisse sempre a sorprendere, quando voleva farsi perdonare qualcosa.

«Mi piacerebbe molto… Michele».

Michele le sorrise.

«Posso sapere il tuo nome?».

Lei chiuse la portiera della macchina e inserì l’antifurto. Tutta la furia di poco prima si era come dissolta.

«Io mi chiamo Faith».

 

* * *

 

«Non sono gelosa», disse Grace, a passeggio con D fra le vie della città, tornati al presente, «Insomma, forse dovrei esserlo, ma non lo sono. Non posso esserlo, capisci? Non voglio saperlo solo. E so che se ho visto l’incontro con quella donna è perché quella donna sarà… è stata importante per lui, vero?».

«Certo, Grace», rispose D. Un ragazzino sullo skateboard Gli passò vicino, ma non lo urtò e sul suo volto Grace vide dipingersi un improvviso e quanto mai inspiegabile sorriso.

La presenza di Dio.

Era ora di pranzo, l’ora di punta aveva maledetto le strade come ogni giorno e il traffico avanzava a singhiozzo. Si sentivano clacson, grida, qualche secondo e suonò la campanella di una scuola vicina. Grace amava quel senso di vita che le avvolgeva la pelle, ma allo stesso tempo non la sentiva più sua.

«E certo che non sei gelosa», riprese D. «La gelosia è un sentimento puramente terreno, è un modo per determinare il possesso, in un certo senso. È un sentimento che ha creato Adamo, se lo vuoi sapere, e io gliel’ho lasciato fare. Volevo che Adamo imparasse a controllarlo e imparasse a controllare ciò che provava per Eva. Dopo averli osservati a lungo, ho scoperto che la gelosia sa anche essere divertente in una coppia innamorata, se ben dosata e mai maligna. Le persone hanno bisogno di sentirsi preziose e, Mio malgrado, la gelosia che generano trasmette anche questa sensazione ad alcune. Ma fai attenzione, Grace, molti confondono la gelosia con l’invidia e quest’ultima non è affatto divertente».

«Ma perché non provo gelosia? Io amo Michele e voglio che sia felice, e allo stesso tempo so che vederlo vicino a un’altra donna dovrebbe farmi impazzire, invece non lo fa».

«Proprio perché lo ami, Grace. Proprio perché la gelosia è un sentimento puramente terreno, tu non lo provi più. In Paradiso ti sei liberata di ogni sentimento superfluo, hai percepito il vero amore e il vero amore non ha un possessore, solo un ricevente».

«Sa quasi di fregatura questo Paradiso, D…», Lo punzecchiò Grace con il dolcissimo sorriso attraverso il quale Dio le perdonava sempre tutto, anche il suo continuo rifiuto per Baudelaire.

D sorrise e, per un attimo, il mondo restò in silenzio.

 

* * *

 

D decise di farle da cicerone nel passato di Michele e Grace accettò di buon grado.

Il caffè offerto a Faith presto si era trasformato in un incontro al parco.  Avevano preso un gelato e chiacchierato del più e del meno. Nonostante fosse stato tutto piuttosto tranquillo, Michele si era dimostrato un interlocutore abbastanza difficile da interpretare e Faith, sorprendentemente, aveva dimostrato una grande pazienza nel rispettare i suoi tempi.

«Lei mi piace», commentò Grace, «È energica, è allegra. Michele ne ha davvero bisogno».

«È paziente soprattutto», ammise D, «E non possiamo certo dire che con Michele di pazienza ce ne voglia poca».

Anche stavolta, Grace era rimasta a distanza di sicurezza. Aveva notato che se si azzardava a toccarlo, Michele cambiava quasi subito espressione, rabbrividiva o si voltava.

«Sente la tua presenza, Grace…», le aveva rivelato D dopo un po’, forse notando che non ci arrivava da sola, «Ti ama ancora, no?».

«Ma è il passato!», aveva protestato Grace, «Come è possibile?».

«Io sono il Tempo, Grace. Con Me muta sempre tutto, se lo voglio. Anche il passato».

«Be’, non mutarlo per me, per favore».

«Allora non toccarlo. E osserva».

E Grace aveva obbedito. E Michele, a poco a poco, aveva ripreso il sorriso.

Grazie a Faith.

 

* * *

 

Una delle qualità che Grace apprezzava di più in Faith era che riusciva sempre a spingere Michele verso qualcosa di nuovo.

Per il loro primo vero appuntamento aveva scelto un ristorante giapponese poco lontano dal centro; Michele, però, non amava la cucina giapponese e accettò di andarci solo perché lei gli aveva promesso che sarebbero usciti a mangiarsi una pizza qualora lui non avesse trovato nulla di commestibile.

Michele amò la cucina giapponese, soprattutto i ravioli, e Faith, grata per la fiducia, stabilì che toccava a lui decidere il ristorante per il prossimo appuntamento; era temeraria la ragazza, non aveva paura del rifiuto e non per vanità, era semplicemente una che preferiva strapparsi subito il cerotto dolente e poi non pensarci più.

Michele propose il messicano e Faith accettò con entusiasmo.

Una battuta, una risata e sempre molta attenzione a non menzionare Grace. Faith, per parte sua, non aveva timore di esporsi e a poco a poco raccontò a Michele tutti gli eventi significativi del proprio passato, anche del suo divorzio. Michele non mostrò la minima sorpresa e Grace fu molto fiera di lui quando lo sentì dire: «Gli errori capitano, non possiamo incolparci per aver sperato di amare. Ci si prova, a volte si vince e a volte si perde». Ma pensò di sciogliersi come neve al sole quando lo sentì aggiungere: «Io? Io Grace l’ho persa, ma ho vinto. Tutto quello che lei mi ha lasciato, tutto il suo amore non è andato perduto».

“Oh, Michele. Amore mio. Certo che non è andato perduto, è ancora in mezzo a noi, io sono qui con te!”, avrebbe voluto dirgli, avrebbe voluto urlargli.

«E come potrebbe?», ribatté Faith dolcemente. Allungò una mano sul tavolo sino a coprire la sua, senza alcuna malizia, forse solo bisognosa di un contatto, forse abbastanza altruista da decidere di offrire conforto con un semplice gesto all’uomo insieme al quale stava vivendo un bell’appuntamento… e che le aveva appena parlato dell’amore per un’altra donna.

«Non ho conosciuto Grace», proseguì, «Ma le sue parole… le sue parole, Michele, quelle mi sono entrate dentro. E a poco a poco ho come sentito…», s’interruppe, scuotendo la testa. Michele non ritrasse la mano e incalzò Faith con un cenno del mento.

«Lascia perdere», protestò lei, un sorriso imbarazzato sulle labbra.

«No, dai, mi interessa. Cosa hai sentito?».

«Mi prenderai per pazza».

«Ti ho detto che penso di aver conosciuto Dio e non sei ancora scappata urlando. Ormai cosa può esserci di tanto assurdo?».

«Già, figliolo…», sbuffò D, a poca distanza dal loro tavolo, «… quella è stata una mossa azzardata».

«Lei è così carina!», soffiò Grace, «Se se la lascia scappare è davvero un idiota!».

«Pensa, il Vecchio Giò ed io pensavamo la stessa cosa quando si trattava di te».

«D’accordo, d’accordo», ridacchiò Faith, «A poco a poco ho come sentito… di avere un’amica, vicino a me. Una specie di… confidente? Michele, io sono un editor, con le storie ci lavoro, ma le sue… le sue non sono mai semplici storie. Sono di più».

«Un’ombra…», suggerì Michele.

«Una speranza…», aggiunse Faith.

«Decisamente!» Grace quasi gridò saltellando, «Questa ragazza è perfetta!».

«E Io direi a questo punto di passare oltre», decretò D, che schioccò le dita un’altra volta.

 

* * *

 

Il primo bacio se lo diedero al parco, come nei migliori romanzi. O almeno era quello che credeva Grace, perché i suoi unicorni rosa l’avevano seguita anche in Paradiso.

Fu casuale, non programmato, né dall’uno né dall’altra; Michele non se lo sarebbe sognato nemmeno e Faith non avrebbe mai fatto nulla per forzarlo. Era attratta da lui, Grace lo vedeva benissimo, ma allo stesso tempo dimostrava un profondo rispetto per il fantasma che aleggiava fra loro – letteralmente, per una volta.

Poi, però, accadde l’impensabile: Faith alzò il volto verso il cielo per osservare gli aquiloni di un venditore ambulante e lo fece con un trasporto e una meraviglia talmente infantile che portò Michele a sorridere, poi, quando lei si girò a osservarlo, lui la intercettò e posò le labbra sulle sue.

Anche stavolta, Grace non provò gelosia.

«Sembra andar bene…», disse a D.

D sospirò.

«Prossima tappa».

E schioccò le dita.

 

* * *

 

Non fecero subito l’amore. In realtà, dopo il loro unico bacio, non si videro per un po’ di tempo. Ma Michele cominciò a pensare a Faith, a sentire la mancanza della sua risata, che a tratti diveniva incontenibile e contagiosa, del profumo del suo shampoo e di tutti quei dettagli inutili che lo fecero sentire patetico.

E codardo.

Perciò fu Faith, ancora una volta, a cercarlo, tuttavia lui ebbe la compiacenza di mostrarsi sorpreso e non nascose di esserne perfino un po’ sollevato. Uscirono a cena, ascoltarono un po’ di musica e al termine della serata invitò Faith a casa sua.

Grace sorrise: forse Michele stava davvero andando avanti…

Quando Faith e Michele varcarono la soglia di casa non dissero nulla di significativo. Lui le chiese se desiderava qualcosa da bere e lei accettò più per buona educazione che per reale bisogno. D e Grace la osservarono mentre si guardava intorno, forse alla ricerca di qualcosa che sottolineasse la presenza di Grace fra lei e l’uomo che non sapeva più come considerare: un amico? Un frequentante? Certo non un fidanzato.

Michele la raggiunse sul divano e le offrì un calice di vino bianco. Faith fece una battuta. Lo scherzo divenne punzecchiamento e il punzecchiamento flirt, per buona pace degli unicorni rosa di Grace.

E arrivò un nuovo bacio. E un altro. E un altro ancora.

E D disse: «Ecco, leviamo le tende. Sta per diventare una visione non adatta ai minori».

«Siamo entrambi maggiorenni», protestò Grace.

«Se Dante scoprisse che abbiamo guardato un porno senza di lui, si arrabbierebbe molto», provò a spiegarle Lui.

«Cosa c’entra Dante adesso?» Grace non riusciva a staccarsi dalla visione di Michele senza maglietta. Non c’era mai riuscita in vita, del resto.

«Ah», sbuffò D, «Si è trattato di un altro dei miei patti: vedi, questa storia dello Stilnovo è stata enormemente fraintesa».

Grace aggrottò la fronte. D continuò: «Quel geniaccio di Dante non ha fatto altro che crearsi una donna in testa, renderla perfetta rispetto a tutte le altre e sfruttarla a proprio piacimento. Siccome Gemma non era proprio il sogno erotico del tempo, vista tutta la pubblicità non richiesta che Dante Mi aveva fatto in vita, decisi di dargli una ricompensa quando salì in Paradiso e, chiamala legge del contrappasso rivista e corretta o come vuoi tu, gli promisi che si sarebbe potuto guardare tutti i migliori porno del creato da lì all’eternità. Del resto non aveva bramato altro».

«Non mi sembra molto… ehm, erotica la Divina Commedia».

«Ah, Grace!», esclamò D, «Riparliamone quando Dante ti tratterrà per un secolo e mezzo a parlare della “selva oscura” nella quale si ritrovò!».

Spazientito, schioccò le dita.

 

* * *

                                                   

D condusse Grace otto mesi più tardi; Faith e Michele non erano ufficialmente una coppia, ma non fingevano di non esserlo, e  le cose erano andate avanti abbastanza da far chiedere alla prima a che punto fossero arrivati.

«Questo forse spiegherà un po’ di cose», annunciò D a Grace. «Osserva…».

Michele se ne stava poggiato a un angolo, vicino alla porta del bagno oltre la quale si sentiva la voce sommessa di Faith. Quando Faith uscì, Michele raddrizzò le spalle di colpo. Grace non riusciva a capire cosa lo stesse spaventando tanto.

«Allora?», domandò Michele a Faith.

«Dovrò… farne un altro per sicurezza», rispose lei titubante. Era pallida, portava i capelli tirati su con una matita e non sembrava particolarmente felice. «Comunque è positivo», disse, mostrandogli un bastoncino bianco.

Un test di gravidanza.

«Oh», fu l’unico commento di Grace.

«Già», fu l’unico commento di D.

«D’accordo…», disse Michele, era chiaro che fosse a disagio. Si portò una mano dietro la testa e si strofinò energicamente i capelli. «Ne compreremo un altro».

«Possiamo almeno… parlarne un secondo?», lo pregò Faith. Le occhiaie sul suo viso suggerivano non dormisse da qualche notte.

«Parliamone solo quando conosceremo davvero il problema», ribatté Michele, abbastanza brusco da far sussultare perfino Dio; tuttavia si accorse subito dell’errore e infatti si morse la lingua.

Faith fece un passo indietro.

«Non serve», disse, «Ho saputo quello che volevo sapere».

«Faith…», Michele si girò, lo sguardo era pentito, la mascella contratta dal nervosismo.

«Lascia perdere», tagliò corto Faith. Attraversò il salone per prendere borsa e giacca dall’appendiabiti e prima di uscire dall’appartamento di Michele disse: «Ti chiamerò quando saprò la risposta definitiva».

«Faith, aspetta, per favo…».

«Ci vediamo, Michele».

Michele rimase da solo.

“Codardo”, pensò Grace.

 

* * *

 

Michele sedeva sul divano, in mezzo a Grace e D. La prima gli accarezzava lentamente i capelli, contravvenendo alla regola di non toccarlo, e il secondo gli rivolgeva insulti più o meno coloriti, iniziando da quelli preistorici per finire con quelli del secolo futuro.

«È spaventato…», cercò di giustificarlo Grace, «E sì, d’accordo, è stato cafone. Ma è Michele! Lui è fatto così! Non sa… reagire bene alle belle notizie».

«E lei è Faith», replicò D, «E di fiducia gliene ha data tanta. E lui? Lui l’ha delusa. Perché pensa ancora a te».

«Ma l’ama», obiettò Grace. «Guarda come fissa il cellulare. Lei lo ha rallegrato, gli ha portato la fede, D! Non finisce così, vero?».

«Ah, a te l’onore di scoprirlo…».

«Sei uno zuccone!», gridò Grace nell’orecchio di Michele. Non poteva credere che l’uomo di cui si era innamorata – e che amava ancora – potesse reagire così a una notizia che avrebbe solo dovuto rallegrarlo.

Lei non avrebbe mai potuto dargli un bambino… nemmeno se fosse rimasta.

Michele gettò la testa all’indietro, sospirando triste. Si portò le mani sulla faccia e si stropicciò gli occhi.

«Che devo fare, Grace?», sussurrò.

Grace conosceva quel senso d’impotenza.

«Be’», disse, «Gentile da parte sua chiedermi un parere, ma non può sentirmi, vero? Insomma, sta rovinando tutto e basta, giusto? Perché?».

«Senso di colpa», sentenziò D, «Non riesce ad accettare di andare avanti senza di te. E allo stesso tempo lo ha fatto. E si è innamorato…».

«Mi conosce così poco?» Grace si fece triste, «Non gli avrei mai chiesto di sacrificare il suo amore per conservare il mio».

«Alla fine, forse, ha solo bisogno di un po’ di fede in più…», mormorò D, pensoso.

Qualcuno bussò alla porta e Michele si precipitò ad aprire: era Faith, e sembrava più arrabbiata che delusa.

«Sai che ti dico?», esordì Faith, «Vaffanculo» Puntò un dito contro il petto di Michele  e lo spinse fino al centro del salone e dimenticandosi di richiudere la porta.

Grace storse il naso, le parolacce non le piacevano, ma c’era da dire che Michele se l’era proprio meritato quel vaffanculo, per una volta.

«Ho cercato di comprenderti, ho cercato di darti tempo, spazio, non ho mai provato a strapparti i tuoi silenzi di dosso e sono arrivata perfino a ringraziare Dio della mia logorrea, altrimenti in molte occasioni ci saremmo solamente fissati negli occhi come due grandissimi idioti».

«Faith, ascolta…» Michele provò a interromperla.

«No!», ruggì lei, «Ascolta tu: io ti capisco, ti capisco davvero. Non sarà facile, se questo bambino ci sarà, non sarà per niente facile, ma tu per lui dovrai esserci, capito? Potrai non esserci per me, ma per lui dovrai. Dovrai, Michele! Non ti permetto di tirarti indietro adesso».

«Sai cosa provo per te», disse lui, «Te l’ho detto, mi sembra».

«Si dicono tante cose durante il sesso, è quello che dici dopo che conta».

«Tu», obiettò Michele, «Tu dici tante cose durante il sesso. Io ne ho sempre detto poche, ed erano tutte vere. Sono tutte vere. Io ti…».

«Non ho mai sperato di superare lei» La voce di Faith si ruppe in un singhiozzo e Grace si aggrappò a D per l’improvvisa tristezza che l’aveva avvolta.

Quanti danni aveva combinato con la sua assenza? Quanti ne avrebbe potuti evitare, se avesse scelto di continuare a vivere? Aveva condannato quella ragazza a non avere lo stupido padre di suo figlio vicino a favore di altri incastri? Ad essere delusa un’altra volta dagli uomini?

«Non ho…» Faith tremava mentre parlava, ma il suo sguardo non si staccò mai da quello di Michele, «Non ho mai sperato che tu mi amassi come amavi lei. A volte, mentre fingevo di dormire, ti sentivo parlare con Grace, quasi in preghiera».

«Oh, Faith, mi dispiace tan…».

«Ma non fa niente! Insomma… guardami! Lei era così perfetta! Così buona! Così bella!».

«Anche tu sei bella…».

«Sì, ma non abbastanza. Voglio dire, io dico più vaffanculo che grazie, ho vinto una gara di rutti dopo aver rischiato di finire malmenata in una rissa a un incontro di rugby, sbavo sul cuscino mentre dormo, una volta sono andata a un appuntamento senza farmi i peli! E lei invece mi ha sempre dato l’idea di essere una di quelle rare donne che sanno ascoltare anche lo stronzo di turno, che non giudicano mai, che non sanno provare gelosia, che si svegliano fresche d’estetista o qualcosa di simile, che…».

«Era molto bella anche di mattina, sì, ma tu…».

«Ma io ti amo», disse all’improvviso Faith.

Grace trattenne il respiro e D, vicino a lei, sorrise. Le avvolse un braccio intorno alle spalle e sorrise di nuovo.

«Io ti amo, Michele», ripeté Faith, perché fosse ben chiaro, «E questo concedimelo: ti amo quanto ti amava lei. Ti amo abbastanza da non pretendere di averti. E sì, sì! Semmai avrai un’altra donna, un giorno, probabilmente morirò di gelosia, ma non importa, Michele. Non mi importa più. Io speravo solo di riuscire ad essere abbastanza per farti credere in qualcosa in più, che ci fosse ancora qualcosa di bello a questo mondo, che l’amore che ti ha dato Grace tu potessi darlo di nuovo a qualcuno».

«Faith, se solo…».

«Mi dispiace, ho combinato un bel casi…», fu costretta a interrompersi, perché Michele l’aveva appena tirata a sé e aveva appena affondato il volto nell’incavo del suo collo, senza permettere di ritrarsi, di respingerlo, di andarsene. Michele l’abbracciò come avrebbe abbracciato uno scoglio in un mare nel pieno della tempesta, l’abbracciò come aspettava di essere abbracciato da quasi tre lunghissimi anni, l’abbracciò come avrebbe abbracciato il futuro, e non un futuro qualsiasi, un futuro roseo, pieno di promesse, felicità, progretti e… fede.

Poi la baciò e la baciò a lungo, come mai aveva fatto prima, come mai avrebbe pensato di poter fare di nuovo, con ardore… e un pizzico di anima.

La baciò come aveva sempre e solo baciato Grace: senza tormenti, solo fiducia.

Perché la fiducia era un dono, ma la fede… be’, quella una vera benedizione di Dio.

«Ben fatto, Michele», disse Grace, prima di dissolversi verso il presente.

 

* * *

 

«Adesso conosci alcuni degli eventi più significativi del passato di Michele», le disse Dio.

Erano di nuovo di fronte al Fortuna, ma stavolta si trattava del Fortuna nel presente.

Grace sentiva la pelle formicolare. Non sapeva cosa l’aspettasse oltre quella porta, cosa ci fosse ancora da scoprire, ma sapeva che, qualunque cosa avesse visto, sarebbe stata la risposta a tutte le sue domande.

E forse a tutte le sue speranze.

D’un tratto, comparve Michele, ma no, non il suo Michele, l’arcangelo Michele. Brandiva la spada e sembrava piuttosto sconvolto.

«Perdonate l’interruzione, Padre», disse a D, «Ci sono novità…».

«Ah, sì?» D si voltò a guardare il figlio, «E di che si tratta, figliolo?».

«Nuovi arrivi dalla Terra, Padre. Uno è famoso».

«Oh, i vip. Accidenti. Starà scoppiando un casino immagino, chi stavolta?».

«Pino Daniele, Padre. È ancora un po’ incredulo…».

«Pino! Oh! Pino è qui? Accidenti, devo andare subito ad accoglierlo, sicuramente avrà tante domande!».

«In realtà sta cantando a richiesta», rivelò l’arcangelo.

«Un motivo in più per raggiungerlo subito allora, non credi? Grace, cara, ti lascio. Ormai sai cosa fare».

Grace sgranò gli occhi, non si sentiva pronta a scoprire il presente di Michele senza D vicino e…

Ecco, l’avevano già lasciata.

“E adesso che faccio?”, pensò, presa dal panico.

Usa l’intuito.

Non le restò che avanzare.

Oh, un momento: dal Fortuna era appena uscito qualcuno. Indossava un cappello di lana, un giubbotto nero e pesanti jeans scuri. Teneva un bambino di quattro anni in braccio e…

Michele.

Quello era Michele!

E quello… quello doveva essere suo figlio!

«Papà, quando arrivano gli zii?», sentì il bambino domandare.

Papà.

Alla fine Michele aveva avuto un maschietto, un bel maschietto biondo, con gli occhi azzurri uguali ai suoi.

«Presto, Arthur, presto», gli rispose, «Devono ancora arrivare la mamma e Grace».

Be’, questo Grace proprio non se lo aspettava. Che vuol dire che la stavano aspettando? La stavano aspettando? No, impossibile.

Aggrottò la fronte e col cuore in gola fece per avvicinarsi a loro; in quello stesso istante, però, una Land Rover accostò a pochi metri dall’ingresso del locale e Grace vide Faith scendere, aprire la portiera posteriore e prelevare da un seggiolino per neonati un dolcissimo fagotto rosa: una bambina di pochi mesi molto somigliante al fratellino.

Grace.

«Eccole qui le nostre donne!», esclamò Michele. Il bambino si slanciò verso la mamma e il padre prelevò l’ultima nata dalle braccia di quest’ultima, con uno sguardo così pieno d’amore e gratitudine che lo stesso bambino si soffermò per qualche istante a osservarlo.

«Mamma, l’hai portata la torta?», chiese il piccolo, impaziente come solo un compleanno sa rendere impazienti i bambini – specialmente il proprio.

«Sì, tesoro, stai tranquillo», lo rassicurò Faith, «La mamma l’ha già presa. Tu e papà invece ve le siete ricordate le candeline, vero?».

«Oh, cazzo! Le candeline!», esclamò Michele, pronto a sbattersi una mano in fronte.

«Un euro!», gridò il piccolo Arthur.

Il padre gli lanciò un’occhiataccia.

«Chi credi che te la pagherà l’università, Shylock?», protestò.

«Io non ci voglio andare all’univertà, voglio comprare le caramelle!».

Grace-grande scoppiò a ridere: e bravo Arthur, che aveva capito tutto.

E bravo Michele, che aveva capito tutto anche lui.

E bravo D, ad aver donato la fede agli uomini così che sentissero le seconde chance.

Dal cielo presero a scendere grandi fiocchi di neve e l’allegra famigliola alzò il mento per assistere allo spettacolo. Arthur gridò entusiasta e Grace-neonata preferì addormentarsi contro il petto caldo del padre. C’era qualcosa di magico nella neve, Michele lo avrebbe sempre ripetuto ai suoi figli.

Grace era un respiro di neve.

A volte era un messaggio.

E a volte solo una questione di fede.

Michele abbassò il volto, Grace si sentì osservata.

Sorrisero.

Hai visto, Michele, che c’è neve ovunque?

 

*********************************

 

 

Note

 

Questa fanfiction non vuole essere blasfema, ma repelle chi fa scarso uso dell’ironia.

 

Trentatré è uno di quei romanzi che una volta letto non puoi fare a meno di portarti dietro. E se sei una fanwriter la questione si complica, perché si sa, i fanwriter sono dei mezzi “ladri” e si appropriano di tutto quello che li ha fatti innamorare. Io, del romanzo di Mirya, me ne sono innamorata follemente e non a caso l’ho definito il romanzo più bello del mio 2014; quindi ho dovuto scriverci su. Ho dovuto farlo, perché terminata la lettura non sono riuscita a rassegnarmi e no, non sto parlando della morte di Grace (quella, per quanto dura, l’ho accettata), è che non sono riuscita a rassegnarmi all’idea di lasciarli. E così ci ho scritto su. E, credetemi, è stata dura.

Faith è volutamente molto diversa da Grace, per certi versi il suo perfetto opposto: è un po’ sboccata; quando si sveglia la mattina sembra un troll di montagna; i libri li fa pubblicare, non li scrive. Allo stesso tempo, però, condivide la tenacia e la passione di Grace per la vita, e probabilmente sono state queste le qualità che le hanno concesso di risvegliare Michele.

Il blog menzionato in questa storia, Per favore un altro libro, esiste davvero e in realtà si chiama Please another book; la stessa Mirya, in Trentatré, lo menziona. Fidatevi, saprà far piangere i vostri salvadanai. Sarebbe bello se anche noi potessimo schioccare le dita e ottenere le nuove uscite in un battito di ciglia, ma, ahimè, quella è una cosa che mi riserverò per quando salirò in Paradiso. Sperando che D mi voglia. Qui sulla Terra mi limito a consultare il blog di Anncleire.

Il passaggio che Grace riconosce in Canto non è altro che un passaggio di Canto di Natale di Draco Malfoy, una delle fanfiction della stessa Mirya.

Il riferimento all’arcangelo Uriel e a Baudelaire è molto semplice da spiegare: Uriel è l’arcangelo delle arti e in special modo della poesia. L’ironia l’ho ricavata facilmente.

Per il riferimento a Maometto ho chiesto un parere a una ragazza di fede Islamica (che ringrazio tantissimo per il tempo che mi ha dedicato); il Credo musulmano impone a tutti i suoi fedeli di non rappresentare Maometto, in nessuna forma, così ho evitato accuratamente di descriverlo fisicamente o nei movimenti. Tutto ciò che dice, secondo Nourhan, è plausibile e quindi non offensivo per loro.

Il riferimento a Dante è davvero imbecille; forse Mirya non mi perdonerà.

Qui e lì, ho citato Trentatré.

Ringrazio Karin, la mia dolce assistente, per lo splendido banner; ringrazio Mirya, per avermi concesso di fondare il suo fandom; ringrazio Grace, per i suoi fiocchi di neve. E poi ringrazio chiunque si sia soffermato a leggere queste note, perché significa che siete proprio pazienti. Spero di non avervi stravolto troppo il romanzo, ma, ehi, com’è che le chiamiamo?

Fanfiction.

Ed io le scrivo sempre senza la minima pretesa e sempre piena di gratitudine per chiunque decide di leggerle.

 

Se volete, potete trovarmi qui.

Se non volete mai più sentire parlare di me, rivolgetevi a Dio.

                                                                                                        

 

   
 
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