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Autore: Love_in_London_night    04/02/2015    6 recensioni
«Torna da me» la schernì lui con un tono melodrammatico che non gli apparteneva.
«Sempre» rispose Vera ormai pronta e chinata su di lui per un ultimo, veloce bacio a suggellare la promessa che si ripetevano ogni giorno. «Ora dormi».
*
Sarei tornata da lui,
sempre, perché un amore simile si trovava una volta nella vita, e io avevo avuto la fortuna di averne due.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Montpellier

 
Espirai rumorosamente e sentii le palpebre rispondere al mio volere.
Quando tentai di riaprire gli occhi dopo quell’indefinito periodo di irreale perfezione ebbi la certezza di essere morta, almeno in parte.
 

 
*
 
 
La sera precedente, Los Angeles
 

La pace della casa riusciva a distenderle i muscoli, una reazione naturale quando si preparava a dormire.
Vera ammirava dalla vetrata alla sinistra del letto le luci di Los Angeles che donavano alla stanza un leggero bagliore che le conciliava il sonno in modo inesorabile, amava la sensazione che quel posto riusciva a donarle, rispecchiava quello che Shannon le faceva provare; ma si sapeva, una casa assomigliava sempre alla persona a cui apparteneva.
Era mezzanotte e mezza e Shannon non era ancora tornato e non si era nemmeno preso la briga di avvisare: niente di strano dato che stava provando con Jared e Tomo. Era sempre stato un uomo di poche parole, e Vera avrebbe potuto dire di amare di più i discorsi che faceva in silenzio rispetto a quello che diceva. Shannon sapeva esprimersi in diversi modi, gli sguardi e i gesti erano le sue armi più eloquenti per oltrepassare ogni barriera. Aveva imparato a conoscerlo nel corso del tempo e non se la prendeva per la mancata comunicazione, non avrebbe mai voluto interrompere il flusso creativo di quei tre all’opera.
Sbadigliò, stravolta da quella lunga giornata di lavoro e nemmeno lontanamente pronta per la riunione del giorno dopo che si teneva troppo presto per i suoi gusti, dato che le piaceva dormire.
Sistemò meglio la faccia sul cuscino, rilassò le braccia e piano sentì il respiro farsi pesante e regolare, mentre il sonno prendeva possesso del suo corpo facendole provare la sensazione di cadere nel vuoto e, un paio di volte, uno spasmo involontario.
Fu una strana pressione sul letto a farla svegliare di colpo con la convinzione che fossero passati solo pochi minuti, ma la sveglia sul comodino segnava le due e quaranta del mattino. Vera stirò le braccia mentre girava il volto verso di lui per salutarlo.
«Buonanotte» esordì Shannon dopo essersi accomodato meglio accanto a lei, ancora vestito. Le sorrise stanco ma contento: non lasciava entrare molte persone nella sua vita, ma con Vera era stato diverso. Gli piaceva tornare a casa e trovarla nel proprio letto nonostante lei avesse un appartamento suo, ma quello che più amava di Vera era come fosse riuscita a far diventare il suo profumo l’odore di casa di propria.
Sapeva di non essere perfetto, ma a lei era sempre andato bene così e l’aveva fatto sentire speciale, unico. Non era forse questo l’amore? Per Shannon sì, era sicuro di quello che provava e, per quanto non gliel’avesse detto molte volte, era certo che il messaggio fosse arrivato sempre chiaro e cristallino.
C’erano delle persone che non avevano bisogno di parole per capirsi, e loro rientravano appieno nella minoranza.
«Buongiorno» rispose lei con la voce impastata dal sonno e un sopracciglio alzato per sottolineare l’ilarità della cosa mentre con un sorriso lo prendeva in giro.
«Sono esausto». Lo faceva impazzire il fatto che lei non aprisse gli occhi, avrebbe potuto fissarli per tutta la notte senza mai stancarsene.
Shannon se l’era immaginata sempre al proprio fianco, ma poi la fantasia l’aveva stufato: aveva sempre preferito la realtà dei fatti con cui Vera riusciva sempre a manifestare la sua presenza. Si compensavano e si completavano in modi così assurdi che a un occhio qualsiasi non sarebbe stato chiaro, eppure loro sapevano cosa c’era dietro un gesto o uno sguardo, e tanto bastava.
«Ma contento» concluse Vera per lui.
«Ma contento, sì. Abbiamo provato fino a venti minuti fa, ma siamo riusciti a finire la prima canzone dell’album nuovo. E ci piace, ci piace da morire».
Vera lo amava perché riusciva a essere sempre entusiasta, qualunque cosa facesse. Era la sua forza più grande e, unita alla determinazione, Shannon risollevava chiunque gli stesse intorno, lei per prima.
«Sai cosa ci vorrebbe ora?» gli chiese lui con lo sguardo accattivante dal taglio selvaggio che tanto lo caratterizzava mentre le cingeva la vita con un braccio per averla così vicina da affondare il naso tra i capelli castani. Non riusciva a stare senza simili gesti.
«No, cosa?» Vera mise la mano su quella di lui portandola tra il seno e il cuscino, iniziando ad accarezzarla e avvicinandosi ancora più. Shannon era fuoco, la scaldava meglio di qualsiasi trapunta sotto la quale cercasse rifugio, era il tepore che aveva sempre cercato nella sua personale freddezza.
Lui le sorrise con le labbra appoggiate al suo orecchio, cosa che la fece rabbrividire di piacere. «Coccole. Tante coccole. Una marea, per intenderci. Quelle che riescono a farmi addormentare».
Un bambino di quasi quarantacinque anni. Eppure Shannon non si vergognava di chiedere affetto, perché sapeva di aver riposto fiducia nella persona giusta. Non c’era nulla sbagliato nel domandare una cosa simile, né a sentirsi coccolare come quando si era piccoli; era proprio la sua chiarezza a renderlo uomo con quell’aura pura che lo contraddistingueva.
La liberò dalla sua presa per permetterle di girarsi e guardarlo con aria di sfida.
«Sei talmente stanco che non ne avresti nemmeno bisogno»
«Non fare quella emotivamente arida». La prese in giro Shannon sapendo di non allontanarsi molto dalla realtà.
«Ma io lo sono» contestò Vera mentre si stendeva sulla schiena e l’uomo si cambiava.
«Sì, ma non con me». Alzò solo un angolo della bocca carnosa mentre sfoderava lo sguardo da cucciolo bisognoso di attenzioni.
Vera fece roteare gli occhi ma lo accolse tra le braccia. Shannon si distese con la faccia sulla sua spalla e un braccio attorno alla vita della ragazza mentre lei iniziava ad accarezzargli la schiena con la mano infilata sotto la canotta scollata, entrambi rilassati e persi nella notte che portava a rievocare vecchi pensieri.
‘Io sono Vera’. Tutto era iniziato così e lei, per la prima volta, aveva percepito la concretezza e la realtà di quelle parole che le sembravano suggerire ben altro.
Si erano conosciuti lungo il molo di Santa Monica a causa di un caffè. Vera non avrebbe saputo dire il perché si trovasse lì, a dire il vero non ricordava molto di cosa ne fosse stato della sua vita prima dell’arrivo di Shannon, ma sapeva che da quando si erano scambiati ammissioni riguardo la loro strana dipendenza tutto era diventato diverso, migliore.
Era come se fossero stati destinati a incontrarsi, quasi il caso l’avesse costretta a Santa Monica quel giorno e quello dopo ancora. Prima il caffè, poi la passione per gli orologi, ma qualcosa tra loro era scattato fin dal primo incontro e nessuno dei due era intenzionato a lasciar perdere.
Vera era americana ma francese d’adozione, ma quello non le aveva impedito di riconoscere in lui Shannon Leto; seguiva abbastanza siti di gossip per essere aggiornata a riguardo, ma la cosa non le importava.
La parte che più le piaceva della situazione era lui: un uomo interessante e pieno di passioni, enigmatico e taciturno tanto da risultare perfettamente chiaro nelle sue intenzioni.
Era una persona fisica, a partire dalla presenza così imponente che era impossibile non percepire, eppure era molto altro, un qualcosa che lei aveva il desiderio di scoprire lentamente.
Era diventato parte del suo mondo un giorno per volta. Vera aveva conosciuto ogni suo aspetto e non sapeva dire quale l’avesse affascinata, Shannon le faceva girare la testa e più le stava accanto più lei perdeva lucidità.
I battiti del cuore si facevano frenetici e sincronizzati, i respiri si fondevano e i corpi avevano imparato a oltrepassare i propri limiti per diventare una cosa sola. Si erano fusi a tal punto da non riuscire a scindersi senza sentirsi incompleti.
Jared, che di solito aveva la tendenza a prendere in giro il fratello e a dare giudizi sulle sue frequentazioni, aveva deciso di tacere: sapeva cosa voleva dire essere destinati a una persona, a lui era successo e, anche se non era finita bene, ricordava il senso di appartenenza che si riusciva a provare, e vedeva che tra Vera e Shannon stava accadendo quel qualcosa che capitava una sola volta in una vita intera.
L’aveva lasciato fare, contento che il maggiore avesse trovato la felicità che non sapeva nemmeno di cercare, e felice che fosse custodita in una donna così discreta e forte.
Nonostante le cose procedessero più che bene tra i due nessuno aveva portato allo scoperto quella storia, ed era il lato che i diretti interessati preferivano di più della loro relazione: la completa intimità.
I primi baci al cardiopalma nascosti nel buio di un portone, le cene a tradimento – con del cibo portato in sacchetti ancora fumanti – consumate tra le mura di casa, i cinema più piccoli scelti con cura con film a orari improponibili, il primo ‘ti amo’, il primo ‘sei importante’, il tatuaggio a forma di chicco di caffè che si era fatta Vera nell’interno del polso per ricordarsi come tutto fosse nato.
Tutto era unico, così speciale da farli sentire fuori dal mondo e al centro di esso, in un limbo appartenente solo a loro, talmente intimo che nessuno aveva avuto il coraggio di metterci piede.
Shannon e Vera avevano trovato una dimensione, e lei per la prima volta si era sentita reale.
Era tornata al presente e, conscia del respiro pesante di Shannon, gli baciò la fronte per dargli le attenzioni che lui stesso aveva richiesto, perché se erano arrivati fino a lì era grazie al fatto che Vera gli avesse promesso di dargli tutto ciò di cui lui aveva bisogno, e a Shannon bastava lei.
«A volte le coccole sono meglio del sesso» disse assonnato a mezza bocca.
«A volte».
Lei gli accarezzò una guancia ispida prima di sentire la lontananza del corpo di lui che aveva deciso di sfruttare il proprio cuscino e lasciarla libera di cambiare posizione.
La fissò con gli occhi gonfi di sonno e i capelli arruffati e la baciò con tenerezza e venerazione prima di addormentarsi.
 
La sveglia di Vera era suonata alle sette e, nonostante avesse cercato di disattivare l’allarme il prima possibile, aveva sentito rispondere al richiamo di quel maledetto aggeggio anche Shannon.
«Ancora cinque minuti» aveva detto baciandogli il petto sfuggito di lato dalla canotta, e lui le circondò le spalle con un braccio in quel gesto istintivo che la faceva sentire sua.
«A che ora hai il pullman?» chiese senza aprire gli occhi ma con la volontà di ascoltare ogni sua singola parola.
«Niente pullman, chiamo un taxi e mi faccio venire a prendere a West Hollywood»
«Vuoi prendere una delle mie auto?» domandò cauto e un po’ più vigile.
Vera aprì gli occhi di scatto: «Per sentirmi dire che non lo merito, che non sono in grado di guidare e che questa è la tua più grande prova d’amore nei miei confronti? No grazie». Lo prese in giro. La verità era che le auto di Shannon erano un po’ troppo costose per i suoi gusti, si sarebbe sentita in colpa anche solo a guardare la carrozzeria, figurarsi se l’avesse per sbaglio segnata. Non era una danno alla guida, ma preferiva evitare a monte il problema e risparmiarsi una dose d’ansia in più, per quella bastava già la riunione.
Shannon rise divertito: «Ok, allora visto che mi conviene non insisto. Io ci ho provato, il mio dovere l’ho fatto».
Finalmente aprì gli occhi.
«A che ora vai in studio?» Vera passava i polpastrelli lungo tutto il torace di lui, ormai era sveglio, tanto valeva approfittarne.
«Per le dieci»
«Uh, così presto?» lo prese in giro. «Tuo fratello vi tiene al guinzaglio».
«Già, all’alba in pratica».
Gli diede un bacio sulla guancia, poi un altro all’angolo della bocca, sempre più incalzante.
«Scusa, se le dieci sono l’alba, ora cosa sarebbe?»
«Notte fonda». La fissò con uno sguardo carico di aspettative e fin troppo furbo, espressione che Vera conosceva bene e che la fece ridere.
«Sai cosa si fa a notte fonda?» incalzò lui.
«Le coccole?» continuò a schernirlo. «A volte le coccole sono molto meglio del sesso».
Scimmiottò la sua voce mentre Shannon, con uno scatto di reni, ribaltò le posizioni.
«Tu scherza pure» le disse divertito. «A volte sono davvero meglio. Ma questa non è una di quelle volte».
Le rubò ogni protesta con un bacio per poi toglierle la maglietta che aveva indosso.
Si sorrisero e le parole vennero meno, così come il mondo attorno a loro.
 
«Shan, sei assurdo, finirò per arrivare in ritardo!» disse Vera infilando al volo una decollété nere mentre con l’altra mano cercava di pettinare i capelli castani.
Lui, ancora a letto e con un’espressione terribilmente soddisfatta sul volto, rise divertito. «Non mi sembrava la cosa ti dispiacesse, prima».
Lo fissò a bocca aperta fingendo incredulità.
«Essere meschino!»
«L’essere meschino qui presente torna a dormire» disse prima di sbadigliare. «E ti ricorda che se non te ne vai farai tardi a lavoro»
«Per fortuna ci sei tu!» lo prese in giro per l’ennesima volta e lo vide sorridere con un angolo solo della bocca, soddisfatto.
«Torna da me» la schernì lui con un tono melodrammatico che non gli apparteneva.
«Sempre» rispose Vera ormai pronta e chinata su di lui per un ultimo, veloce bacio a suggellare la promessa che si ripetevano ogni giorno. «Ora dormi».
Gli accarezzò la guancia per coccolarlo ancora un po’, infine uscì a passo svelto dalla stanza, lasciando dietro di sé un rumore ovattato di tacchi sul parquet che per Shannon fu la migliore delle ninne nanne.
 

 
*
 
 
Montpellier

 
Ricordai tutto.
Come ero finita lì e, soprattutto, come ci ero tornata.
L’auto che sul marciapiede sotto l’ufficio mi colpì in pieno, facendomi perdere i sensi e le forze per provare a riacquistarli in futuro.
Nel momento in cui successe mi sentii come… cadere. La stessa sensazione che di solito si provava nel sonno. E, dopo quel senso di vuoto, mi sentii di nuovo padrona nel mio corpo dopo quella che mi sembrò un’infinità.
Era successo tutto a rallentatore: un’interminabile caduta che non si era fermata con il mio scontro con qualche superficie dura, ma con un sobbalzo  che era risultato ancora più traumatico.
«Veronique» sentì chiamare.
«Vero» continuò.
«Vera» il tono commosso fece annidare una lacrima nell’angolo del mio occhio.
Era tutto maledettamente sbagliato, non era quella la persona che volevo trovare al mio risveglio, non era così che doveva andare.
Non era quella la voce che avrei voluto sentire.
Aprii gli occhi e tutto si fece chiaro, pure troppo: persone che conoscevo, una stanza che non avevo mai visto, un’assenza che percepivo solo dalle vibrazioni che mi giravano attorno.
Versai una lacrima e tutti i presenti si aprirono in sorrisi umidi di pianti protratti per lungo tempo. Il mio, invece, era dolore.
Quando nel sonno si percepiva la sensazione di cadere nel vuoto si diceva fosse dovuto a un graduale passaggio dalla veglia al sonno, un atto che sottolineava il momento in cui i muscoli si rilassavano e le percezioni sensoriali venivano meno. Poi c’era la leggenda che diceva che la sensazione di cadere nel vuoto prima di addormentarsi fosse dovuta al fatto che in un’altra vita si stava morendo.
Leggende, appunto.
Fino a questo momento.
Almeno per me.
Ricordavo tutto: l’incontro  con Shannon, i baci, il saluto di quella mattina. Era stato tutto reale, io ero reale accanto a lui quanto lo ero in questa vita. Tutto era vero come il dolore che stavo provando.
Ed era insostenibile.
Non saprei dire come, ma ero finita in un diverso mio corpo in un’altra parte del mondo per un determinato periodo di tempo. Ero vissuta in un’altra vita simile e al contempo opposta alla mia.
Ero qui in coma, incosciente, e nel frattempo ero a Los Angeles – viva – con lui.
Shannon.
Sentii uno spasmo al cuore e altre lacrime scendere sempre più copiose scorrere verso le tempie. Non avevo il coraggio di parlare, né tantomeno di muovermi; avrei soltanto voluto richiudere gli occhi e tornare a sentirmi viva, non intrappolata e asfissiata dai parenti che amavo con tutta me stessa.
Ma li amavo in modo differente da Shannon.
Ero tornata a essere parte del mio mondo, ma come avrei fatto a spiegare che l’altra parte di esso se ne era andata nel momento in cui mi ero riscoperta in vita?
E perché, maledizione, ricordavo tutto quello che era successo in quella che poteva essere considerata una parentesi?
Percepivo Shan come un ricordo lontano anni luce da me, e la cosa mi faceva soffrire al punto che quasi mi soffocai con i miei stessi singhiozzi, atto che destò la preoccupazione dei presenti. Era come se avessi la certezza che lui mi avesse mantenuto in vita tutto questo tempo e, paradossalmente, ora mi sentissi morta senza di lui.
Era stato un richiamo più forte il nostro, era stato il fato.
Due persone destinate a incontrarsi. Ed eravamo stati divisi, come prima che tutto accadesse.
«Ci senti? Capisci?»
Annuii, rendendo la situazione vera, massacrando del tutto il mio cuore delicato e sconvolto. Più mi muovevo nel mio mondo e più la distanza tra me, tra ciò che ero stata e tra ciò che mi ero sentita diventava siderale, facendomi sentire più rotta di quando finii in quel letto d’ospedale.
«Quanto… Quanto tempo è passato?» la mia voce fece fatica a farsi udire e mi ferì la gola secca, così bisognosa di essere idratata.
Ricordavo tutto anche di loro.
Le voci lontane e indistinte, la musica che mi avevano fatto ascoltare, i segreti che mi avevano confessato. Erano sembrati sussurri nel vento così lontani dalla mia vita a Los Angeles, ma stavo scoprendo che in realtà erano richiami che mi erano stati riservati per riportarmi al punto di partenza nel momento in cui io ero riuscita ad andare avanti a loro insaputa.
«Sei mesi» mi disse mia madre contenta e sollevata come mai l’avevo vista, sembrava le avessero tolto di colpo dieci anni dal volto. «Sei mesi e qualche giorno».
Ero stata tanto con Shannon, considerando la mia indole solitaria, e tutto se ne era andato in pochi secondi, come se non fosse stato importante.
Mi sentivo sempre più viva, eppure dentro di me qualcosa moriva ogni secondo che passava.
Non capivo niente, non volevo capire niente, volevo soltanto correre da Shannon e dirgli che c’ero ancora, che ero presente, che avrei voluto rispettare la promessa che gli avevo fatto e volevo dargli tutto di me anche se, in realtà, se lo era già preso.
Era come percepire anche il suo dolore, perché ormai la notizia della mia morte doveva essergli giunta. Non volevo soffrisse per causa mia, nemmeno per cinque secondi.
Gli avevo promesso che sarei tornata e avrei voluto farlo, era quasi un bisogno fisico.
Shannon era diventato la mia unica necessità.
Avevo visto mio padre in lacrime correre a chiamare i dottori e io mi sentivo stupida, perché non sapevo come affrontare la situazione, me ne sentivo totalmente sopraffatta.
«Vuoi andare a casa?» mio fratello Léo mi guardava impaurito, quasi avesse potuto leggere il terrore nei miei occhi.
«Sì». Il primo pensiero fu Los Angeles, diviso tra il mio appartamento e casa di Shannon. «Voglio tornare a Los Angeles»
«Tornare?» intervenne mia madre. «Tu non ci sei mai stata».
‘Deve essere confusa’ mormorò ai pochi presenti, facendomi sentire solo stupida.
Videro i miei occhi riempirsi di nuove lacrime, sentii chiaramente uno squarcio nel mio stomaco aprirsi e inghiottire le mie ultime, esili speranze. Non potevano capire, nessuno avrebbe potuto.
Avevo vissuto quella che tutti consideravano una leggenda e, come punizione per averne goduto appieno, ne ricordavo ogni singolo dettaglio con la consapevolezza che non sarebbe più stata possibile.
Avevo bisogno di una prova che mi dimostrasse che non ero diventata pazza, così alzai il polso destro e fissai la parte tra le vene e la mano, sospirando di gioia. Non era proprio un tatuaggio, sembrava quasi…
«Oh, un nuovo neo». Constatò mia mamma con curiosità dopo che si accorse cosa stavo guardando.
«No». Scossi la testa senza esagerare, il mio corpo era ancora intorpidito quasi rifiutasse di essere in Francia, almeno in una cosa mi era amico. «È un tatuaggio che ho fatto poco prima dell’incidente».
D’altronde era una verità anche quella.
«Devo andare a Los Angeles» mormorai un po’ troppo ad alta voce, mordendomi la lingua per il mio errore mentre mi mettevo a sedere con la dovuta calma.
«Non avere fretta Vera».
Ma io ce l’avevo quella dannata fretta. Avrei fatto tutti gli accertamenti immaginabili, avrei parlato da sola con i medici, avrei fatto di tutto pur di uscire il prima possibile da quella stanza e salire sul primo volo diretto in California.
Mi sarei data al massimo due settimane di tempo, non di più. Non volevo correre il rischio di iniziare a dubitare di quello che ricordavo, non volevo che Shannon potesse dimenticarmi o pensare di essersi sognato tutto.
«Appena ti rimetti prometto che ci andrai». Léo mi strinse la mano. Forse pensava che fosse solo il capriccio di una persona che si riscopriva viva, ma almeno aveva percepito quanto per me la cosa fosse di vitale importanza. «Vado a casa e ti prenoto due biglietti aperti».
Annuii più tranquilla.
Avrei fatto tutto per Shannon, perché avevo la certezza che fosse la mia persona; inoltre gliel’avevo promesso, ed ero famosa per essere una che le promesse le manteneva.
Era stato il destino a farci incontrare e a far sì che io mi innamorassi di lui, non avrei permesso più a niente di dividerci ancora.
Sarei tornata da lui, sempre, perché un amore simile si trovava una volta nella vita, e io avevo avuto la fortuna di averne due.


 


Non sono stata risucchiata da un buco nero, no. Sono impegnata con la tesi, ma questo mese dovrebbe essere l'ultimo sforzo per la scrittura, spero.
Questa shot è stata una pausa appunto dai soliti impegni. Nata da un tweet in cui si parlava della sensazione di cadere nel vuoto e la sua relazione con la morte in un'altra vita, abbozzata nei miei frequenti viaggi in treno di questi giorni e scritta in una sera, quindi abbiate pietà di me. E nata anche perché in un gruppo fb si parlava di un possibile contest riguardante le storie al contrario, e qui in parte il tema si tocca. Insomma, il contest ha messo insieme i pezzi e acceso la miccia del mio interesse.
Non credo molto alla faccenda, ve lo dico subito, ma l'idea mi affascinava e ho pensato fosse un punto ideale attorno a cui costruire una shot. Spero solo che non paia così surreale come a volte è parsa a me, e spero anche che il "doppio" narratore sia apprezzato, ma volevo che Vera avesse spazio per spiegare al meglio la cosa. Tra l'altro... Vera. Sì, la scelta del nome/soprannome era voluta, come la frase "Io sono Vera". Mi diverto con poco, lo so.
Devo dire che come esperimento è stato strano, ma mi è piaciuto, spero che anche per voi possa essere così.
Ho finito di rompere, quindi torno ai miei doveri, a presto!

Se non lo sapete mi trovate qui, anche se con una collaborazione minore (che però amo):
Whoopsie!
Xo, Cris.
   
 
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