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Autore: flood    04/02/2015    0 recensioni
Mi chiamo Camille.
Camille Hudson.
Ho sempre amato la scuola e per questo mi sono sempre sentita strana.
Adesso non voglio più metterci piede, ma mi sento strana ugualmente perchè qualcosa si muove in me.
Qualcosa di vivo: lo sento; scalcia.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi chiamo Camille. 
Camille Hudson.
Ho sempre amato la scuola e per questo mi sono sempre sentita strana.
Adesso non voglio più metterci piede, ma mi sento strana ugualmente perchè qualcosa si muove in me.
Qualcosa di vivo: lo sento; scalcia.
La colpa di tutto, della mia paura per la scuola e di questa presenza nel mio ventre, si chiama Nathan.
Nathan Duvran.
Dal primo momento in cui l'ho incontrato qualcosa si é scatenato nel mio stomaco, ma all'ora erano solo innocue farfalle.
L'ho amato, davvero.
Non mi importa delle tante teorie sull'infondatezza degli amori adolescenziali.
Io so cosa sentivo e, dannazione a lui, era il sentimento più vero e profondo che avessi mai provato.
E non venitemi a dire che era perchè sono ancora giovane, non è questione d'età.

Mi chiamo Nathan.
Nathan Duvran.
Ero quel tipo di ragazzo popolare e conosciuto da tutti, lo ero davvero.
Finchè non ho perso Camille.
Camille Hudson, il mio primo amore.
Eravamo Cami&Nat, Nat&Cami, la coppia più famosa della scuola, la coppia apparentemente destinata a qualcosa di grande.
E così è stato.
Beh, per ora, a dir la verità, è qualcosa di piccolo, ma cresce ogni giorno di più.
In lei.
Senza Camille non sono più io.
La amo ancora così tanto che sono ormai un tipo chiuso, introverso.
Passo le giornate a pensare a lei, per poi ricordarmi come e perchè è finita tra noi e continuare a far vagare la mente durante la notte.
Non dormo, arrivo a scuola in uno stato pietoso e quando la sua assenza in aula mi colpisce,
e lo fa ogni giorno,
peggioro ulteriormente.
Sono stato un codardo.
La mia non è più vita.
Forse perchè la mia vita era lei.

 
Sono diventata un argomento di conversazione per chiunque.
Ovunque mi trovi posso star certa di attirare l'attenzione di tutti, di avere gli occhi delle persone addosso.
La loro visione di me è cambiata in così poco.
Ma, al diavolo la gente.
Il vero problema è la mia famiglia.
Se ancora si può chiamare in questo modo.
Mio padre, nel limite del possibile, sta accettando la situazione, o forse vuole solo accettare me e sta cercando di digerire questo amaro boccone.
Viviamo ancora di sorrisi forzati e veli pietosi stesi sulla delusione che gli ho provocato, ma dopo qualche mese il nostro rapporto è lievemente migliorato, vuole facilitarmi.
Mia madre invece è rimasta troppo segnata, è divenuta un'estranea, di quelle che ti squadrano dalla testa ai piedi ogni volta che le incontri.
Non so se mi guarderà mai piú senza quella faccia sconvolta.
Si vergogna di me, è evidente.
Per fortuna c'è mia sorella Meg.
Lei, ogni tanto, mi sembra l'unica che mi consideri normale. Chiacchera, scherza, addirittura su ciò che sto passando. Nessun'altro ne ha il coraggio.
Anche Brian infatti, mio fratello, mi dà l'impressione che creda sia un alieno.
Stare in casa è una vera impresa, forse la più difficile.

 
Sento la gente che mi chiama 'quello che ha messo incinta la sua ragazza'.
Capisco quanto a Cam possano dare fastidio pettogolezzi del genere,
per di più visto che si 
porta dietro l'apice dell'interesse comune. Lei ha in sè la prova decisiva, per così dire.
Non può nascondere nulla, non basta abbassare lo sguardo.
La capisco.
Ma non per questo può lasciarmi solo e chiudersi in casa.
Ho bisogno di lei al mio fianco.
Quante cazzate.
È giusto che lei non esca, perchè non vuole vedermi, lei mi odia, ha ragione.
Io sono stato un vigliacco.
E lo sono tuttora, altrimenti starei tornando davanti al suo portone e combattendo uno sciopero della fame per farmici parlare.
Dovrei scusarmi e prendermi le mie responsabilità.
Dovrei fare la scelta giusta, pagare per i miei errori, dimezzarle il peso di questa croce.
Invece sono solo un fifone.

Quel giorno era come tanti altri.
Il mio ragazzo mi salutò di fronte all'entrata dell'istituto con un bacio a stampo e venne subito circondato dai suoi amici.
Aveva smesso di far girare le teste delle giovani snob che gli andavano dietro da quando stavamo insieme.
Non aveva occhi che per me e io riponevo in lui tutta la fiducia possibile.
Andammo ognuno nella proprio aula, rivolgendoci un'ultima occhiata fugace e potemmo rivederci solo durante l'intervello, che lo trascorremmo a ridere e scherzare come bambini.
Chi l'avrebbe mai pensato che da lì a poche ore avrei scoperto dell'esistenza di un terzo bambino.
Di un bambino nostro, figlio di due bambini.
È questo che pensai il pomeriggio,quando mi ritrovai di fronte a due striscette blu,prima di venire assalita da mille pensieri, mille paure.
Il mio organismo non volle, però, che mi perdessi in interrogativi ancora troppo grandi e complicati per la mia testa sconbussolata dall'accaduto e mi ritrovai quindi sul letto bianco di una tiepida stanza d'ospedale.
Ero svenuta e mia madre mi aveva trovato sul pavimento.
Sembrava tranquilla, il test doveva essere finito sotto il lavandino o in qualche angolo remoto del bagno e, a quanto pareva, fortunatamente nessuno l'aveva trovato.
Non ancora.
Ma ospedale era uguale ad analisi.
Mi si fermò il cuore al pensiero che qualcuno potesse dar voce al mio segreto.
Avrei voluto condividerlo solo con Nat.
Dov'era?

La nostra prima volta avvenne nello spogliatoio della palestra dove Camille prendeva lezioni di arti marziali.
Può sembrare squallido,ma avevo organizzato tutto alla perfezione.
Candele, cioccolatini, qualche palloncino rosso e un materasso al centro della stanza.
Era il nostro anniversario e mi ero accordato con tutte le sue compagne affinchè andassero a cambiarsi nello spogliatoio accanto, quello maschile, e la conducessero da me, da sola.
Sapevano che ero un tipo romantico e andò tutto secondo i piani.
Un sorriso piacevolmente sorpreso e qualche gridolino dopo ci ritrovammo uno sull'altra a scambiarci i baci più passionali che ci fossimo mai dati.
La fermai soltanto per controllare che la palestra fosse ormai deserta e chiudere a chiave la piccola stanza, per poi tornare ad assaporare la sua pelle sotto al kimono, che presto sparì insieme ai miei indumenti.
Dominava una passione ardente e le precauzioni furono l'ultimo mio pensiero.
Non avrei mai immaginato che sarebbe stata così decisa e disinvolta, che avrebbe davvero voluto vivere in quel luogo qualcosa di così magico.
Per questo quella fu la nostra prima, ma ultima volta.

 
I medici non potevano nasconderlo ai miei genitori.
Pregai più e più volte l'infermiera con le lacrime agli occhi, ma in risposta ricevetti solo un 'andrà tutto bene' di circostanza.
Peccato che il tutto bene per la maggioranza della gente è l'eliminazione del problema.
Al solo farsi avanti in me di questa possibilità persi nuovamente i sensi e questo mi fece risparmiare le sfuriate di mio padre.
Nat mi raccontò delle sue grida che rimbombarono nell'intero reparto, rivolte soprattutto a lui, a differenza di mia madre che non pronunciò una sola parola.
La notizia la colpì in pieno e la ruppe.
Mia madre da quel momento non fu più la stessa, ma neanche il mio ragazzo.
Quello che aggiunse dopo,infatti, fu la causa del nostro addio.
Me lo propose, pensava fosse l'opzione migliore, era d'accordo con i dottori e mio padre.
Mamma non aveva espresso la sua opinione, ma era chiaro che non avrebbe sopportato la continuazione di quest'incubo.
Al solo sentir uscire dalla bocca che amavo baciare la parola 'aborto', colpì il viso di Nathan con tutta la forza che potevo.
Schifoso traditore.
Voleva cancellare il suo errore, il nostro, senza tanti drammi.
Come poteva anche solo pensare che fossi una ragazza così insensibile?
Pensavo mi conoscesse meglio di chiunque altro, ma, ancor di più, pensavo io di conoscerlo davvero ed, evidentemente, mi sbagliavo di grosso. 
Il mondo mi era caduto addosso.
 
Quando scoprì che Cami era in ospedale corsi da lei immediatamente.
Mi avevano anticipato solamente che era svenuta, ma il modo in cui mi accolse suo padre doveva decisamente derivare da qualcos'altro.
Mi urlò contro che avevo approfittato di sua figlia, che ero un maniaco, che avevo sporcato la sua bambina.
L'ipotesi che qualcosa in palestra fosse andato storto mi raggiunse subito, ma non avevo il coraggio di rifletterci davvero.
Un'infermiera confermò il mio timore e, senza darmi tempo di pensare, mi parlò delle opzioni e mi condusse nella sua stanza.
Non avevo realizzato niente, esposi soltanto a Camille ciò che mi ero stato detto, ma ciò che ricevetti furono cinque dita sulla guancia.
Non capivo, ero più stordito che mai, sembravo la fotocopia della signora Hudson.
Nel dubbio, decisi di scappare.
Corsi,senza prendere fiato,verso l'ignoto,verso la chiarezza che tardò ad arrivare.
Ecco l'errore più grande della mia vita: questa fuga, dettata da una stupida, folle e troppo intensa paura delle conseguenze.

 
I giorni successivi furono un misto di talmente tante emozioni che dovetti rimanere in ospedale dal peso che sentivo sul cuore.
Poche erano le mie certezze: ero sola e non volevo vedere nessuno.
Per il feto provavo sentimenti contrastanti, la quale battaglia contribuiva al mio stato catatonico.
Ed è così che trascorsi tutti i mesi a venire, fino ad oggi.
Oggi, la data in cui lui o lei verrà al mondo.
Sono in sala parto e la paura mi divora, solo metà della mia famiglia ha avuto la forza di accompagnarmi.
E, d'altronde, lo stesso vale per chi sta per nascere: non ha altro che me ad aspettarlo, l'altra metà di lui non si è fatta viva più.
Non una visita, non una telefonata.
E io mi sono imposta di dimenticarlo.

 
Smisi di andare a scuola anch'io.
I miei genitori facevano un milione di domande, ma la depressione mi impediva persino di guardarli negli occhi.
Mi rifugiai nel mutismo e trascorsi il periodo più buio della mia vita.
Ma, questa mattina, si accese una piccola luce.
Il mio cellulare squillò e, come facevo ormai da tempo, guardai lo schermo pronto a riattaccare.
Ma il numero era quello di Meg Hudson.
Provai ad ignorare la suoneria per qualche secondo, ma il solo pensiero che stessi di nuovo agendo da immaturo mi spinse a rispondere.
E tutto divenne sfuocato.
Mi disse dove si trovava Cami e il mio unico pensiero fu che il coraggio che mi era mancato in questi mesi avrei dovuto tirarlo fuori adesso. Correre, sfondare la porte di quell'ospedale e arrivare in tempo per incontrare mio figlio.
Ebbene si, ora mi trovo accanto a lui, il nostro bambino, e posso confermarvi che si tratta di un maschietto.
E non mi importa più di niente al mondo se non della mia famiglia.
Impiegassi cent'anni a farmi perdonare da Camille, a farmi accettare dai suoi genitori e a spiegare tutto ai miei, direi che cent'anni non sono niente in confronto all'orgoglio che ho provato vedendo che Camille è riuscita ad affrontare tutto, da sola, senza arrendersi
e alla gioia che mi hanno trasmesso i due piccoli occhietti verdi di Andrew.
 
 
 
 
 
 
  
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