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Autore: cormac    08/02/2015    2 recensioni
Un’altra nota stonata.
Un’altra nota che storpiava quella canzone senza fine.
Un’altra nota che non avrebbe potuto sostituire a causa della sua maledetta debolezza.

[ karurichter - karlheinz/richter ] | [ lievi accenni alla karlheinz/christa ] | [ incesto e cose belle ]
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Richter, Tougo Sakamaki/Karl Heinz
Note: Lime | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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| Nda. – note dell'autrice!!
ehilà! non ne ho abbastanza di diabolik lovers e delle sue coppie strane, quindi mi sono decisa a scrivere qualcosa su una pair che negli ultimi tempi mi sta piacendo da morire: ciao karl, ciao rich
ci sono un paio di cosine da dire su questa ff: in primo luogo, mi sono basata su haunted dark bridal per quanto accade sulla vicenda di christa, infatti lei è morta, contrariamente a quanto succede in more,blood. poi, nei dialoghi di questa oneshot ci sono un paio di parole in tedesco: questo viene da una mia personale headcanon su karl e richter, secondo cui loro avrebbero origini germaniche (basta guardare i loro nomi TIPICAMENTE GIAPPONESI PROPRIO) so, ecco perché. spero che vi piaccia e che vogliate lasciare una recensione!







Ossia ;






“Ossia is a musical term for an alternative passage which may be played instead of the original one.”





“Les vrais délices passent par le supplice,
baisse les armes, donne tes larmes.”

-le bien qui fait mal, mozart l’opéra rock






Un tripudio di violini polverosi, giardini di rose recise e dura pietra nera; memorie e sottili ragnatele tipiche dell’abbandono. L’antico castello dei Sakamaki non era, e non sarebbe mai stato altro che una reliquia di tempi antichi ma non dimenticati dove, sotto un cielo di piombo, il diramarsi nei corridoi deserti somigliava ad uno scheletro annerito dalle intemperie. Il vento ululava tra le torri e s’infrangeva contro i vetri tremanti, secco ed inesorabile come i passi che si susseguivano uno dopo l’altro attraverso l’ampio e freddo salone, scanditi da un silenzio opprimente rotto soltanto dall’agitarsi delle fronde all’esterno. A Richter sembrò di stare camminando sott’acqua: nulla poteva pareggiare l’immobilità di quelle sale vuote o la loro quiete angosciosa quando tendeva l’orecchio.
Eppure sentiva che qualcuno c’era, lo percepiva. L’aria non era così irrespirabile, prova che qualcuno aveva aperto il pesante portone prima di lui, e nel salire a passo lento ma deciso i primi gradini della scalinata principale, un profumo familiare ed odiato s’insinuò nelle sue narici. Un profumo di rose e sangue, che conosceva fin troppo bene e che si era scoperto a desiderare.
Ormai non aveva più dubbi su chi l’avesse preceduto.


I déjà-vu erano all’ordine del giorno dopo duemila anni di vita, perciò, quando Karlheinz venne assalito da uno di essi, non si scompose più di tanto. Ricordava ogni centimetro, ogni crepa della pietra dura di quella torre, che aveva visto ogni sorta di abuso fisico e psicologico. La torre di Christa. Com’era nostalgico tornarvi e non respirare più il profumo della sua pelle. Della sua paura.
Eppure qualcun altro stava per arrivare. Lo aveva visto avvicinarsi attraverso i vetri ed aveva sorriso tra sé e sé, il sorriso di un predatore che pregusta una buona caccia, per cui attese pazientemente che il pesante portone della torre si schiudesse con un sinistro cigolio, eloquente testimone dell’attività della ruggine, e Richter facesse il suo ingresso nella gelida stanza. Gelida? Oh, l’albino si accorse di quanto fosse effettivamente freddo l’ambiente soltanto quando udì il flebile sospiro del fiato del fratello minore, che doveva sicuramente aver soffiato nell’aria una nuvoletta di condensa. Non si era ancora voltato, ma non ne aveva bisogno per conoscere l’espressione che albergava sul volto cupo di Richter.

Quell’odio lo divertiva e lo eccitava.

«Se vieni ancora qui inizierò a pensare che ti importasse qualcosa di lei».
Fu Richter a parlare per primo; la sua voce uscì dura e arrochita dal freddo. O forse era solo la presenza dell’altro a renderlo così insofferente.
«Sei tu quello particolarmente ossessionato dal passato, Richter. Credevo avessi imparato a distinguere la premura dai capricci» il tono morbido e mellifluo di Karlheinz fu una dolorosa stilettata per il minore. Aveva sperato nella manifestazione di una qualche debolezza nell’altro, forse evocata dal ricordo di Christa, ma Karl si era confermato per ciò che era: uno spietato bastardo opportunista. Lo aveva sempre saputo, lo aveva provato sulla propria pelle; quando era venuto il momento, si era persino interrogato se non fosse il caso di intervenire in favore della madre di Subaru, ma aveva infine decretato che non erano affari suoi. Eppure quando vide il cadavere di quell’anima infelice pugnalato al cuore dal suo stesso figlio, poté tastare con mano l’elegante crudeltà del fratello. Un brivido aveva corso lungo la sua schiena, e aveva più tardi realizzato di che natura fosse: ammirazione. Sepolto sotto l’odio ed il complesso d’inferiorità, si annidava un bruciante desiderio di essere come lui.

Un tale desiderio era inaccettabile.

«Non sai mentire, anche se continui a provarci».
Finalmente Karlheinz lo degnò del suo sguardo; si voltò e gli puntò addosso quelle iridi d’oro fuso, in parte irritate ed in parte divertite. Richter era sicuro di cogliere una palese sfida in quegli occhi, ed in quelle labbra che si incurvavano in un accenno di sorriso, scoprendo leggermente i canini appuntiti.
«Non ho segreti per te fratellino, sai anche tu che ho amato quella povera sciocca, ma non è per lei che sono qui». Stavolta fu il turno del minore di esibire un sorriso sardonico, privo di gioia.
«Il fatto che tu conosca il significato della parola “amare” è una novità».
Karlheinz non rispose, ma proruppe invece in una bassa risata; che alle sue orecchie non parve altro che una nota stonata che avrebbe volentieri sostituito con una più dolce ed armoniosa, magari un lamento di dolore. Ma il brano era già stato scritto e Richter non poteva far altro che suonare in silenzio le note del suo odio, senza poter modificare in alcun modo quella lenta melodia di perdizione che era il suo legame con il fratello maggiore. Legame.
Quella parola aveva un sapore disgustoso nella sua bocca. Avrebbe preferito bere veleno che pronunciare quella parola in quel contesto. Non ci doveva essere nessun legame tra lui e Karlheinz, eppure eccolo lì, impantanato nell’esitazione dell’impotenza ed in un odio senza valvola di sfogo. Desiderava recidere quel legame infruttuoso una volta per tutte. Ecco perché era lì.
«Sei qui per insegnarmelo?».
Richter lo graffiò con lo sguardo, serrando i denti attorno ad un morso d’aria che gli impediva di slanciarsi in avanti, in un attacco avventato e disastroso. Era smanioso, ma non imprudente. Non avrebbe permesso alla paura di intromettersi nella sua ascesa al potere, ma nemmeno di farlo uccidere. C’era troppo: troppo da fare, troppo da ottenere, troppo da diventare.
E quando fu sul punto di dire qualcosa, Karlheinz lo precedette, avanzando nella sua direzione di qualche passo, sufficiente ad allarmarne i sensi.
«Sei così banale da farmi quasi tenerezza, Bruder» commentò, ma Richter notò uno sguardo freddo come la roccia ed un’espressione tutt’altro che intenerita. Come riuscisse ad usare un tono tanto vellutato e carezzevole anche quando era sulla soglia dell’ira, il minore non avrebbe mai saputo spiegarselo. Ma non ci fece neppure caso in quel momento: nelle orecchie gli rimbombava prepotentemente l’infrangersi del suo orgoglio ferito, e tutto ciò che voleva era vendicarlo.
Vendicare tutto. Tutta l’umiliazione di essere un cadetto, un’ombra, il riflesso della grandezza del suo sangue, ma non completamente sua. Il morso venne ridotto a brandelli mentre sfoderava un pugnale e con esso tentò un affondo, mirando al petto del fratello. Ma era nulla una pugnalata in confronto a ciò che immaginò Karlheinz avesse in mente per lui nel momento in cui incrociò il suo sguardo e il suo attacco venne stroncato sul nascere da una presa ferrea e dolorosa. Era nulla in confronto a ciò che provò quando udì il tintinnio dell’oggetto affilato che cadeva a terra, seguita da un’altra flebile risata.

Un’altra nota stonata.

Un’altra nota che storpiava quella canzone senza fine.

Un’altra nota che non avrebbe potuto sostituire a causa della sua maledetta debolezza.

Era nulla. Era nulla in confronto al dolore sordo dell’inadeguatezza. Gli faceva male il petto sebbene nulla vi battesse dentro. Crebbe in lui il desiderio di raccogliere quel pugnale per squarciarsi la carne e controllare se davvero il suo cuore non stesse battendo. Avrebbe fatto meno male che sentire le dita di Karl stretta attorno al suo polso ed il suono bastardo e piacevole della sua risata che spezzava il silenzio. Avrebbe fatto meno male. Quelle sensazioni erano troppo umane.

Avrebbe fatto meno male.

«Non impari mai, fratellino. Non ricordi quante volte è successo tutto questo? Volevi Cordelia, volevi il comando, volevi il potere. Hai sempre lottato per ciò che non potevi e non puoi ottenere. E non ricordi com’è finita tutte le volte? ».
Ogni parola era peggiore di qualsiasi pugnalata. Avrebbe voluto strappargli la lingua e cucirgli la bocca, fare in modo che non potesse più sussurrare quelle parole tanto vere quanto dolorose, le parole che più di tutte non voleva sentirsi dire.
Eppure quella voce era lì, a mormorare note che non avrebbero mai potuto essere modificate, e le labbra di Karl vicine al suo orecchio per assicurarsi che non si perdesse nemmeno una sillaba, mentre con la mano libera gli scostò i capelli in modo da scoprire il collo.
«Nel caso tu l’abbia dimenticato, ti rinfrescherò la memoria» soffiò vicino alla sua pelle, prima di affondarvi i canini acuminati. Una scarica di dolore attraversò Richter. Eppure si scoprì a preferire quello piuttosto che ascoltare la voce profonda di Karlheinz sussurrargli la verità.
E si maledisse, perché quando quel dolore si dissipò, venne pervaso dal piacevole tepore di sentirsi la propria vita succhiata via, la beatitudine dell’oblio e, a seguire, l’eccitazione sessuale. Era poco saggio mettersi contro Karlheinz, ma totalmente folle era abbandonarsi a lui.
Ma era meglio trovare un piacere malato eppure appagante che fare una strenua ed inutile resistenza. Chissà che l’albino non lo sapesse sin dall’inizio, nel momento in cui il minore aveva fatto il suo ingresso nella torre, che sarebbe finita così. Richter trovò così amaramente ironico che fosse in quella torre che Karl aveva scelto di vederlo e sottometterlo; quanto fango stava gettando sulla memoria di Christa con un solo morso? E quanto lui, che stava persino ricavando piacere da tutto quello? Trovò paradossalmente divertente che in fin dei conti si trovasse nella stessa situazione di quella donna. Erano entrambi vittime di loro stessi, prima che di Karlheinz. Poi in lui si insinuò qualcos’altro, qualcosa che non avrebbe mai ammesso di provare nemmeno nei suoi sogni più sfrenati, qualcosa che aveva iniziato a corroderlo molto tempo prima e molto più di quanto facessero le mani ed i denti del fratello: la gelosia. Una bruciante, malata gelosia. E per un attimo fu persino soddisfatto che si trovassero lì dentro e che lo spirito di Christa potesse guardare l’uomo che l’aveva amata e distrutta ritrovare il piacere provato con lei nella carne di suo fratello.
«Ah... hn... Karl...lass mich-» non riuscì a finire la frase, che le parole in quella lingua che sapeva di esotica durezza, il tedesco che era loro e loro soltanto, vennero soffocate dall’intrusione della lingua Karlheinz nella sua bocca. Era troppo, ma anche troppo poco.
Quando sulla lingua percepì il sapore ferroso del proprio stesso sangue capì di avere un taglio sul labbro inferiore; ma il fastidioso bruciore servì a risvegliare la sua ragione, ciò che di lucido era rimasto in lui.
Accadde in un attimo, e con la forza, la volontà rimastagli, spinse via con violenza l’albino, ringhiando come una bestia. Non badò all’espressione sorpresa di Karlheinz, né al rivolo di sangue che gli colava dal taglio sul labbro e dai fori sul collo. Si alzò, scoprendo le gambe talmente deboli da essere quasi incapaci di sostenerlo, e si aggrappò ad una sporgenza nella roccia come se fosse l’ultimo scoglio prima del mare aperto.
«Non avrai nulla da me, schifoso bastardo» sputò a terra un grumo di sangue, e si avviò barcollando verso il portone della torre, non prima di aver lanciato al fratello uno sguardo pregno d’odio.
«Tornerai, Richter» fu la risposta di Karl, «Tornerai sempre».

Quanto quelle parole fossero vere, il minore non lo avrebbe mai ammesso.
Sì, sarebbe tornato per ascoltare di nuovo quella melodia di note seducenti e sbagliate.
La risata che lo accompagnò fuori dall’edificio gli suggellò quel contratto con una nota che si impresse nella sua mente con prepotenza.

Una nota ossia, tetra e profonda, di passione e rancore, che non sarebbe mai stata uguale alla strada che entrambi erano pensati per percorrere.
Una nota che avrebbero sostituito alla melodia originale e che avrebbero suonato insieme, da soli, per l’eternità.





Ma avrebbe fatto così male.

   
 
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